Angelo vendicatore

Svoltò l’angolo come un raggio di sole. Anche da lontano i suoi colori chiari, la luce degli occhi, si imponevano sull’anonimo grigiore della strada e dei muri, come un cono di luce fa vivere un’attrice nel buio di un palcoscenico.

La ragazza veniva verso di lui, svelta e sicura di sé, cosciente del fascino che sprigionavano le sue membra ben proporzionate, il corpo lungo e sinuoso, i capelli biondi ondeggianti.

Diego sentì accendersi un caldo guizzo di interesse. Accidenti, doveva essere un gran gnocca… e sarebbe per forza dovuta passare davanti a lui, sul marciapiedi: avrebbe avuto tutto il tempo di ammirarla con comodo. Per fortuna la persona che aspettava e che doveva vedere l’appartamento che lui cedeva in affitto era in ritardo.

La ragazza era ormai a pochi metri. Diego divorò con un’occhiata tutti i particolari: gli stivali a punta color cuoio, morbidi e trapuntati, che salivano oltre il ginocchio, i jeans che fasciavano due lunghe cosce delicate, un gilet in pelle sopra una camicia bianca, slacciata sfacciatamente fino a lasciar intravedere le piccole sfere candide di un seno squisito…

La ragazza era a pochi passi, rallentò e cominciò a fissarlo con intenzione, sorridente.

Ma… cosa diavolo stava succedendo, sembrava che quella gran bellezza cercasse proprio lui. Gli si parò davanti, lo stregò immediatamente con due occhi piccoli e brillanti come un’acqua cristallina colpita dalla luce.

«Il signor Gherardi?» chiese col gradevole accento di qualche paese lontano.

«Sì… buon giorno…» riuscì a balbettare Diego, lasciando la frase in sospeso.

«Sono Nadezhda, ho telefonato questa mattina per l’appartamento.»

«Ah, sì… mi scusi…» Diego cercava di riacquistare rapidamente un po’ di padro-nanza di sé stesso. «Mi ha preso in contropiede. Mi aspettavo un’altra persona: la voce al telefono…»

«Ha ragione… ha telefonato una mia conoscente, una signora più anziana. E’ lei che ha visto il cartello e ha preso l’appuntamento al posto mio.»

Parlava un italiano perfetto, con quella leggera inflessione dell’est europeo che faceva sfumare verso l’incantesimo la già forte seduzione degli occhi intensamente azzurri.

«Venga, le faccio vedere la casa.»

Diego si cercò in tasca un mazzo di chiavi, aprì il portone del palazzo e guidò la ragazza verso l’ascensore.

«E’ un piccolo appartamento, ci abitava una mia zia. E’ al terzo piano, è molto bello e luminoso, vedrà.»

Entrarono nell’ascensore e la forzata vicinanza ripiombò Diego nell’imbarazzo. Non poteva fare a meno di perdersi in quei lineamenti armoniosi, nella fronte ampia e luminosa… lei invece lo fissava senza imbarazzo, cordiale.

Finalmente arrivò il terzo piano. Una serie di operazioni pratiche consentì a Diego di liberarsi del lieve stato di confusione in cui la ragazza lo metteva. Aprì la porta, accese la luce nell’ingresso, alzò le tapparelle delle finestre, mostrò il bagno, la minuscola cucina, le altre stanze.

«Come vede è tutto molto in ordine: mia zia era una fanatica delle pulizie. I mobili non sono nuovissimi ma sono di buon gusto e tenuti molto bene.»

La ragazza annuì, si guardava intorno con molta attenzione ma la sua espressione era abbastanza distaccata.

«C’è una sola camera da letto» riprese Diego «come ho già spiegato al telefono. Voi in quanti verreste ad abitarci?»

«Io sono sola. Per me andrà benissimo», disse la ragazza in tono neutro.

Diego restò un attimo interdetto: era una risposta positiva? Lo prendeva così, senza discutere? Forse non aveva capito bene quant’era l’affitto?

«Mi imbarazza chiedere tanto di affitto… mi rendo conto che, col condominio, si arriva a quello che per molti giovani è uno stipendio mensile… ma in questa zona chiedono tutti così. Farei la figura dello stupido se chiedessi di meno.»

«La somma è quella che ha già detto al telefono? Non si preoccupi, i soldi non sono un problema.»

«Io… veramente… mi scusi, ma avrei bisogno di qualche garanzia. Anche perché, se per lei va bene, non le farei un contratto vero e proprio… sarebbe una cosa basata sulla fiducia reciproca, che a me converrebbe e lascerebbe tutti e due più liberi…»

«Per me va bene. Io lavoro in un locale molto noto, sono in regola e guadagno abbastanza: naturalmente potrà controllare, non c’è problema.»

Diego non credeva alla propria fortuna, gli era piovuta dal cielo un’inquilina perfetta: era d’accordo su tutto, sicura di sé, aveva deciso in una manciata di minuti, era di una bellezza straordinaria… sarebbe stato piacevole avere a che fare con lei. Decise di essere generoso.

«Di solito, soprattutto quando si tratta di stranieri, si chiedono delle caparre vergognose. Io chiedo solo un mese, tanto non sono soldi miei e glieli dovrò restituire. Più un altro mese per l’affitto anticipato.

Naturalmente se c’è qualcosa che non funziona, o se sentisse la mancanza di qualcosa, un mobile, una lampada… me lo dica liberamente e io cercherò volentieri di accontentarla.»

 

 

 

 

Si era fatto un gigantesco piatto di spaghetti, conditi con mozzarella di bufala e pomodorini freschi. Si era piazzato davanti alla televisione della cucina e si apprestava a gustarseli in compagnia di un vecchio film di spionaggio e di un mezzo litro del profumato sangiovese che si procurava direttamente da un contadino.

L’entusiasmo gli invadeva benefico il corpo e la mente. Il pensiero gli andava di continuo al vantaggioso contratto che aveva appena concluso: aveva in tasca due provvidenziali mensilità che avrebbero rimpolpato il suo traballante conto in banca. Non era molto ma non se l’era sentita di chiedere di più a quella fantastica ragazza: in fondo anche lei, come lui, doveva probabilmente districarsi tra mille difficoltà per arrivare a fine mese. Be’, ora per lui sarebbe stato un po’ più facile. Grazie all’appartamento ereditato da sua zia avrebbe integrato il suo non lauto stipendio. Avrebbe potuto finalmente permettersi qualche spesa in più, cambiare la macchina, fare un viaggio…

Nadezhda… impossibile impedire alla mente di  tornare a quel nome, a quelle immagini  rimaste impresse nella sua retina come luci abbaglianti. Nadezhda… come mai era sola?  Una ragazza così piacente… forse era reduce da un amore finito… ma chi era quell’imbecille che lasciava una donna simile? Forse aveva abbandonato al suo paese un marito violento? Aveva sentito dire che certi russi hanno con le donne un rapporto ignobile, fatto di sbornie, di violenza, di disprezzo… Forse Nadezhda era in fuga da un mondo simile, in cerca di una vita migliore? Inutile fantasticare. L’avrebbe conosciuta meglio in seguito. Aveva intenzione di vedere spesso la sua inquilina, con una scusa o con l’altra. In fondo era il padrone di casa.

E poi, tutto sommato, anche lui non era male. Si guardò allo specchio del salotto e raddrizzò istintivamente le spalle. Una collega dell’ufficio gli aveva detto che assomigliava a quell’attore… come si chiamava… Adrien Brody, quello che aveva fatto “Il pianista” di Polansky. In effetti aveva lo stesso ciuffo scuro e ribelle che gli cadeva di lato, l’aria malinconica e insicura che piace molto a talune donne… Però doveva acquistare maggior sicurezza. Purtroppo  il lavoro davanti al computer, a curare il sito internet ed eventuali ordini on line di un grosso produttore di vernici, non era di grande stimolo…

L’ingresso nella sua vita di quella magnifica donna poteva essere l’occasione giusta per darsi una mossa.

 

 

 

 

Si fece vivo già il giorno dopo, con la scusa delle bollette e del condominio. Si offrì di occuparsi lui di questi pagamenti, per facilitarle le cose, presentandole poi le ricevute ogni due mesi per farsi rimborsare. Nadezhda si dimostrò molto grata, gli disse che era molto gentile, con uno sguardo dolce, quasi sorpreso, e lui sentì  lo stomaco sciogliersi.

Le spiegò l’uso degli elettrodomestici, anche se la ragazza lo fissava pazientemente  con aria ironica: era molto svelta e non aveva certo bisogno di spiegazioni, ma lui non si decideva ad andarsene. Scoprì che veniva da un paesino a pochi chilometri da San Pietroburgo, che il suo nome in russo significava “speranza”, che il suo cognome era Poljakova. Scoprì anche che dietro la luce allegra dello sguardo si celava un azzurro più cupo, l’ombra appena accennata di un passato che aveva lasciato il segno. Anche la voce aveva a tratti alcune inflessioni che lasciavano intendere come potesse essere usata anche per minacciare, sfidare, sferzare con un insulto.

Tornò a casa ancora più stregato, ma con un fastidioso senso di inquietudine. Aveva dato il suo appartamento a una perfetta sconosciuta… senza niente di scritto… era il solito imbecille… Gli aveva detto che faceva la barista in una discoteca famosa, l’aveva sentita nominare un mucchio di volte. Ma le bariste guadagnavano tanto da potersi permettere un affitto così alto? Si tranquillizzò decidendo che alla prima occasione sarebbe andato a controllare.

 

 

 

La discoteca Mirage brillava in alto sulla collina sprigionando nella notte irreali luci colorate, una visione onirica che aveva ispirato il suo nome. In lontananza la lunga insenatura della costa, punteggiata anch’essa di luci, lasciava intuire il mare.

Diego parcheggiò la sua vecchia Punto grigia in un posto rimasto fortunosamente libero, tra due auto sicuramente più costose e grintose della sua.

L’ingresso lo inghiottì senza complimenti, sbattendolo di colpo in un mondo allucinato, dove le percussioni violente si impadronirono del suo corpo e i bagliori di luci rossastre gli offuscarono vista e mente. Angoli scarsamente illuminati lasciavano intuire una folla chiassosa e indistinta, in perenne movimento come l’acqua schiumosa di una scogliera.

Diego si fece strada tra corpi accaldati e odori, bicchieri ondeggianti e scollature generose, cercando di orientarsi e capire la struttura del locale. Vide in lontananza una sfilata multicolore di bottiglie e capì che quello era il bar. Con qualche difficoltà riuscì a raggiungere il banco e appoggiarvisi coi gomiti. Due ragazze e due ragazzi, con identiche divise nere, attillate e decorate unicamente dal logo in strass del locale, stappavano bottiglie, riempivano bicchieri, facevano tintinnare cubetti di ghiaccio, ad una velocità frenetica, senza smettere di sorridere e conversare con i clienti.

Purtroppo nessuna delle due ragazze corrispondeva a Nadezhda. Be’… sarebbe stato troppo facile. Diego riuscì ad attirare l’attenzione di uno dei barman e gli consegnò il buono per la consumazione che gli avevano dato all’ingresso.

Dovette ripetere l’ordinazione due volte e alla fine, per farsi sentire, si adeguò al  frastuono dell’ambiente e gridò:

«Un gin tonic!»

Il cameriere gli sorrise con comprensione, sicuramente aveva capito che era un novellino di quell’ambiente… Quando tornò da lui con l’ordinazione, Diego gridò di nuovo:

«Scusa! Cercavo Nadezhda! Non lavora stasera?»

Il ragazzo lo guardò con aria perplessa:

«Non c’è nessuna Nadezhda qui.» E subito fu risucchiato dal ritmo pazzesco del suo lavoro.

Diego esitò un attimo. Non ebbe il coraggio di insistere. Si divincolò dalla ressa del bar e si allontanò sorseggiando pensieroso dal suo bicchiere. Maledizione… doveva immaginarselo… la ragazza lo aveva fregato e lui, come al solito, si era fatto incantare. Come al solito. Uno sguardo, due belle tette, due gambe lunghe… e lui diventava un perfetto imbecille.

Si fece strada tra le figure indistinte che bevevano, ridevano fragorosamente, accennavano passi di danza. Fu attirato da un punto della sala più illuminato, una specie di palco, intorno al quale i ragazzi si accalcavano maggiormente. Il chiasso qui si era trasformato in brusio e sembrava lasciar intendere un senso di eccitata aspettativa. Osservò meglio: il palco era una semplice pedana rialzata, comple-tamente rivestita di moquette rossa. Sullo sfondo una pesante tenda blu scuro era illuminata  da un cerchio perfetto di luce azzurrina. Al centro del palco un’asta cromata, grossa e lucida, si perdeva nel buio verso l’alto. Diego la fissò incuriosito e affascinato: accidenti… stava evidentemente per avere inizio uno spettacolo di lap dance.

La musica esplose improvvisa con una sequenza di colpi ritmati. Un attimo di silenzio e la sequenza ritmica si ripeté identica, più violenta, scuotendo i corpi e imponendo il silenzio. Un attimo di pausa e l’onda piena di violini e strumenti a fiato fece vibrare l’aria con forza, mitigata da sensuali inflessioni orientali. La ragazza apparve dal nulla al centro dell’alone luminoso. Portava un succinto due pezzi di lustrini blu  e sandali dal tacco altissimo, dello stesso colore. Coperta di lustrini era anche un’elaborata mascherina che le copriva la zona alta del viso, attirando l’atten-zione con la sua piccola dose di mistero. Attenzione che, comunque, si concentrava quasi totalmente sul corpo chiaro, esibito con naturalezza, incredibilmente provocante nella semplice perfezione delle sue linee. La bocca, scarlatta e impassibile, completava l’effetto di un fascino ipnotico. Diego era ammutolito, come tutti.

La ragazza si avvicinò lentamente all’asta lucida, cominciò ad accarezzarla, poi si avvinghiò ad essa come un serpente, se ne allontanò, si avvicinò di nuovo, si strofinò con tutto il corpo: un assurdo dialogo di seduzione tra una donna e un oggetto che, di riflesso, sembrava quasi animarsi. L’effetto sui maschi, chiaramente leggibile sui loro volti, era di una intensa eccitazione. Il ritmo della danza, sincronizzato perfettamente a quello prepotente e incalzante della musica, non dava tregua, conducendo irresistibile verso un liberatorio finale orgasmico.

Diego partecipava solo in parte al rito orgiastico collettivo: fissava con acuto interesse  la ragazza, cercava di riconoscere nei movimenti un corpo che conosceva, intuire dietro la maschera lineamenti noti: più la guardava, più si convinceva che si trattava di Nadezhda. Ma sì, ora si era lasciata sfuggire un sorriso, era lei, non c’era dubbio. Be’… niente di strano che usasse un altro nome per fare quello che faceva…

Un giovane accanto a lui, sembrava particolarmente entusiasta. Gli aveva lanciato qualche occhiata complice e, nel momento in cui la ballerina eseguiva un’evoluzione particolarmente complessa, gli assestò una gomitata e gli gridò:

«Grande fica, eh?»

Diego lo odiò immediatamente. Gli rispose con una smorfia poco convinta. Che diavolo voleva quello lì? Come si permetteva? Ma poi pensò che una conoscenza in quell’ambiente poteva tornargli utile.

Attese la fine dell’esibizione, partecipò convinto all’applauso frenetico che sommerse la ballerina e seguì il ragazzo che gli aveva rivolto la parola.

Lo avvicinò in una zona meno affollata e un po’ più silenziosa. Si fece riconoscere con un sorriso di intesa:

«Ciao! Bello spettacolo eh?»

«Puoi dirlo forte. A me quella mi arrapa come una bestia.»

Diego represse di nuovo l’antipatia istintiva.

«Sai come si chiama?»

«Lo sanno tutti, è famosa. Si chiama Irina. Ma se ci hai fatto un pensierino, scordatela. Nessuno è mai riuscito a parlarle.»

«No… chiedevo solo così… per sapere… è la prima volta che vedo una lap dance.»

«Intanto non è una lap… è una pole dance.»

«Vedo che sei un esperto…»

«In Italia il termine lap dance è usato erroneamente per indicare le evoluzioni alla pertica che abbiamo appena visto, e che si chiamano appunto pole dance. Nella lap invece lo spettatore è seduto e la ballerina si trova in contatto fisico con lui, o molto vicino. Lap, se non lo sai, in inglese vuol dire “grembo”.»

«Però, sai tutto… mi sono fatto una cultura stasera.»

 

 

 

Diego tornò a casa guidando con cautela: era completamente frastornato dalla musica, dal bere, dalla confusione e, soprattutto dalle immagini folgoranti di Nadezhda che ballava. Ballava… era un termine riduttivo! In realtà faceva affiorare alla coscienza, come un abile psicanalista, le tensioni erotiche più profonde, ridestava e rimescolava istinti sopiti, materializzava l’essenza della femmina e del suo potere di attrazione sul maschio come risultato catartico di un rito propiziatorio corale.

E lui aveva libero accesso a quella donna irraggiungibile! Poteva parlarle, vederla da vicino, cosa che nessuno a quanto pare riusciva a fare…

Cosa stai facendo, imbecille? Non ti starai mica innamorando? Sei scemo, disse ad alta voce, quella non è per te. Eppure… Doveva trovare il modo di vederla più spesso. Cambiare il rapporto da padrone di casa a inquilina. Però… domani… adesso era distrutto.

 

 

 

Andò a trovarla con una scusa. La bolletta della luce gli sembrava troppo alta, voleva controllare che fosse tutto in ordine. Lei fu cordiale ma in po’ fredda. Gli faceva fretta? Voleva liberarsi di lui alla svelta? O era solo un’impressione…

Ma vederla, parlarle, era già un’emozione… poteva immaginare sotto i suoi abiti, senza grande sforzo, la nudità generosamente esibita durante la danza.

Attese qualche giorno e si appostò davanti al palazzo in cui si trovava  l’appartamento che le aveva dato in affitto. Suonò il campanello varie volte a vuoto per accertarsi che non fosse in casa e poi parcheggiò la macchina in modo da tener d’occhio le due direzioni da cui poteva provenire. Si mise in paziente attesa: si era portato qualcosa da leggere e accese lo stereo a basso volume. Era quasi mezzogiorno: probabilmente sarebbe dovuta rientrare… se pranzava in casa. E se c’erano altre ipotesi? Insomma, prima o poi doveva pur passare. Era disposto ad aspettare anche delle ore… Si sentiva forte e determinato come un adolescente in piena esaltazione da innamoramento.

Dopo meno di un’ora la sua costanza fu premiata. Vide l’inconfondibile figura di lei sbucare in fondo al viale. Si affrettò ad uscire dalla macchina e si incamminò verso la ragazza sforzandosi di assumere un atteggiamento disinvolto: doveva apparire un incontro fortuito.

Cominciò a sorriderle da lontano e arrivato a pochi passi rallentò e accennò a fermarsi, facendo chiaramente intendere col linguaggio del corpo la sua intenzione di attaccare discorso.

«Buon giorno!» disse con entusiasmo. «Che incontro fortunato!»

La ragazza gli lanciò un rapido sguardo indifferente.

«Buon giorno…» rispose in tono neutro, col viso impassibile, senza nemmeno l’accenno di un sorriso. E proseguì per la sua strada senza fermarsi, senza nemmeno rallentare.

Diego restò un attimo interdetto. Sorriso ed entusiasmo si spensero come il lento calare di una nota stridente. Guardò la ragazza allontanarsi e scomparire dentro il portone.

 

 

 

Nello scoramento dei giorni che seguirono si affacciò d’un tratto un piccolo colpo di fortuna. Al primo incontro, quando lei gli aveva esibito i propri documenti, si era annotato, tra l’altro, anche la data di nascita e ora, nel confuso rincorrersi di pensieri che ogni giorno lo perseguitava, realizzò che da lì a poco sarebbe stato il compleanno di Nadezhda. Era una grande opportunità! Avrebbe potuto far colpo su di lei mandandole un regalo… no, meglio dei fiori: tutte le donne hanno piacere di ricevere dei fiori… e avrebbe potuto anche aggiungere un biglietto facendo intuire quali erano i suoi sentimenti… Sì, avrebbe fatto così. Immediatamente sentì rinascere l’entusiasmo.

Attese con ansia il giorno giusto e nel frattempo studiò la forma giusta, le parole più appropriate per il biglietto. In ufficio, invece di lavorare, compilava di nascosto decine di foglietti, che finivano regolarmente fatti a pezzi e buttati nel cestino.

Alla fine si sentì abbastanza soddisfatto di una redazione che decise essere quella definitiva e che ricopiò su un elegante cartoncino:

“Cara Nadezhda. Noi non siamo molto in confidenza, ma, conoscendo la tua data di nascita, mi è sembrato giusto farti gli auguri per il tuo compleanno. Invece che un regalo (non saprei proprio cosa ti potrebbe piacere…) ti mando dei fiori, anche perché  esprimono meglio una cosa che non ho il coraggio di dirti a parole: dal primo momento in cui ti ho visto ho provato per te una fortissima attrazione. Certo tu sarai abituata a queste dichiarazioni, ma mi faccio coraggio e te lo dico ugualmente perché sono i miei reali sentimenti. Diego.

P.S. Ti ho visto ballare! Sei bravissima e bellissima!”

Allegò il biglietto a un mazzo di rose, tormentò la fioraia con mille raccomandazioni infine si decise a dare il via all’operazione. Tornò a casa con la mente leggermente offuscata e si dedicò alle solite attività in modo automatico, tenendo il cellulare ininterrottamente in vista e a portata di mano. Prima o poi lei avrebbe chiamato. Il cuore aveva adottato un ritmo leggermente più veloce del normale, ma forte e costante.

 

 

 

Quella sera non chiamò. E neanche il giorno dopo. Diego era disperato, non sapeva cosa pensare. Tornò dalla fioraia che lo guardò con aria compassionevole e gli assicurò che aveva recapitato personalmente il mazzo. Era dovuta andare due volte a quell’indirizzo. La prima volta non aveva trovato nessuno, ma la seconda aveva consegnato i fiori in mano a una ragazza bionda, che l’aveva ringraziata con un bel sorriso.

Ma… perché non ringraziava anche lui? Perché non lo chiamava? Forse aveva esagerato? Aveva fatto una mossa sbagliata? Diego si torturò con mille dubbi per tutti i giorni che seguirono. Il suo gesto non aveva avuto seguito. Perché? Bella domanda! Forse nel paese di lei la donna doveva essere riservata? Forse doveva chiamarla e chiederle se le erano piaciuti i fiori? Ma no! Che figura del cavolo!

Decise di non far nulla e attendere. Tanto prima o poi l’avrebbe rivista: non mancava molto alla scadenza del primo mese. Avrebbe dovuto pagargli l’affitto.

 

 

 

Il primo giorno del nuovo mese trascorse senza che lei si facesse viva. Diego passò le ore in un penoso stato di attesa. Dàì, non fare il cretino… si farà viva domani. Mica posso starle addosso in maniera così fiscale… All’inizio si è comportata come una vera signora… non posso farle pressioni. Ci faccio una figura meschina…

Il secondo giorno lo stato d’animo di Diego subì una piccola variazione: il senso di incertezza e di aspettativa divenne ansiosa apprensione. Nel tardo pomeriggio si decise a passare sotto le finestre di lei: alcune tapparelle erano alzate, le luci erano tutte spente, nonostante la stagione avesse ormai anticipato le ore di buio.

Al terzo giorno lo assalì una fastidiosa inquietudine. Non c’è niente di peggio che restare nel dubbio… ma cosa mi costa telefonare? Forse non mi risponde neanche… E se risponde? Faccio la figura di quello che non ha avuto un minimo di fiducia…

Ma è casa tua, deve pagarti l’affitto! Sono proprio stronzo…

Per uscire dall’angosciosa incertezza si diede un termine: cinque giorni. Il quinto giorno avrebbe telefonato…

Al decimo giorno aveva collezionato varie serie di squilli a vuoto o ascoltato fino all’esasperazione il messaggio beffardo “l’utente da lei chiamato non è momentaneamente raggiungibile”.

Cominciò seriamente a temere il peggio. Non tanto per il denaro… aveva un mese di caparra… ma se lei se n’era andata a tradimento gli toccava ricominciare da capo…

E dove l’avrebbe trovata un’altra così.

Doveva fare qualcosa. Doveva accertare che fine aveva fatto la ragazza. Per prudenza aveva tenuto una copia delle chiavi, che ovviamente non avrebbe mai usato… ma questo era il momento di farsi coraggio e andare a vedere cosa succedeva.

Gli sembrava di essere un ladro mentre si introduceva furtivamente in quella che tutto sommato era casa sua e che aveva aperto con le sue chiavi.

«Nadezhda!» chiamò ad alta voce, senza osare inoltrarsi nell’appartamento.

«Nadezhda!! Sei in casa? Non spaventarti, sono io…»

Silenzio. Accese le luci per farsi coraggio e si guardò intorno. Passò lentamente da una stanza all’altra, oppresso da un forte disagio: gli sembrava di penetrare nell’intimità di un’altra persona, di spiare senza essere visto.

Sembrava che la ragazza avesse abbandonato l’appartamento in fretta. Le sue cose erano ancora tutte in giro, il letto era sfatto, in cucina un paio di piatti con residui di cibo erano ancora nel lavandino.

E va bene: giochiamo al detective. Cerchiamo di esaminare bene tutto e vediamo se riusciamo a capire cosa può essere successo.

Il frigorifero era in funzione, ma conteneva pochissime cose. In un pensile, che aveva evidentemente la funzione di dispensa, qualche scatoletta, barattoli di marmellata e alcuni pacchi di biscotti. Alcune carte, appoggiate su un ripiano, erano di scarso interesse.

Guardiamo in camera da letto. La sua attenzione fu subito attirata dal pungente e dolciastro odore di fiori appassiti: in un vaso sopra il comodino languivano le sue rose. Sotto il vaso il biglietto che lui le aveva mandato insieme ai fiori. Provò una stretta al cuore. Allora i fiori le erano piaciuti, per alcuni giorni li aveva tenuti accanto a sé. E il biglietto? Era lì, in bella mostra… forse lo aveva letto e riletto… che cosa avrà pensato, provato… forse… ma no, stiamo coi piedi per terra. Questa è scomparsa di punto in bianco come una delinquente…

Esaminò i cassetti e l’armadio senza trovare altro che una collezione di graziosa biancheria, il sensazionale due pezzi che portava per lo spettacolo, un guardaroba elegante ma tutto sommato modesto. Anche il bagno non fornì alcuna considerazione interessante: i soliti vasetti, flaconi e barattoli, l’attrezzatura di ogni donna.

Niente. Niente che potesse fornire un qualsiasi indizio.

Nadezhda era scomparsa senza lasciare tracce.

 

 

 

Disagio esistenziale era l’unica espressione che gli veniva in mente per definire il proprio stato. Da qualche giorno fluttuava in uno stato di provvidenziale apatia che gli consentiva di non prendere in esame lucidamente la delusione e lo sconforto provati. Come uno svenimento, che spegne la luce su un dolore troppo intenso o che rimuove uno spavento che non si può tollerare.

L’entusiasmo e il senso di aspettativa gli avevano gonfiato la corrente sanguigna di esaltante energia: ora una inattesa realtà di segno negativo gli aveva creato un contraccolpo che lo aveva sospeso in una dimensione parallela.

Lo sapeva che non doveva innamorarsi… Sarebbe bastato non pensare a lei, ignorarla… e invece… appostamenti, fiori, biglietti, fantasie. E che altro doveva fare? Lei era troppo bella.

 

 

 

Telefonò qualche giorno dopo. Sentire la sua voce fu come una percossa sul cuore.

«Buona sera, signor Diego… sono io, Nadezhda.»

«Nadezhda…» riuscì a balbettare. «ma…che fine hai fatto?»

«Io… sono molto imbarazzata… la prego di scusarmi… ma sono dovuta partire all’improvviso.»

«Ma… potevi almeno avvertirmi. Non sapevo cosa fare con l’appartamento.»

«Lo so, lo so, ma io dovevo… scomparire. Scomparire alla svelta. Io… voglio parlarle. Le spiegherò tutto. Non voglio che mi giudichi male.»

«Ma cosa dici… io non ce l’ho con te. Avrai i tuoi buoni motivi…» Giudicarla male! Ma lui l’avrebbe abbracciata! L’importante era sentire la sua voce, rivederla. Si sentiva soffocare dall’emozione. Si rese conto in un attimo della calda, intollerabile tenerezza che lei gli provocava.

«Senta: non ho molto tempo», lo interruppe lei. «Vediamoci questa sera alle 11 nel parcheggio del Mirage. Ci sarà molto confusione e nessuno farà caso a noi. Ho una Cinquecento gialla che mi hanno prestato. Salga in macchina senza dire niente: ci scambieranno per una coppia e potremo parlare.»

«Ma…». Diego voleva chiedere, dire… ma lei aveva parlato in fretta, con tono baso e teso. Lo interruppe nuovamente.

«Ora devo andare. Segua le mie istruzioni. Parleremo stasera.»

Chiuse la comunicazione e non gli diede il tempo di aggiungere altro. Ma Diego era già ubriaco di felicità.

 

 

 

Individuò quasi subito la piccola auto gialla che spiccava in una zona poco illuminata del parcheggio. Nadezhda si era spostata sul sedile del passeggero. Aveva i capelli raccolti in un foulard e portava gli occhiali da sole, nonostante il buio, ma Diego riconobbe subito il profilo di eccezionale purezza. Aprì lo sportello e si sedette al posto di guida senza dire nulla, come gli era stato ordinato. Il cuore cominciò a farsi sentire, nella gola e nelle tempie.

«Mi dispiace per tutta questa messa in scena, ma devo stare nascosta. Quando le avrò raccontato tutto potrà capire.»

«Nadezhda… non puoi immaginare quanto sono contento di vederti. Naturalmente non per l’appartamento… E’ che mi ero già affezionato a te… mi rendo conto che è una cosa stupida…»

«No, non dica così.» Si tolse gli occhiali scuri, fece balenare un breve sorriso nel buio e gli posò una mano su un braccio. «Non deve aver paura dei suoi sentimenti.»

Diego sentì bruciare la mano di lei sul suo braccio. Si sforzò di restare indifferente e cercò di cambiare discorso.

«Prima di raccontarmi quello che mi devi raccontare devi farmi un favore. Io ti do del tu e tu mi dài del lei: è imbarazzante. Non sono poi così vecchio…»

«Va bene. Mi sforzerò di non darti del lei. Era solo un segno di rispetto… Però tu non chiamarmi più Nadezhda, tutti mi chiamano Nadia: è un diminutivo. Nadezhda è un nome troppo importante, si chiamava così la moglie di Lenin, ma io non lo sopporto…»

«D’accordo… Nadia. Ma adesso dimmi perché mi hai fatto venire qui. Muoio dalla curiosità.»

Il viso di Nadia si indurì di colpo. Il momento di cordialità era svanito in fretta. La ragazza fissò un punto lontano nella notte, oltre il parabrezza e Diego si ritrovò a guardare il bel profilo pallido e corrucciato.

«E’ una storia lunga, lunga e triste», disse Nadia con un profondo sospiro. «Non so neanche da dove cominciare…»

Restò un attimo pensierosa, poi riprese.

«Tutto ha inizio con la malattia di mio padre.

Cominciò a manifestare segni di irritabilità e di aggressività, cui succedevano episodi di apatia e di tendenza all’isolamento. Lì per lì io e mia madre non vi demmo importanza, ma poi cominciò a essere impacciato nei gesti, faceva movimenti involontari, si sbilanciava e perdeva l’equilibrio. La ricerca del medico che ci facesse una diagnosi giusta fu un calvario. Qualcuno ci disse che era schizofrenico, o che aveva il morbo di Parkinson, o che si trattava di demenza senile, finché a San Pietroburgo trovammo un medico molto preparato che ci diede una certezza, per quanto drammatica: si trattava di una malattia rara ma ben conosciuta, il morbo di Huntington. Il nome deriva da quello del medico americano che per primo la descrisse nell’Ottocento, chiamandola “Corea”, che, forse lo saprai,  in greco significa danza. Il riferimento alla danza è dovuto agli strani movimenti che il paziente compie involontariamente. La cosa più buffa è che io faccio la ballerina: mi è andata bene visto che la malattia è ereditaria.»

Diego stava per sorridere a questa battuta: nonostante i gravi fatti che stava narrando la ragazza era capace di fare dello spirito… ma si trattenne. L’espressione dolente di Nadia non era cambiata. Anzi, lo sguardo cominciava a luccicare nel buio per un velo di pianto.

«Naturalmente la prima domanda che facemmo fu: come si può curare? Purtroppo la risposta era scoraggiante. Non c’è terapia risolutiva per questo disturbo ma alcuni farmaci possono alleviare i sintomi e rallentare il decorso della malattia. Il medico ci disse che c’erano dei farmaci nuovi: si sarebbe informato e ci avrebbe chiamato lui. Era veramente una brava persona…

Qualche giorno dopo imparai i nomi impossibili di due medicine, nomi che non scorderò mai: la Xenazina e l’Aloperidolo. Dall’associazione di queste due specialità dipendeva non la guarigione, per mio padre, ma almeno una vita abbastanza tollerabile. Il problema era che queste medicine nel nostro paese erano difficili da trovare…»

Deglutì e fece una pausa. Diego era immobile, non sapeva cosa dire o fare, da un presente di bellezza e di sentimenti amorosi era stato di colpo sprofondato in un passato di sofferenze. Azzardò una domanda, se non altro per far vedere la sua partecipazione:

«E allora? Come avete fatto?»

«Scoprii il lato combattivo e tenace del mio carattere. Andai in biblioteca e studiai la malattia. Lessi tutto quello che mi capitava sulle medicine. Parlai con i medici di molti ospedali e con i farmacisti. E finii con l’incontrare una persona che sembrò risolvere come per incanto ogni problema. Mi disse che si occupava appunto di importare medicine rare dal luogo di produzione per rivenderle dove ce n’era necessità. Mi sembrò molto competente e sicuro di sé. Disse che non c’erano problemi a procurarmi quelle due specialità.»

«Bene! Una buona notizia finalmente…»

Nadia scosse la testa, il suo tono divenne amaro.

«No… fu l’inizio della tragedia…»

La sua voce si era incrinata. Stette un attimo in silenzio, come per riprendere il controllo, poi chiese in tono neutro;

«Cosa sai del traffico di medicinali contraffatti?»

«Veramente… non molto… Scusami, non vorrei che mi giudicassi indifferente a quello che mi racconti… io… sono addolorato, davvero, ma mi hai trasportato in un mondo che non conosco, che non mi aspettavo.»

«Scusami tu… non ho il diritto di scocciarti con le mie tristezze. Ma è l’unico modo di spiegarti tutto. E poi… sei l’unico a cui mi posso confidare…»

Diego non replicò. Ricacciò in gola il nodo che gli si era formato. Prese una mano della ragazza e la strinse con delicatezza, sperando che questo gesto comunicasse tutta la sua partecipazione. Nadia non ritrasse la mano, ma continuò a guardare lontano.

«La gente non lo sa ma il fenomeno della produzione e vendita di farmaci contraffatti ha assunto negli ultimi venti anni proporzioni notevoli. E’ una gravissima minaccia per la salute pubblica: le medicine contraffate possono determinare la resistenza a quelle vere e peggiorare le condizioni di salute. Cina ed India sono i maggiori produttori, ma negli ultimi anni anche i paesi dell’Est europeo, Russia ed Ucraina in particolare, sono entrati nell’affare. Il traffico è gestito dalla malavita organizzata russa, cinese, messicana e colombiana. I profitti sono enormi, ti parlo di milioni di dollari di profitti…»

Diego era sbalordito…

«E tu… come sai tutte queste cose?»

«Perché ho lavorato insieme a loro.»

«Tu… »

«Sì, hai capito bene. La persona che mi aveva promesso con tanta sicurezza le medicine per mio padre mi chiese se volevo lavorare nella sua organizzazione. Si chiamava Svetlan, mi disse che avevano bisogno di ragazze di bella presenza per contattare la clientela di alto livello, cliniche private, farmacie… Io ero molto ingenua: non mi parve vero di aver risolto in un colpo solo il problema del mio lavoro e quello della salute di mio padre. Tornai a casa eccitatissima: come molte mie coetanee, alla fine degli studi, vivevo una condizione di assoluta incertezza.

Mi affidarono l’Italia, come zona operativa, e dovetti imparare bene la lingua. I miei studi, ero “ragioniera” come dite voi, mi aiutarono nel districarmi meglio con le pratiche commerciali, gestire il movimento di merci da e per l’estero. Pare che anche il mio aspetto fisico fosse utile per aprire certe porte, incoraggiare certe persone…».

Diego sussultò: non immaginava di provare una tale fitta di gelosia al pensiero che Nadia poteva essere stata con qualcuno. Eppure… doveva darlo per scontato.

«Dopo un paio d’anni, diciamo pure, di bella vita, cominciarono i guai. Mio padre peggiorava inesorabilmente. Le telefonate che mi arrivavano da casa erano sempre più drammatiche, mia madre si disperava, mi chiedeva di tornare, mi raccontava tra le lacrime che mio padre alternava scoppi di violenza a stati confusionali, che deperiva lentamente per la difficoltà di alimentarsi… Morì poco tempo dopo, per complica-zioni cardiache».

Due lacrime si erano affacciate agli occhi di Nadia, due perle traslucide che brillarono un po’ alla luce dei lampioni lontani, poi rigarono lentamente le guance della ragazza, leggermente arrossate dal racconto e dall’emozione.

Diego era annientato.

«Mi dispiace che tu abbia sofferto tanto…» disse con sincerità.

Per la prima volta Nadia si girò a guardarlo e gli sorrise. Prese la mano che Diego teneva ancora appoggiata sulla sua e gliela strinse.

«La sofferenza a volte è utile, può aprire gli occhi… Cominciai a controllare più a fondo il lavoro in cui mi avevano coinvolta. C’erano parecchi punti oscuri, cose che non mi dicevano, carte a cui io non avevo accesso. Poi un giorno ascoltai un dialogo animato, anzi un vero e proprio litigio,  tra il mio capo e uno dei suoi collaboratori, Georgiy.

I carabinieri dei Nas avevano arrestato a Genova tre persone per associazione a delinquere e ricettazione: nei loro confronti l'autorità giudiziaria  aveva emesso un ordine di custodia nell'ambito di un'indagine sul traffico di medicinali contraffatti. I militari avevano anche sequestrato materie prime farmaceutiche, ricettari in bianco e due milioni di euro. Svetlan era inferocito, accusava Georgiy di essere responsabile di quel disastro, minacciò addirittura di ammazzarlo.

Come puoi immaginare sprofondai nel terrore. Credevo di lavorare per un’organiz-zazione seria, importante, e invece lavoravo per la mafia russa!

Ma c’era un altro dubbio che già da tempo mi assillava. Portai le medicine che prendeva mio padre a uno dei nostri laboratori: il chimico, con cui tra l’altro ero in buoni rapporti, pensò che si trattasse del normale lavoro di routine e il giorno dopo mi consegnò un rapporto scritto, scuotendo la testa. “Guarda tu stessa”, disse, “non è roba buona. Qui non c’è traccia né di aloperidolo né di tetrabenazina, il principio che dovrebbe essere contenuto nella Xenazina. C’è solo un cocktail di sostanze inerti, alcune addirittura pericolose se assunte per un lungo periodo.”

Lo ringraziai col mio miglior sorriso, ma dentro bruciavo di rabbia. Mio padre era stato praticamente assassinato! Senza tanti scrupoli! Da quel delinquente di Svetlan, l’uomo che mi dava da vivere, che mi trattava bene, che mi faceva anche un po’ di corte… e che invece era un mostro.»

Diego scosse violentemente il capo.

«Dio mio, Nadia… quello che mi racconti… è orribile…»

«Sì. Ma ormai ero dura come loro… Riuscii per qualche giorno a comportarmi normalmente, poi, appena possibile, raccolsi tutti i soldi che potevo e feci perdere le mie tracce. Immagino come ci saranno rimasti… ero scomparsa nel nulla.

Feci crescere i capelli e diventai bionda: prima i miei capelli erano corti e scuri. Venni in questa zona e mi improvvisai ballerina, una delle tante cose che avevo imparato da ragazza. Cominciai a farmi chiamare Irina, come sai, un nome molto comune.»

«Ma… adesso perché sei scomparsa di nuovo?»

«Fortunatamente ho molte buone amiche. Ho saputo che Svetlan era stato visto da queste parti e mi sono sentita in pericolo: non so se stesse cercando me o se stesse facendo semplicemente i suoi sporchi affari. Comunque non potevo rischiare. Se mi trova mi ammazza…»

«E tu vuoi passare tutta la vita così, scappando e nascondendoti? Devi denunciarlo.»

Nadia fece una piccola risata, disperata e infelice. Posò una mano sulla guancia di Diego, come se volesse accarezzarlo, e lo guardò con infinita dolcezza.

«Diego, Diego… tu vivi in un altro mondo. Quelli non sono uomini, sono serpenti. Bisogna pazientare, aspettare l’occasione giusta… e schiacciarli  rapidamente, prima che abbiano il tempo di rivoltarsi.»

Aveva cambiato di colpo espressione. Lo sguardo si era incupito e la faccia si era indurita. Diego ne ebbe quasi paura.

«Adesso cosa pensi di fare?»

«Mi dispiace, ma devo andarmene. Volevo però che tu sapessi tutto. Non chiamarmi più e non cercarmi: ho corso un grave pericolo venendo qui.

Ah, dimenticavo: l’appartamento lo puoi affittare. La mia roba buttala via.»

Esitò un attimo a guardare il viso di Diego che esprimeva il più profondo sconforto. Poi si sporse verso di lui e gli posò un bacio lieve e rapido sulle labbra.

«Adesso scendi e vattene senza voltarti indietro.»

 

 

 

Lo schermo del monitor si spense e contemporaneamente la ventola del computer cessò il lieve fruscio che faceva da sottofondo per tutta la giornata.

Diego spense alcuni interruttori, riordinò in maniera approssimativa le carte sulla scrivania e si alzò per andarsene.

Un’altra giornata trascorsa. Ormai non le contava più. Tante giornate tutte uguali, senza senso, anonime come fogli di un calendario senza numeri e senza il nome dei giorni della settimana. Gli venne in mente la definizione che Dante Alighieri usava nella Commedia per una certa categoria di trapassati: color che son sospesi…

Lui era così: né dannato, né salvato… in attesa, in attesa di qualcosa che non sarebbe mai arrivato, per sempre.

Uscì dall’ufficio salutando svogliatamente un paio di colleghi. Chissà cosa pensavano di lui… pensassero quello che volevano. Non gliene fregava niente.

Eppure la sconvolgente esperienza vissuta lo aveva cambiato. Era diventato più sicuro di sé, si impegnava di più nel lavoro, otteneva buoni risultati e si era acquistato una stima che prima non aveva. Il capo del personale gli aveva addirittura affidato un nuovo settore e prospettato l’inquadramento in un livello superiore. Il che avrebbe comportato un aumento di stipendio. Sorrise al pensiero… in fondo l’incontro con Nadia gli era servito a maturare, a sbloccare un po’ la sua insicurezza innata.

Ma il suo vero io era altrove. In quel limbo nebbioso dove inseguiva inutilmente, senza mai raggiungerla, un’ombra di donna.

L’appartamento… non aveva più cercato di affittarlo. Gli sembrava di tradire il ricordo di Nadia, di svilire un pezzo di storia. A volte ci andava e lo visitava con la stessa commozione con cui si entra in un importante sito archeologico. Si aggirava per le stanze, si incantava ad ammirare i profumi e le creme nel bagno, annusava la biancheria nei cassetti alla ricerca di un impossibile presenza. Non aveva toccato nulla, per non disperdere la sia pur minima traccia di un ricordo sempre più evanescente.

 

 

 

Il capannone sorgeva sgraziato e anonimo nel dedalo di vie che attraversavano un’ampia zona industriale, illuminato malamente da due vecchi lampioni. Dietro la serranda abbassata alcuni uomini si affaccendavano in silenzio attorno a un furgone di grosse dimensioni e avevano quasi completato il carico di numerosi scatoloni. Altri scatoloni erano ammassati lungo le pareti fin quasi soffitto.

«Questo è ultimo carico che arriva da Mumbay», disse un uomo tarchiato, dai lineamenti volgari, ma vestito con eleganza. Il pesante accento russo tradiva le sue origini.

«Lavorare con te è un piacere, Svetlan. Sei sempre preciso e puntuale», rispose l’uomo a cui si era rivolto e che si appoggiava indolentemente allo sportello del furgone, tirando lunghe boccate da una sigaretta e fissando il suo interlocutore con due occhi nerissimi, dallo sguardo astuto e crudele.

«Spero anche tu puntuale con pagamento, Calabrese», replicò Svetlan in tono ostile.

Il Calabrese, questo era evidentemente il suo soprannome, non si offese.

«Non preoccuparti», disse tranquillamente, indicando con un gesto un piccolo box di vetro che fungeva verosimilmente da ufficio. «I tuoi soldi sono già qui. Quando abbiamo finito di caricare te li puoi prendere.»

La voce dall’esterno, ingigantita da un megafono, esplose improvvisa all’interno del capannone.

«Svetlan! Svetlan! Lo sappiamo che sei lì dentro! Gettate le armi e uscite tutti con le mani alzate!»

«Stronzo d’un russo, ti sei fatto seguire!» La voce del Calabrese sibilò come una pugnalata. Afferrò Svetlan per il collo e lo sbattè con violenza contro la fiancata del furgone. L’altro non ritenne opportuno rispondergli, si liberò dalla stretta con uno spintone e indietreggiò, cercando con lo sguardo due uomini che immediatamente si affiancarono a lui, estraendo con incredibile rapidità due corte mitragliette.

«Questa è un’operazione congiunta di carabinieri e polizia!» riprese la rintronante voce dall’esterno. «Il magazzino è circondato! Non costringeteci a fare irruzione!»

Gli uomini che stavano caricando gli scatoloni si erano avvicinati al Calabrese e lo guardavano in attesa di istruzioni: nello sguardo di tutti si leggevano sorpresa, panico rabbia.

Svetlan abbaiò alcuni rapidi ordini in russo ai suoi uomini, che si diressero sul fondo del capannone, dove si intravedeva un’uscita posteriore.

«Calabrese», disse poi con amarezza, «è andato tutto storto questa volta. Ma penso sapere chi ha tradito me… grande kurva… grande puttana russa! Io provo passare dietro. Dasvidania!»

Corse anche lui verso il fondo, incurante di quello che avrebbero fatto gli italiani.

Si acquattò vicino ai suoi uomini, si intese con loro con poche parole. Fece scorrere il portellone posteriore, attese qualche istante e si lanciò fuori con un balzo di incredibile agilità e potenza. Con perfetto tempismo i suoi due uomini uscirono allo scoperto, individuarono in una frazione di secondo le auto della polizia appostate sul retro del capannone e fecero piovere su di esse una grandinata di proiettili. Solo un attimo di sconcerto,  poi i poliziotti cominciarono a rispondere al fuoco. Ma questo era stato sufficiente a Svetlan per mettersi al riparo dietro un grosso autoarticolato parcheggiato dietro il magazzino. Strisciò lentamente nell’oscurità, sempre nascondendosi dietro altri automezzi, verso una via laterale dove, per abituale prudenza, aveva parcheggiato la sua macchina.

Dietro di lui intanto sembrava essersi scatenata una vera battaglia: evidentemente anche il Calabrese cercava di forzare l’accerchiamento.

Svetlan attese nell’ombra come una bestia braccata, ansimando e cercando di dominare il furioso battito del cuore. Appena fu certo che nessuno badava più a lui, raggiunse la sua auto di corsa, si mise al volante, avviò con cautela il motore e si mosse lentamente: il fragore dei colpi alle sue spalle avrebbe comunque coperto ogni rumore. Abbandonava due dei suoi uomini… andassero a farsi fottere anche loro, sapevano cosa rischiavano. Lui doveva assolutamente andarsene, riprendere in mano il suo impero di traffici e soprattutto trovare quella maledetta baldracca: l’avrebbe punita come si meritava… voleva farla a pezzi con le sue mani, lentamente… Purtroppo i rapporti con la ‘ndrangheta erano momentaneamente compromessi, ma questo non lo preoccupava, avrebbe fatto un lavoro di ricucitura, trovato un altro clan…

I colpi d’arma da fuoco stavano diminuendo d’intensità: ormai era abbastanza lontano dal magazzino. Era salvo! Si accese una sigaretta e cominciò ad accelerare.

Fu allora che la vide.

Una figura improbabile in quello scenario di violenza e di morte. Un corpo esile e aggraziato, evidentemente di donna, con le gambe allargate in una classica posizione di tiro, con le braccia protese in avanti e le mani che reggevano una grossa pistola. Chi diavolo era! Da dove usciva? Una che conosceva la sua macchina e sapeva che sarebbe dovuto per forza passare di lì?  Svetlan non ebbe il tempo di farsi troppe domande, di decidere come reagire, frenò istintivamente con gli occhi dilatati dalla sorpresa. L’ultima immagine che gli si impresse nella retina fu la ragnatela concentrica che circondava il foro del proiettile nel parabrezza. Poi il brutale colpo che gli sbalzò il capo all’indietro, un secondo colpo nel petto, lo schianto violento della macchina che aveva sbandato. In pochi attimi il silenzio e l’oscurità si erano già riappropriati di quella squallida strada di periferia.

 

 

 

Diego mise giù il giornale e appoggiò la testa alla poltrona, chiudendo gli occhi. Aveva letto e riletto l’articolo che dava notizia di quell’importante operazione con la quale carabinieri e polizia aveva assestato un duro colpo alla malavita organizzata. Pericolosi criminali, già noti alle forze dell’ordine, erano rimasti uccisi in un violento  scontro a fuoco. Inoltre erano state sequestrate centinaia di confezioni di medicine contraffate, provenienti dall’oriente e pronte a invadere i mercati di tutta Europa. In quella stessa occasione, a breve distanza dal teatro dello scontro, era stato rinvenuto il cadavere di un russo, Svetlan Rybakov, ritenuto la mente di numerosi traffici di tipo mafioso. L’uomo aveva il foro di un proiettile di grosso calibro proprio in mezzo agli occhi: visto il contesto in cui i fatti si collocavano, quell’omicidio aveva tutta l’aria di una spietata esecuzione…

Svetlan… quel nome aveva colpito la mente di Diego come una fucilata: era lui? Certo, tutto quadrava… e allora? Nadia era libera? Il giornale riferiva anche che la fortunata operazione era dovuta alla dettagliata segnalazione di un’informatrice cui la polizia non era riuscita a dare un volto e un nome. Era stata lei?

 

 

 

Entrò con cautela, come sempre, nell’appartamento che gli aveva lasciato sua zia, anche se sapeva che era vuoto. La notizia della morte di Svetlan gli aveva fatto venire nostalgia di Nadia, voleva vedere le sue cose per l’ennesima volta, e, ancora una volta, farsi del male.

In cucina c’era la luce accesa: doveva averla dimenticata la volta precedente. Ma… dalla cucina provenivano anche dei rumori… sentì il cuore mancare un colpo. Si diresse rapidamente verso la luce.

«Ciao, Diego.»

Il sorriso felice di Nadia, la sua naturalezza nel salutarlo, nel rivolgersi a lui, gli impedirono di crollare a terra per un comprensibile collasso.

Fissava incredulo quella adorata immagine, la nuvola d’oro dei capelli, gli occhi brillanti di felicità, senza riuscire a parlare.

«Dài, non stare lì impalato. Vieni ad aiutarmi. Scola tu gli spaghetti che se no mi si attacca il sugo.»

Si chiese sempre, in seguito, se era stata la parola “spaghetti” a farlo uscire dallo sbigottimento. Comunque fosse, prese la pentola con le apposite presine e scolò la pasta, trovando la cosa perfettamente naturale.