PREMESSA

 

         Nel 1860 erano stati fatti grandi passi verso la realizzazione dell’unità d’Italia: con i plebisciti dell’11 e 12 marzo in favore dell’annessione al Piemonte, il nuovo Regno di Sardegna risultava formato da sei regioni (Piemonte, Liguria, Sardegna, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana). Il 20 giugno, la vittoria dei garibaldini a Milazzo, aveva completato la liberazione della Sicilia e Garibaldi proseguiva la sua marcia vittoriosa verso Napoli. Cavour, nel timore che la guida del movimento unitario passasse definitivamente nelle mani dei repubblicani, decise di compiere una spedizione militare verso sud, passando per lo Stato Pontificio e ordinò all’esercito piemontese di penetrare nelle Marche e nell’Umbria, avvertendo nel contempo i Comitati locali dei congiurati per la liberazione che era giunto il momento di insorgere.
La notte del 7 settembre, muovendo da Mondaino, una schiera di due o trecento fuorusciti al comando del maggiore Pierazzoli di Imola, si diresse a Urbino per toglierla al dominio del Papa. Dopo una faticosa marcia al buio, attraverso colline dal terreno malagevole per le abbondanti piogge, il manipolo scambiò una prima, breve scaramuccia con i papalini, che avevano tentato un’imboscata presso la Villa Tortorina.

Il fragore dello scontro aveva spaventato i soldati di guardia alla Porta di Santa Lucia, che, pensando a un assalto più consistente,  erano fuggiti lasciando la porta sguarnita e consentendo così al gruppo di volontari un agevole ingresso in città. Questi invasero rapidamente la piazza di Pian del Mercato (oggi Piazza Repubblica) dove impegnarono in un combattimento che durò oltre un’ora sia i gendarmi che  i soldati pontifici, detti per disprezzo dal popolo “barbacani”. Grazie alla sorpresa e alla determinazione degli invasori ogni resistenza cessò in breve, i cittadini scesero nelle strade e si unirono ai volontari per festeggiare l’evento. Nello stesso giorno, 8 settembre, alcuni rappresentanti del Comitato che in città preparava segretamente l’insurrezione, si recarono in Municipio per prenderne possesso. Il giorno 9  fu nominata una Giunta provvisoria di Governo.
Urbino era la prima città delle Marche che si liberava dal potere temporale dei Papi, dopo un primo tentativo messo in atto già nel mese di giugno e tristemente fallito per la destrezza del Delegato Apostolico Monsignor Tancredi Bellà, che quella volta era riuscito a mantenere la podestà del governo pontificio nella città di Pesaro.
Ma nulla poté il Bellà in questa occasione: in un primo momento mandò i soldati svizzeri al comando del generale Kanzler per riprendere  Urbino  ma subito dovette  consigliare loro la ritirata verso Ancona, poiché l’esercito regio, guidato dal generale Cialdini, il giorno 11 era già sotto le mura di Pesaro.

Il disperato tentativo del Delegato di rinchiudersi a Rocca Costanza con pochi “barbacani” per resistere, non aveva speranza di riuscire sotto il cannoneggiamento del Cialdini: poco dopo infatti il forte si dovette arrendere e il prelato, tra gli insulti del popolo, fu fatto prigioniero e inviato sotto buona scorta a Bologna, dove proseguì poi per Torino.
Perché Monsignor Bellà fosse tanto inviso al popolo è presto detto: di cortese aspetto e di modi cavallereschi, era però dispotico e  inflessibile, manifestava una sconfinata avversione per le nuove idee, era feroce e vendicativo. Inoltre, nonostante l’abito talare, non si faceva scrupolo di corteggiare le belle donne. Il suo nome  finì col destare terrore. Lo stesso generale Cialdini avrebbe voluto impiccarlo, sdegnato perché il Bellà, durante l’ultima difesa, aveva trascinato con sé parecchi nobili cittadini per usarli come ostaggi. Fu la magnanimità del Ministro  Luigi Carlo Farini a salvarlo.
Pochi giorni dopo, come noto, Cialdini sconfisse a Castelfidardo il generale francese Lamoricière, che guidava le truppe di Pio IX,  ed espugnò successivamente  Ancona, completando così la liberazione delle Marche.

 

 

  La notte era piacevolmente limpida e fresca. L’aria, resa trasparente dalle recenti piogge, rendeva nitide e vellutate le ombre profonde che una rilucente falce di luna, incastonata nel cielo nero, scavava nel paesaggio. L’uomo a cavallo, ombra tra le ombre, spezzava e scuriva a tratti le superfici bluastre dei sassi e delle foglie, trasfigurati dalla luce lunare. Lo scalpitio dell’animale era l’unico rumore nella notte, e, per quanto soffocato dal terreno intriso di pioggia,  spezzava la magia di quella splendente oscurità, coprendo l’ansimare affannoso dell’uomo.
Il giovane conte Gianlorenzo Bellanti Della Torre conficcava senza pietà gli speroni nel ventre del suo purosangue arabo, uno splendido esemplare di colore bianco, un fantasma impazzito che volava nel buio.
Doveva assolutamente impedire al messo di Monsignor Bellà di raggiungere Urbino e mettere in guardia il prolegato e il capitano dei gendarmi. A nulla era valso tagliare i fili del telegrafo a Fermignano: quel demonio di Bellà, che aveva spie dappertutto e sembrava conoscere con certezza l’imminente colpo di mano dei fuorusciti, aveva prontamente mandato il suo uomo più determinato e più veloce. Se i messaggi che questi recava fossero stati consegnati, la guarnigione pontificia si sarebbe allertata e avrebbe opposto quella energica resistenza che gli aggressori pensavano di soverchiare grazie alla sorpresa. Sarebbe stata quasi sicuramente  una  carneficina. Fortunatamente  anche  Gianlorenzo, quale appartenente ad una delle più nobili famiglie della città, aveva amici e  informatori all’interno della delegazione apostolica ed era stato immediatamente avvertito da chi, come lui, simpatizzava nascostamente per le idee di libertà e unificazione.

Finalmente gli parve di intravedere un movimento davanti a sé. Sì, non c’era dubbio, un altro cavaliere galoppava furiosamente nella notte e, a quell’ora, su quella strada, non poteva essere che il messaggero da intercettare. Doveva agire rapidamente: spinse ancor più il cavallo fino a raggiungere e accostarsi all’altro e gli tagliò quindi con decisione la strada, facendo impennare e nitrire di paura l’altro animale. Il messo rovinò pesantemente a terra e in un attimo Gianlorenzo gli fu addosso, balzando da cavallo e sguainando la sciabola: l’uomo aveva già estratto una corto pugnale e stava per lanciarsi sul suo avversario ma Gianlorenzo fu svelto a far volare lontano l’arma con un violento fendente della sua lama, che strappò un grugnito di dolore al malcapitato.
“Non voglio battermi con te, né voglio ucciderti” disse Gianlorenzo con la voce alterata dall’incontenibile ansimare per la lunga corsa e per lo sforzo, “ma giuro che se non mi consegni immediatamente le lettere di Monsignore ti trapasso la gola.” L’uomo non era un eroe e la punta della lama che premeva sul suo collo provocandogli una fitta bruciante fu più convincente di ogni parola: trasse due plichi da una sacca che portava a tracolla e li consegnò con gesto rassegnato, tenendo gli occhi bassi per il timore e la vergogna.

“Ora vattene. Ti consiglio di stare alla larga per qualche giorno.” Così dicendo Gianlorenzo balzò sul suo purosangue bianco e si allontanò nell’oscurità.

La curiosità di leggere i messaggi di cui si era impadronito era forte. Al riparo di un casolare Gianlorenzo riuscì a trovare alcuni sterpi secchi e un po’ di paglia, cui diede fuoco con l’acciarino. La tremolante luce che ne ricavò fece splendere nel buio la corta chioma bionda scompigliata dal vento e il blu profondo degli occhi. Strappò il sigillo di ceralacca e lesse il primo plico.
“Illustrissimo Signore” questo il contenuto della missiva che era  indirizzata al Conte Fabiani, prolegato di Urbino e firmata da Tancredi Bellà, Delegato Apostolico, “è a mia notizia che i faziosi, riuniti a S. Giovanni in Marignano nel numero di soli duecento circa, abbiano divisato di invadere ed occupare per sorpresa codesta città. Scrivo contemporaneamente al Sig. Capitano Gennari che opponga nel caso la più energica resistenza....”
Non ebbe modo di continuare: la distrazione gli aveva impedito di sentire un sommesso scalpiccio che si avvicinava furtivamente. Drizzò il capo e si vide circondato da cinque o sei barbacani con il fucile spianato e l’aria risoluta e minacciosa di chi non avrebbe esitato a sparare al primo gesto. La rapidità di decisione e la destrezza nel combattimento corpo a corpo, sperimentati appena un anno prima a fianco dei Piemontesi negli scontri con gli Austriaci,  lo  fecero  scattare  con  straordinaria prontezza.  Con un calcio fece volare  i resti del fuoco sul viso del soldato più vicino, balzò all’indietro togliendosi dalla traiettoria del primo colpo che veniva esploso contro di lui e impugnò contemporaneamente la sciabola, menando un gran fendente ad un altro soldato che lo attaccava sul fianco. Si girò come una belva: un papalino lo stava prendendo di mira alle spalle. Sviò con un altro formidabile fendente la canna del fucile e balzò con agilità impressionante verso il buio addentrandosi nella vegetazione: doveva allontanarsi rapidamente, la lotta era troppo impari. Si mise a correre alla cieca, mentre i rami di alberi invisibili gli frustavano il viso. Stava pensando di essere in salvo quando sentì lo schiocco di uno sparo e una tremenda, inconfondibile trafittura al fianco: dannazione, era stato colpito! Cadde di schianto, mescolando all’erba alta e bagnata lacrime di rabbia e di sofferenza.

Non poteva restare lì, sarebbero venuti a cercarlo. Si drizzò sulle braccia con uno sforzo sovrumano e si guardò intorno: il chiarore della luna, ormai al tramonto, disegnava il profilo nero di una macchia di alberi. Cominciò a trascinarsi verso quella direzione: il terreno era in salita e questo avrebbe forse messo fuori strada i suoi inseguitori . Essi avrebbero infatti pensato che lui seguisse un percorso più agevole, scendendo verso il fiume Apsa e magari guadandolo per far perdere le proprie tracce. Con un po’ di fortuna li avrebbe ingannati.
Il  dolore  era  spietato.  Man mano  che procedeva faticosamente  e stringendo i denti per non urlare e tradire così la propria posizione, sentiva anche la testa appesantirsi e una sgradevole nausea rimescolargli lo stomaco. Oh no.... stava per perdere i sensi. Cadde bocconi nell’erba, infilò la mano sotto la camicia e la ritrasse bagnata e appiccicosa: stava perdendo sangue copiosamente e questa percezione gli provocò uno scoramento infinito. Roteò gli occhi alla ricerca della luna ma fu avvolto dal buio e la notte si richiuse su di lui.


- Signora, guardate! Si sta riprendendo.-
Gianlorenzo sentì queste parole lontane, attutite da una nebbia calda. Tentò di aprire gli occhi ma subito li richiuse, rifugiandosi dentro di sé. Doveva sforzarsi di pensare, si sentiva debole e confuso come in preda a qualche droga sconosciuta. Il corpo era pesante e sudato, lo sentiva come inchiodato a qualcosa di morbido che gli faceva da giaciglio. Un dolore sordo, ma tutto sommato sopportabile, gli opprimeva il fianco sinistro. Sì.... lo sparo.... i soldati pontifici.... ora ricordava tutto.... presto, doveva alzarsi, doveva andarsene....
- No, vi prego, non muovetevi! E’ pericoloso, siete ferito.-
Questa voce era diversa e più vicina. Più gradevole e più giovane. Sentì il tocco delicato di una mano fresca posarsi sulla sua fronte: questo  ebbe  l’immediato  potere  di  calmarlo  e di dargli  un po’ di sollievo.   Desiderò   ardentemente   che   quella   mano  non  se  ne andasse: con uno sforzo tentò lentamente di afferrarla e trattenerla.

- Giacinta, preparate un po’ di latte caldo con del miele e portatemelo. Forse riusciamo a fargli inghiottire qualcosa che lo rimetta in forze....-
Doveva tentare di aprire gli occhi, forse questa volta ci sarebbe riuscito. Sbatté le palpebre e cercò di mettere a fuoco gli aloni luminosi che lo circondavano. Era evidentemente sdraiato in una camera spoglia, che aveva però un caminetto e una grande finestra. La donna che aveva parlato era vicinissima a lui, gli teneva una mano sul capo e con l’altra gli stringeva il braccio, come volesse trattenerlo e nel contempo infondergli coraggio. Cercò di concentrarsi sul suo viso e l’immagine, finalmente nitida, si impose a tutte le altre sensazioni, suscitando in lui un’intensa commozione.
La donna era veramente incantevole. Occhi grandi e scuri catturavano lo sguardo, stemperando questo dominio in un sorriso scintillante e delizioso. Lunghi capelli neri scendevano in ampie volute sulle spalle bianchissime e sul candore intollerabile di un soffice seno che sbocciava dai pizzi della camicia, trattenuti da un nastro di velluto rosso.
- Dove sono? - riuscì a dire in un sospiro. - Da quanto tempo sono qui? -
- Non preoccupatevi, siete al sicuro.- Non aveva mai sentito una voce  così melodiosa  e al  tempo stesso  risoluta:  le note più  basse sfumavano in chiaroscuri seducenti. - Vi ha trovato Giacinta, la mia cameriera. Eravate in un campo, infangato e insanguinato. Vi abbiamo portato qui col nostro carro e vi abbiamo ripulito e curato: avevate una brutta ferita a un fianco ma non mi è sembrata pericolosa, un po’ me ne intendo.  A quanto pare una palla di fucile vi ha passato da parte a parte ed è uscita. Siete rimasto senza conoscenza per due giorni.

- Due giorni! Ma io devo alzarmi, devo raggiungere i miei compagni.... - Si appoggiò su un gomito e tentò di scendere dal letto, ma gli si offuscò la vista e ricadde pesantemente.-

- No, per carità, non fate così! Avete ancora la febbre molto alta. Dovete avere pazienza. Vi sto curando io, sono brava, sapete? Ho spalmato la ferita con olio di lavanda e si sta già rimarginando. Sono anche riuscita a farvi bere parecchie tazze con un  infuso di corteccia  di salice bianco: ora non delirate e non smaniate più.-
- Ma voi chi siete? – chiese Gianlorenzo, soggiogato e tranquillizzato da quella donna che sembrava così sicura del fatto suo.
- Oh, una qualsiasi.... questa è la casa dei miei genitori, che purtroppo non ci sono più. E’ una bella casa, vedrete, in cima a una collina: ha una bellissima terrazza da cui si vedono, in lontananza, le torri e le cupole di Urbino. Ho un po’ di terra qui intorno: coltivo un po’ di tutto. Verdure, erbe officinali, frutta... passano regolarmente  a  prenderle  quelli  che  fanno  i  mercati.  Guadagno pochi soldi ma mi bastano per vivere.-

- Ma... non mi avete detto come vi chiamate....-
- Ah, ecco la vostra cena! – esclamò con allegria vedendo Giacinta entrare in quell’istante con una caraffa e una tazza. Gli sorresse il capo e gli fece sorseggiare, con infinita pazienza, una bevanda dal sapore molto gradevole. - Ora dovete riposare, - disse poi sistemandogli amorevolmente le coperte e il cuscino, - domani vi sentirete sicuramente meglio e proverò a darvi qualcosa di più appetitoso.-
Si avviò verso la porta ma, prima di uscire, girò vivacemente il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli neri. - Scusate, non vi ho ancora detto il mio nome...- disse facendo brillare ancora una volta il suo sorriso, - mi chiamo Maddalena.-


 

La luce filtrava abbagliante da pesanti cortine bianche stampate con motivi semplici color ruggine. Una fascio di pulviscolo luccicante  sfuggiva da uno spiraglio e andava a posarsi sul letto. Gianlorenzo aspettò che lo sguardo si abituasse al riverbero e si guardò intorno. Si sentiva meglio. Provò a muovere il capo, si mise su un fianco, mise le gambe giù dal letto e tentò di mettersi seduto con molta cautela. Aspettò che il corpo si abituasse a questa nuova posizione poi, sorreggendosi alla spalliera del letto, si alzò in piedi. Non si aspettava di essere già così stabile: la testa era più leggera e si sentiva abbastanza sicuro. Avanzò prudentemente verso la finestra e scostò la tenda.
La veduta lo lasciò senza fiato. Il sole brillava già alto nell’aria azzurra e limpida. Tra le colline, ancora cupe per le ultime ombre dell’alba, ristagnavano grandi lembi di nubi sfilacciate, trasparenti e bianchissime. Da una di queste cortine luminose usciva arroccata e fiabesca Urbino, che la distanza rendeva più simile a una visione che a un paesaggio reale. Guardò in basso, al di sotto della finestra: un prato verde circondava la casa e terminava presso una folta siepe di arbusti e alberi di vario genere. Vicino a un cespuglio, che formava una vivace macchia di gialli e di rossi contro il verde, Maddalena stava componendo un mazzo di fiori. Gianlorenzo si sorprese ad ammirare l’eleganza della figura, le spalle erette, la generosa curva del bacino: quella semplice ragazza di campagna batteva in bellezza tutte le giovani donne che aveva fino ad allora frequentato, di nobile nascita, ma leziose e stucchevoli. Gli piaceva  soprattutto la capigliatura nera ed esuberante, lasciata libera di fluire al minimo movimento del capo, un’ emozione ben diversa da quella che volevano provocare le elaborate acconciature alla moda.
Maddalena si girò come se avesse sentito il suo sguardo. Lo vide affacciato alla finestra e subito il suo viso assunse un’espressione preoccupata. Sollevando la gonna con una mano e tenendo i fiori nell’altra si mise a correre verso la casa. Un attimo dopo era nella stanza.

- Ma... siete pazzo! Potevate cadere, perdere i sensi...-

- Tranquillizzatevi, Maddalena, grazie alle vostre cure mi sento molto meglio. Davvero. A proposito, io mi chiamo Gianlorenzo....-
- Lo so, - disse la ragazza abbassando gli occhi e arrossendo lievemente, - l’avevo capito da alcune carte che avevate nella vostra giubba. Scusatemi, ma dovevo pulire i vostri abiti... erano ridotti in uno stato pietoso.-
- Avete fatto bene, naturalmente. Potrò mai ringraziarvi abbastanza? In fondo vi devo la vita. Sarei felicissimo... se alcuni timori non mi angustiassero profondamente.-
Gianlorenzo si avvicinò al letto e si sedette lentamente, come se il tormento delle sue apprensioni gli avesse di nuovo fiaccato il corpo. Guardò la donna che lo fissava con aria curiosa: poteva fidarsi di lei?
- Quando mi avete trovato ero appena sfuggito ad un agguato dei soldati. Andavo a raggiungere i miei compagni che tentavano un colpo di mano per liberare Urbino. Siete al corrente degli ultimi avvenimenti politici? Posso... parlare liberamente? Da che parte state?-
- Io... vivo lontano dal mondo... non sto da nessuna parte.-
- Per quanto lontana non potete ignorare le sofferenze della nostra patria. Possibile che vi siano indifferenti idee come la libertà, l’uguaglianza... Possibile che ignoriate il dispotismo con cui la Chiesa   governa  le nostre terre per mezzo dei legati pontifici...  Ma via, non voglio annoiarvi con i miei discorsi. Però devo sapere che fine hanno fatto quei valorosi: erano i miei migliori amici. Il pensiero che potrebbero essere...

- No, non vi angustiate. Siete ancora debole, dovete pensare a guarire. Oggi stesso andrò lungo la strada carrozzabile e prenderò delle informazioni.-
- Grazie, siete una donna preziosa....- Lo sguardo di Gianlorenzo si riempì di lacrime, - Ho perduto anche un altro amico - disse - il mio cavallo... era bellissimo sapete? Un animale intelligente e infaticabile, un purosangue arabo di nome Tarik. Me lo aveva portato un mio zio dal Regno di Napoli...
Maddalena lo guardava con un sorriso indecifrabile. -Bé, almeno di questo non dovete angosciarvi,- disse allegramente, - il vostro cavallo è nella mia stalla. L’ho trovato che vagava qui intorno e mi ha seguito docilmente.-
Gianlorenzo balzò in piedi in preda a una grandissima eccitazione. - Tarik è qui?! – esclamò, - Oh, Maddalena, voi mi rendete doppiamente felice! Siete veramente una buona fata! – D’istinto l’abbracciò e la tenne stretta. Solo dopo qualche attimo si rese conto dell’effetto che faceva quel corpo morbido aderente al suo. Guardò il viso arrossato della donna a pochi centimetri dal suo: le labbra, più colorite e turgide, lasciavano passare un respiro lievemente accelerato. Gli occhi, se possibile, erano ancora più grandi  e  scuri.  Gianlorenzo  dovette  fare  forza  su se  stesso  per allontanarsi.
- Scusatemi... – mormorò turbato.
- Non è nulla, - disse Maddalena, anche lei confusa e a capo chino. - Ora... è meglio che vada a preparare il pranzo. -

Un leggero chiarore rossastro illuminava ancora il cielo a occidente, creando un fondale fiabesco dietro i profili scuri delle colline. Gianlorenzo aveva seguito le varie fasi del tramonto riandando agli avvenimenti del giorno... Nel pomeriggio era riuscito a scendere nella stalla : aveva accarezzato  a lungo, commosso, l’elegante e generoso muso di Tarik, che, da parte sua, aveva manifestato a lungo la sua contentezza e il suo attaccamento con alti nitriti. Più tardi la vecchia Giacinta era tornata in preda a grande eccitazione, riferendo le notizie che aveva raccolto da alcuni mercanti di passaggio. Urbino era caduta in mano a una piccola schiera di rivoltosi dopo un paio d’ore di scaramucce e combattimenti per le strade. Numerose colonne di volontari e fuorusciti stavano affluendo in città ed era stata già formata una giunta provvisoria di governo che aveva preso possesso del Municipio. Gianlorenzo era molto felice di apprendere queste notizie, anche se lo amareggiava un poco il fatto di non potervi partecipare di persona. Ma ogni considerazione, ogni altro pensiero passava in secondo piano quando  sentiva   fremere   dentro  di  sé,   ancora  viva  e  presente, l’intensa emozione provocata dal rapido abbraccio che lo aveva stretto a Maddalena quella mattina. La giovane donna gli era entrata dentro più di ogni altra persona finora conosciuta, più di ogni passione, anche di quella politica, che da qualche anno traeva vigore dai suoi ardori giovanili e aveva proiettato la sua vita in una dimensione eroica.
Piccole risa soffocate distrassero i suoi pensieri. Si allontanò dalla finestra e si affacciò al corridoio buio: la porta di una stanza era socchiusa e dallo spiraglio si allargava sul pavimento una luce calda e baluginante, probabilmente quella di un piccolo candeliere. Da lì provenivano i bisbigli e Gianlorenzo si avvicinò cautamente per scoprirne l’origine. Accostò l’occhio all’apertura e ciò che vide gli attraversò il corpo e lo fece sussultare, il sangue si spinse di colpo in ogni angolo delle sue membra e lo fece avvampare. Maddalena era in piedi, completamente nuda, nell’acqua fumante di una vecchia vasca metallica. Rideva, rivolta a Giacinta, che in un angolo attendeva con un grande telo bianco sulle braccia. Gianlorenzo ebbe la fuggevole visione di una statua che conosceva bene e con cui un anonimo scultore greco aveva disperatamente tentato di rappresentare l’essenza della bellezza, Afrodite. Anche Maddalena, come quella statua, reggeva il seno pesante con un braccio e con l’altra mano sfiorava leggermente i riccioli neri e lucenti del pube. I capelli folti e indocili erano trattenuti disordinatamente da un nastro e  lasciavano  scoperte  le  purissime  curve  ardite  del  collo  e delle spalle. Gocce d’acqua perlacee, giocando con la luce delle fiammelle, scivolavano lentamente lungo la superficie levigata dei fianchi rigogliosi, percorrevano l’interminabile pendio delle cosce bianche e forti e si ricongiungevano annullandosi alla superficie dell’acqua schiumosa. Gianlorenzo si ritrasse vivacemente, ritornò nella sua stanza sperando di non essere stato visto, si sedette sul letto ansimando, tentando di riprendere il controllo del respiro, del battito cardiaco, di tutto se stesso: quell’immagine gli aveva bruciato una parte del cervello e, se chiudeva gli occhi, la rivedeva abbagliante nel buio, come un sole impossibile da spegnere.

- Vi ho portato la cena! - disse Maddalena con il solito entusiasmo coinvolgente. Era entrata nella stanza con un vassoio in mano e l’aveva appoggiato sul tavolinetto accanto alla finestra. Aveva sciolto di nuovo i capelli, indossato una camicia di pizzo dalle grandi maniche a sbuffo, un corpetto, una semplice gonna scura: era più desiderabile che mai. - Per farvi riacquistare le forze, - aggiunse con aria furbesca, - abbiamo sacrificato uno dei nostri conigli. E sono andata in cantina a cercare una bottiglia che mi sembra speciale. Mi raccomando, mangiate tutto! Tornerò dopo a prendere il vassoio.-
- No, aspettate, non andate via. Perché non cenate insieme a me?-
- Io.....  veramente,  ho  già  mangiato.   Qui  in  campagna  ceniamo presto.-

- Allora restate a farmi compagnia. Vi prego.- La prese per una mano e aggiunse: - Cenare insieme in realtà era una scusa... è che la vostra vicinanza mi procura un immenso piacere.- Di nuovo quell’emozione profonda, come al mattino. Di nuovo quello sconvolgimento dei sensi, come nel pomeriggio, nella stanza da bagno. Quella mano delicata e calda bruciava nella sua, il cuore pulsava violentemente come nell’imminenza di un duello, gli occhi di Maddalena gli provocavano un’irresistibile vertigine, l’attrazione di uno spazio oscuro dove abbandonarsi e perdersi. Stringerla a sé fu la conseguenza naturale e inevitabile delle sue sensazioni. La donna non oppose resistenza, anzi abbandonò il suo corpo morbido tra le braccia di lui, tenera e vibrante: a un unico, lungo, sofferente sospiro affidò l’espressione delle sue contrastanti e complesse emozioni. Gianlorenzo cercò la sua bocca, si soffermò un attimo a considerare ancora una volta quanto fossero attraenti quelle labbra naturalmente rosse e vi posò sopra le sue. Da quel momento non vi fu bisogno di parole: solo  un gemito di meraviglia quando lui, dopo aver slacciato pazientemente il corpetto, mise allo scoperto il seno candido e statuario che balzò alla luce delle candele mandando bagliori come un marmo antico. Solo un timido singhiozzo di piacere quando Maddalena sentì l’impaziente vigore del giovane entrare deciso dentro di lei.

 

(Qualche giorno dopo.)
Un repentino cambiamento del tempo aveva ingrigito le colline. La pioggia era caduta durante tutta la notte e l’alba aveva diffuso una debole luce intrisa di umidità. Tarik, già sellato, attendeva paziente sul sentiero che costeggiava la casa.
- Devo approfittare di questa breve tregua che la pioggia mi concede. Ma tornerò appena possibile: giusto il tempo di sistemare la mia posizione in questa nuova situazione politica. -
Maddalena si sforzava di nascondere il suo umore dietro un sorriso, ma i suoi occhi erano gonfi di pianto e due grosse lacrime rigavano il bel viso.
- Sono stati giorni troppo belli, amore mio. Non riesco a staccarmi da te... sto provando una sofferenza così acuta... -
Gianlorenzo la strinse a sé: - Ti prometto che si tratterà di una brevissima separazione.-
- Ma io non so niente di te, appartieni ad un altro mondo. Sento che quando te ne sarai andato si creerà di nuovo un vuoto incolmabile tra di noi...-
- Maddalena, io ti amo, amo la tua bellezza, un fiore incredibile e inaspettato che non avrei mai pensato di trovare tra queste colline. Amo il tuo corpo, che si sa fondere col mio in una dolcezza senza fine. Amo soprattutto il tuo buon senso, la tua allegria, la tua capacità di entusiasmarti per ogni piccola cosa. Come puoi pensare che io non desideri con tutto me stesso tornare da te il più presto possibile.-

La baciò un’ultima volta e la fissò a lungo negli occhi, come volesse fissare indelebilmente dentro di lei le sue parole. I grandi occhi neri catturarono il suo sguardo facendogli provare, come sempre, un attimo di stordimento. Si strinse intorno il mantello e se ne andò senza più girarsi. Balzò in groppa a Tarik e lo spinse subito al galoppo giù per la collina.


Gianlorenzo entrò in una Pesaro appena liberata dall’esercito del generale Cialdini, ma già tranquilla e rispettosa delle leggi. I vecchi governanti erano stati rimossi e la città era efficacemente retta e tutelata da una Giunta di Governo. Notizie esaltanti arrivavano continuamente dalle Marche: il giorno 12 Fano aveva accolto come liberatori i piemontesi, il 18 Cialdini aveva sconfitto Lamoriciére a Castelfidardo, il 29 il telegrafo trasmise la notizia che anche Ancona si era arresa.
Gianlorenzo riprese possesso del suo palazzo gentilizio, abbracciò i suoi congiunti, trascorse numerose giornate a sistemare i suoi affari con la nuova Giunta, trascorse soprattutto parecchie sere a festeggiare la vittoria insieme a vecchi compagni d’arme, a cittadini influenti, a esponenti della nobiltà locale. Tutti si complimentavano con lui per la parte avuta nei recenti avvenimenti: se non avesse intercettato il messo di Bellà forse la storia avrebbe avuto un diverso percorso.  E  l’essere  scampato  a  un’imboscata  di  papalini faceva di lui un eroe. Queste qualità, unite alle sue origini nobili e alle sue ricchezze, unite alla sua naturale eleganza e al suo fisico prestante, facevano di lui uno dei giovani più in vista e ammirati della città. Lo sguardo  intenso e triste dava al suo viso attraente un tocco di mistero che dame e damigelle non mancavano di commentare durante il passeggio lungo i viali alberati che correvano lungo le mura.

Ma Gianlorenzo non vedeva le loro leziosaggini e svenevolezze, non degnava di uno sguardo i ricercati cappellini, non ascoltava le disquisizioni sui tessuti più in voga come il taffetas e la voile, non lo incuriosiva nemmeno il nuovo uso di quel civettuolo cuscinetto di crine che evidenziava il dietro delle gonne e che chiamavano pouf. Il suo pensiero correva ogni giorno a Maddalena. Rivedeva il gioioso sorriso, gli occhi che lasciavano intravedere amorevoli passioni, sentiva il tocco morbido e provocante delle sue carezze... Impossibile liberarsene. Doveva assolutamente affrettare il suo ritorno.


Un albero dalle foglie intensamente rosse apparve dopo un’ansa del fiume: era il primo segnale dell’autunno, che cominciava a occhieggiare qua e là tra la folta vegetazione. Gianlorenzo sorrise tra sé, ripensando a una delle prime, struggenti immagini che aveva di  Maddalena:  stava raccogliendo dei fiori ed era  incantevole.  Tra poco l’avrebbe rivista e l’eccitazione dell’attesa si affacciava ai suoi occhi con un allegro brillio: era più che mai convinto a fare di lei la donna della sua vita, a dividere con lei onori e ricchezze, anche se pensava che la vera ricchezza l’avrebbe portata lei in dote.
- Forza Tarik! - gridò allegramente, - La felicità ci attende! E per te doppia razione di avena e fieno questa sera, foraggio buono, foraggio di collina! Potrai anche pascolare e brucare l’erba fresca se vuoi! - Rise di se stesso e diede un colpo di talloni. Tarik fece ondeggiare la criniera candida e aumentò l’andatura.
La strada cominciava a salire, tra poco avrebbe dovuto individuare il sentiero che si apriva inaspettato sulla destra e si inerpicava sul poggio. Eccolo!  Fece compiere al cavallo una brusca sterzata e lo spronò su per la salita. Quando fu in vista della casa cominciò a chiamare:
- Maddalena! Maddalena, sono io!-
In piedi al centro dell’aia, un anziano contadino lo guardava sorpreso. Gianlorenzo balzò dal cavallo:
- Buon giorno, sto cercando Maddalena...-
Il vecchio si tolse il cappello, ma non abbandonò la sua aria sospettosa:
- Mi dispiace, signore, qui non c’è nessuna Maddalena...-Gianlorenzo provò uno sgradevole senso di inquietudine:
- Non è possibile! Sono stato in questa stessa casa una ventina di giorni or sono, ospite di Maddalena. Chi  siete  voi?     Dove eravate venti giorni fa? – chiese con un tono di voce che si alterava sempre più.

- Non adiratevi signore, io abito in questa casa da molti anni... ma non so chi sia questa Maddalena di cui parlate. Per tutto il mese di settembre sono stato in Romagna, per assistere una mia zia che stava male.-
Ma Gianlorenzo già non  lo ascoltava più. Lo scostò bruscamente con una manata e corse dentro la casa, mentre il contadino lo inseguiva. Volò su per le scale e piombò in quella che era stata la sua stanza. Si arrestò disorientato e ansimante: tutto era cambiato, la stanza era un ripostiglio di attrezzi agricoli, di damigiane vuote, di patate...  Incontrò lo sguardo perplesso e impietosito del contadino:
- Non so cosa vi accada signore, ma vi giuro che questa è la mia casa. E qui non c’è e non c’è mai stata nessuna Maddalena.-
Gianlorenzo si appoggiò allo stipite della porta, era annientato. Cosa poteva essere successo? Chi aveva predisposto questa ignobile beffa? E perché? Borbottò qualche parola di scusa al vecchio e si allontanò a capo chino. Prese mestamente la via del ritorno, mandando il cavallo al passo, ponendosi mille domande, facendo mille congetture. Si spinse  fino ad alcune case nei dintorni, sempre più frastornato, sempre più sconfortato, chiedendo ogni volta notizie che ricevevano sempre la stessa risposta: ci dispiace, non conosciamo nessuna Maddalena.
Rientrò  nel  suo  palazzo di  Pesaro  che  era  già  notte.  Un sonno pesante e tormentato, inseguito penosamente quasi fino all’alba, gli diede infine un po’ di sollievo.

 

Ci sono eventi che sospendono la vita. La dimensione reale è vista dal di fuori, non si prova però alcun interesse per essa, e nemmeno fastidio, solo una lucida, consapevole indifferenza. Si compiono i gesti abituali, si parla con le persone conosciute, ma tutto è delegato a un altro, un sostituto senza sentimento e senza ragione, mentre il vero io è rinchiuso in se stesso, ottenebrato dal dolore, o dalla rabbia, o dalla nostalgia.
Gianlorenzo si trovava in questa condizione. Una grande passione, carica di esaltanti aspettative, era stata di colpo frustrata, lasciandolo stordito e insoddisfatto. L’assenza di qualsivoglia spiegazione, nonostante le instancabili ricerche fatte, rendeva ancor più lacerante la sua sofferenza, collocandola in un’ amara indeterminatezza. Una sola cosa certa era rimasta: lui amava Maddalena, un amore che sarebbe durato indefinitamente, proprio perché spezzato e sospeso nel tempo.
- Gianlorenzo! Ehi, Gianlorenzo! - La voce gioviale dell’amico, il tenente Bonamini Pepoli, ufficiale della Milizia territoriale, lo strappò ai suoi cupi pensieri, mentre camminava senza meta per le vie del centro - Dove ti eri cacciato? E’ tanto che non ci vediamo...-
- Buon giorno, Ruggero.-

- Ehi, cos’è quella faccia lugubre? Scommetto che si tratta di pene d’amore...-

- Lasciami perdere... Non sono in vena di facezie. Scusami...-
- Oh, ma allora è una faccenda seria! Ma dài, non vuoi confidarti col tuo vecchio amico Ruggero? Su che ci facciamo due risate...-
- Senti, non mi va di parlare... -
- Amico mio, - Ruggero si fece improvvisamente serio, - vedo che la cosa è più grave di quanto pensassi. Non voglio importunarti, ma non posso neanche lasciarti in queste condizioni. Devi distrarti. Vieni con me: sto andando ad assistere a un processo...-
- No, ti prego, non ne ho nessuna voglia...-
- E invece devi venire. Hanno tirato fuori dalla Fortezza due o tre spie di Monsignor Bellà per processarle.-  Sentendo il nome di Bellà,  Gianlorenzo si fece più attento.
-  Lo vedi che sei interessato? L’odio per Monsignore è ancora ben vivo dentro di noi. Il nuovo Governo è tollerante ma i nostalgici dello Stato Pontificio sono ancora parecchi e bisogna dare qualche esempio ogni tanto. Spero che appioppino a quelle maledette spie una pena esemplare e le lascino marcire dentro Rocca Costanza per il resto dei loro giorni.-
L’esuberante ufficiale prese Gianlorenzo sottobraccio e, vincendo le sue ultime resistenze, lo trascinò verso via dei Tribunali, facendolo poi entrare in un nobile edificio nato come convento dei Frati Minori  Conventuali  ma  che  aveva  ospitato  in seguito la caserma della Milizia Pontificia e che era stato recentemente assegnato, nei nuovi ordinamenti comunali, alla Magistratura.

Si fecero largo a fatica in un’ampia sala già affollata. Gli alti scranni di legno che correvano lungo le pareti e la parte centrale dell’aula erano stipati fino all’ inverosimile da una moltitudine colorita: il popolo non voleva perdere l’ultima occasione di sfogare il proprio risentimento contro la gente di Monsignor Bellà per le mille angherie e ingiustizie subite. Su di una panca, a lato degli scranni occupati da  giudici in toga e alti ufficiali in uniforme, erano stati fatti sedere cinque prigionieri dall’aria dimessa, tra cui una donna, guardati a vista da due gendarmi dai grandi baffi e dall’aria ostile.
Altri gendarmi vigilavano sulle prime file del pubblico, ma la loro presenza non valeva a frenare le irose invettive che venivano lanciate all’indirizzo dei reclusi, soprattutto da parte delle donne, che si distinguevano per le furia dei loro improperi: era evidente che molte di loro avevano perso un padre o un marito o un fratello nelle recenti vicende politiche e ne ritenevano responsabili il Legato Pontificio e i suoi scagnozzi.
Gianlorenzo seguiva tutto con apatia, indifferente alle facezie di Ruggero, lasciandosi quasi annullare nel brusio incessante e ipnotico della folla. A un certo punto però dovette riscuotersi: la sua attenzione era stata attratta da un suono di voce che gli parve familiare. Uno dei giudici stava rivolgendosi alla donna che sedeva tra gli imputati:

- Siete stata trovata ben nascosta, con tanto di abito religioso, all’interno del convento delle Benedettine. Ma le nostre informazioni parlano chiaro: ammettete che, nonostante foste una monaca, svolgevate loschi incarichi per conto del deposto Legato pontificio?-

- Non posso ammettere ciò che non risponde a verità. La mia era una vita di carità e di preghiera.-
Il cuore di Gianlorenzo affrettò di colpo i battiti, lo sentì percuotere le tempie superando il frastuono circostante. Non era possibile... quella monaca aveva... ma sì, aveva la voce di Maddalena, impossibile sbagliare! Si fece largo tra la calca, doveva vederla da vicino, doveva vederla in viso.
- Gianlorenzo! Ma dove vai?- gli gridò dietro Ruggero.
- Scusami, ti spiego poi, devo controllare una cosa!-
L’interrogatorio continuava, ma Gianlorenzo non ascoltava più. Teneva lo sguardo fisso su quella figura di donna che vedeva solo di spalle, che aveva i capelli corti e malamente tagliati, che era accusata di essere esecutrice di trame orribili... ma che aveva una voce il cui suono aveva risvegliato una moltitudine di sensazioni brucianti.
Un grido isterico si levò tra la folla:
- Baldracca schifosa! Devono impiccarti!-
A Gianlorenzo salirono agli occhi lacrime di rabbia. Dio mio, possibile che tutto questo accadesse alla sua Maddalena? Con un ultimo sforzo riuscì a raggiungere la prima fila. La donna si girava in quell’istante per individuare chi l’aveva insultata...
Era lei!
Era Maddalena, smagrita, vestita con quello che restava di una vecchia tonaca da suora, con i bei capelli neri tagliati malamente e ridotti a un corto groviglio informe, ma i suoi occhi erano sempre gli stessi, neri, profondi, ancora più grandi e luminosi mentre sfidavano la gente senza batter ciglio. Gianlorenzo era annientato da sentimenti contrastanti, il rumore assordante che lo circondava parve tacere di colpo ed egli si trovò solo con la sua opprimente pena. L’esultanza per aver ritrovato la persona amata era trattenuta e messa in dubbio da una brutale, incredibile verità. Ora era tutto chiaro! Era solo caduto in un abile piano di Bellà che voleva bloccarlo e renderlo inoffensivo. O forse no, aggiungeva disperatamente, cercando di salvare una possibilità, una via d’uscita per il suo amore così grande che in un attimo era stato bruciato, annientato. La donna continuava a protestare la sua innocenza ma lui non l’ascoltava, erano solo menzogne e lui ne era testimone. Dio, che sofferenza intollerabile! Continuava a fissare quella nuca che aveva accarezzato con la punta delle dita, insinuandosi tra i rigogliosi e fluenti capelli neri che ora non c’erano più. Quanto tempo era passato? Ma che importava, era tutto finito, era solo un sogno. Un orribile sogno. Distolse il viso rigato di lacrime, si asciugò alla meglio con la manica dell’elegante giacca e si diresse verso l’uscita.

 

 

- Buon giorno. Sono il Conte Bellanti Della Torre. Ho un lasciapassare per vedere uno dei vostri prigionieri. -
L’ufficiale di guardia alla Fortezza guardò con sospetto Gianlorenzo e prese il plico che questi gli porgeva. Esaminò attentamente il foglio e trasalì quando vide da chi era firmato. Lo scorse rapidamente:
“Il latore della presente, Conte Gianlorenzo Bellanti Della Torre, è autorizzato a conferire privatamente e per tutto il tempo che riterrà necessario con la prigioniera Suor Maddalena Lattanzi.
L’Ufficiale comandante del corpo di guardia al Carcere Giudiziario di Rocca Costanza si renderà personalmente responsabile di ogni atto che ostacolerà la presente autorizzazione.
Dal Quartier Generale di Arezzo, 29 ottobre 1860.
Firmato: Manfredo Fanti, Ministro della Guerra e Comandante in Capo il Corpo di occupazione delle Marche e dell’Umbria”
L’ufficiale scattò sull’attenti e chiamò immediatamente un  gendarme:
- Accompagna il Signor Conte nella cella della monaca. L’ordine viene dall’alto, mi raccomando che il Signor Conte non sia disturbato. Resta a sua disposizione fino a che non ti darà licenza.-
Gianlorenzo seguì il militare per un lungo corridoio male illuminato e fu fatto entrare in una stanzetta umida e disadorna, il cui unico mobilio era costituito da una panca con sopra un saccone di paglia e un  tavolino  sgangherato.  Sentendo aprire la porta Maddalena, che era seduta su quel  malagevole giaciglio, alzò vivamente il capo. Riconosciuto Gianlorenzo gettò un debole grido e balzò in piedi, sembrò per un attimo che volesse slanciarsi  verso di lui, ma restò così, sospesa, chiaramente in balìa di un’emozione tanto violenta che la faceva visibilmente vibrare. Poi, come se qualcosa si fosse di colpo spezzato dentro di lei, ricadde seduta sul letto, a capo chino.
- Finalmente ti ho trovato...- disse Gianlorenzo, ricacciando indietro con immenso sforzo la commozione che l’aveva suo malgrado afferrato. La guardia era uscita e aveva richiuso la porta alle sue spalle. Maddalena continuava a tacere.
- Ho assistito alla prima udienza del tuo processo...-
Maddalena alzò di scatto il viso e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
- Oh, Dio, no... hai sentito... tutte quelle menzogne! Non puoi credere che quella sia la verità... non lo dico per giustificarmi, ma... è che non voglio che tu soffra! Tu non sai quanto io...- Singhiozzi violenti e improvvisi le impedirono di proseguire. Gianlorenzo le prese le braccia.
- Calmati, - disse - io non credo nulla. Crederò quello che tu mi dirai. Ho riflettuto molto in questi giorni. Certe parole, certe sensazioni, certi sguardi... non potevano essere menzogne. Dapprima mi sono sentito tradito, umiliato, poi sono riaffiorati i ricordi e ho capito che la verità si presentava confusa e ingannevole. Qualcosa  mi  sfuggiva.   Non potevo  abbandonare  così  la  nostra storia. Ho deciso che ascolterò la tua verità e crederò in quella. Io.... penso che la donna che ho conosciuto e amato in quella casa sulle colline non possa mentire, non a me.-

Maddalena finalmente sorrise, fu una luce che si fece strada tra le lacrime e mise fine ad una commozione che era divenuta veramente insostenibile. Abbracciò Gianlorenzo e gli posò stancamente  il capo su una spalla.
- Tu non sai che bene mi fanno le tue parole. La tua fiducia mi dà finalmente un po’ di forza e un po’ di pace.- Si alzò lentamente in piedi e si diresse verso la minuscola finestra che dall’alto, dava un po’ di luce alla cella. Guardò qualche attimo verso di essa,  raccogliendo faticosamente pensieri e dolorosi ricordi.
- Mio padre fu arrestato nel ’49. Io ero una bambina e non mi rendevo ben conto di quello che succedeva intorno a me. Seppi solo in seguito dell’ondata rivoluzionaria di quegli anni e del suo fallimento. Mio padre, insieme a un gruppo di irriducibili come lui, era corso generosamente in difesa di Venezia, che, come sai, era stata l’ultima ad  arrendersi alla reazione austriaca. Io ero purtroppo già orfana di madre e qualcuno si preoccupò di farmi accogliere dalle monache benedettine nel convento che portava il mio nome, Santa Maria Maddalena, mentre mio padre, consegnato dagli Austriaci al Cardinale Milesi, veniva gettato in un carcere di Bologna. E’ morto qualche anno fa, di patimenti e malattie, ma io l’ho saputo solo da  quando  sono qui... -  si  interruppe,  sopraffatta dal turbamento. Un breve gemito le spezzò la voce. Gianlorenzo si tratteneva a stento dall’abbracciarla e consolarla.

- Le suore mi trattarono bene, mi fecero studiare, avevo una ricca biblioteca a mia disposizione e leggere mi aiutò a maturare e a formare la mia personalità. Maturai anche nel corpo... - si girò a guardare Gianlorenzo e ravvivò un attimo quella cupa atmosfera con un sorriso mesto ma al tempo stesso lucente e malizioso. - Un giorno la Badessa mi squadrò in modo strano e disse “Sei troppo bella Maddalena, che Dio ci assista!” Fu a questo punto che entrò in scena Tancredi Bellà. Era stato da poco nominato Legato Pontificio e venne in visita al Convento. Mi fissò a lungo, durante la Messa e per tutta la durata del pranzo che gli offrirono le monache. Era un piacevole gentiluomo, alto e robusto, bello ed altero, ma con qualcosa di malvagio nello sguardo. Tutte noi eravamo soggiogate, ma di lì a qualche giorno non pensammo più a lui. Una mattina la Badessa mi fece chiamare e mi disse che una carrozza mi avrebbe portato nel palazzo di una nobildonna pesarese che mi voleva parlare. Non mi lasciò neanche domandare chiarimenti, mi disse di ubbidire senza fare storie con un tono che non ammetteva repliche. Non l’avevo mai vista così dura e inflessibile, mi fece paura....
La nobildonna fu invece molto gentile, mi lasciò intendere che qualcuno voleva aiutarmi, voleva soprattutto aiutare mio padre, tirarlo fuori di galera. A quelle parole caddi in ginocchio davanti a lei,  ringraziandola  e  proclamando  la  mia disponibilità a fare tutto quello che mi sarebbe stato chiesto. Che ingenua ero, che stupida! Stavo cedendo a un orribile ricatto: quel maledetto Bellà aveva trovato il modo di usarmi a suo piacimento. Non voglio annoiarti con le mie penose vicissitudini, è uno spazio di tempo che ho vissuto come uno sgradevole sogno. La dama cui Monsignore mi aveva affidato mi insegnò a comportarmi in società, mi raccontò tutto della vita che si svolgeva al di fuori delle mura del convento, mi abituò a indossare abiti belli e costosi. Forse avevo una naturale predisposizione, certo ero molto curiosa di imparare cose nuove e come suora non ero mai stata un gran ché, indisciplinata, ribelle, poco portata alle cose della fede. Questo facilitò la mia trasformazione: in poco tempo Bellà ebbe al suo servizio un’informatrice preziosa, capace di frequentare la buona società, raccogliere in modo insospettabile le confessioni di chiunque, soprattutto di quegli sciagurati che, per imprudenza o per ostentazione, mi confidavano di credere nelle idee repubblicane e anticlericali o, peggio, di stare addirittura congiurando contro lo Stato Pontificio. Che vergogna! Che cosa orribile! Quanti avrò condannato al confino, alla galera, alle torture... con le mie delazioni? Quante famiglie avrò reso infelici? E’ giusto che io paghi. Dio abbia pietà di me e mi perdoni.-

Gianlorenzo era disorientato e turbato da questo racconto:
- Ma perché non ti sei ribellata, non ti faceva orrore tutto questo?-
- Ero  sola,  debole,   mi  tenevano quasi come  prigioniera.  E  ogni volta che tentavo di oppormi, ecco l’infame ricatto. Tuo padre sta male, dobbiamo assolutamente tirarlo fuori dal carcere. Solo Monsignore può riuscirci, vedi di non scontentarlo. E questo aveva il potere di farmi chiudere gli occhi.
Poi, una notte vennero a svegliarmi. Vestiti in fretta, devi fare una cosa importante. Ti spiegheremo durante il tragitto. Partimmo in gran furia, il cocchiere faceva schioccare la frusta sulla groppa di due magnifici cavalli neri: evidentemente Bellà aveva messo a disposizione la sua carrozza e quindi doveva trattarsi di cosa della massima importanza. I frati di un convento  sperso tra le colline verso Urbino avevano trovato un ferito privo di conoscenza....-
Gianlorenzo spalancò gli occhi per lo stupore.
- Sì, quel ferito eri tu. Bellà aveva orecchie dappertutto. Nel giro di un’ora sapeva chi eri e cosa avevi in mente di fare. Doveva assolutamente fermarti. Ma questo non gli bastava. Doveva sapere con chi eri in contatto, chi erano i tuoi amici... eri un personaggio in vista, non poteva lasciarsi sfuggire questa ghiotta opportunità. E pensò subito a me. Costrinsero, con le buone o con le cattive, il proprietario  di una casa nelle vicinanze ad andarsene e fecero in modo che, al tuo risveglio, tu trovassi me, la buona samaritana....-
Gianlorenzo ascoltava avidamente queste rivelazioni. Da tanto tempo era stato roso dai dubbi e ora finalmente la verità si palesava, anche se spietata.
- E poi, cosa  accadde? -  Chiese  avvicinandosi  a  Maddalena,   che stava ancora rivolta verso la piccola finestra, come fosse una sfera di cristallo in cui leggere il passato. L’ afferrò per le spalle, costringendola a girarsi verso di lui e a guardarlo negli occhi:

- Perché non hai tradito anche me? -
- Ho avuto due giorni per sorvegliarti e curarti. Fui colpita subito dalla tua bellezza: le ciocche disordinate di capelli biondi che incorniciavano il viso fiero e sofferente, i baffi sottili che ti davano un’aria severa, il corpo snello e vigoroso, violato dalla ferita e dal sangue. Eri l’uomo che ogni donna sogna di avere per sé.... e che io non avrei mai avuto. Poi cominciarono i tuoi vaneggiamenti: parlavi dell’Italia, della libertà, dei compagni eroicamente caduti, gridavi di terrore al ricordo di chissà quali battaglie... Qualcosa si risvegliò nella mia mente, ritornai bambina e ricordai i discorsi di mio padre. Tu eri come lui! Che pazza ero stata! Avevo tramato contro le persone che amavo di più! Eravate tutti eroi e io ero una povera miserabile... Presi una decisione irremovibile: ti avrei salvato e avrei chiuso per sempre con Bellà e i suoi accoliti. A qualsiasi costo...
Ci fu, per malasorte o per fortuna, un intermezzo inaspettato e inimmaginabile: mi facesti il dono più bello, l’amore. Una felicità così immensa che non so neppur io come ho fatto a tollerarla. Ho vissuto tutta la mia vita in poche ore e con la decisione di un momento vi ho posto fine. Dopo che tu ti sei messo in salvo sono tornata a Pesaro, alla Delegazione, per ribellarmi a Bellà e subirne le conseguenze.  Ma i  tempi  erano cambiati.  Bellà era prigioniero dei Piemontesi e in città regnava una grande confusione. Io non avevo dove andare e pensai di rifugiarmi nel mio vecchio convento. Lì mi trovarono i gendarmi, sicuramente grazie alla spiata di qualcuno a cui probabilmente avevo fatto del male: che beffa, tradita nello stesso modo con cui io stessa tradivo e denunciavo... Pochi minuti dopo ero qui, a Rocca Costanza, dentro questa stessa cella, sola con me stessa e con i topi.-

Si allontanò da Gianlorenzo e si sedette lentamente sul pagliericcio, fissando il pavimento, curva sotto il carico di quei ricordi e di quelle travolgenti passioni.
Anche Gianlorenzo era immobile, raggelato da quelle rivelazioni, in bilico tra mille sentimenti contrastanti. Una lacrima si era indurita all’angolo di una palpebra, indecisa anch’essa se scendere o lasciarsi ricacciare indietro.
- Ora è meglio che io vada via, Maddalena. Perdonami, non trovo parole da dirti: troppo crudeli le nostre emozioni, la nostra storia.... Ho bisogno di tempo per riflettere... per passare tutto al filtro chiarificatore del tempo, della memoria...-
Lanciò un’ultima occhiata alla piccola figura, raggomitolata nel suo dolore e bussò alla porta per farsi aprire dalla guardia.


 

La neve recente aveva spruzzato di bianco le chiome degli alberi, che  invece  di  stagliarsi  contro  il cielo grigio si confondevano con esso in una diffuso chiarore umido e nebbioso. Rocca Costanza emergeva appena in questo paesaggio irreale come una presenza indefinita e minacciosa.

Il carro coperto, con le insegne dell’esercito sabaudo, lasciò due lunghe tracce sul manto bianco che ricopriva ancora incontaminato il ponte d’ingresso ed entrò nel cortile.
Un ufficiale piemontese scese agilmente e si diresse verso il posto di guardia: i pantaloni azzurri con le bande rosse, le due bandoliere incrociate e il caratteristico elmetto crestato denunciavano la sua appartenenza al Corpo dei Lancieri. Il comandante della prigione lo salutò militarmente e lo guardò con curiosità:
- Sono ai vostri ordini, tenente. Mi hanno già informato della vostra missione e ho mandato a prendere la prigioniera.- Gettò una rapida occhiata alle carte che il tenente gli porgeva e scosse il capo. - Speriamo  che questa poveretta non venga sbattuta da un carcere all’altro o, peggio, non venga giustiziata. In fondo sono stati tempi duri per tutti e questa donna forse è solo vittima delle circostanze. Detto tra noi è anche una gran bellezza...-
Il tenete restò impassibile, evidentemente non aveva voglia di discorsi frivoli:
- Io non so nulla, ho solamente ordine di trasferirla da un carcere all’altro.-
Dall’ombra di un corridoio tetro sbucò Maddalena, condotta per un braccio da un gendarme.  Si stringeva addosso un mantello cencioso che le avevano dato per ripararsi dal freddo. Il piemontese la prese in consegna, salutò le guardie con un gesto del capo e fece salire la prigioniera sul carro senza altri convenevoli. Il conducente, che era rimasto pazientemente a cassetta, lasciando che la neve leggera sfarinasse la cappa scura e il cappuccio che lo riparavano, fece girare la coppia di cavalli e li condusse fuori, passando nuovamente sotto l’alto voltone sopra il quale faceva ancora bella mostra di sé il leone rampante degli Sforza.

Il carro seguì le strade sterrate che correvano lungo le mura, oltrepassò Porta Collina e, giunto di fronte alla Porta del Ponte, svoltò per la carrozzabile che portava in Romagna e al Montefeltro.
Maddalena stava rincantucciata in un angolo, stremata per il freddo e per la paura, non aveva il coraggio di guardare in faccia il militare che le faceva la guardia né tanto meno di rivolgergli la parola per chiedere dove stessero andando. Molto presto però sentì i cavalli rallentare e fermarsi. Vide la porta aprirsi e il conducente entrare e sfilarsi dal capo l’ampio cappuccio: un cespuglio di riccioli biondi e il sorriso aperto di Gianlorenzo illuminarono d’improvviso l’interno del carro.
Maddalena, in seguito, si accorse di ricordare ben poco di quel momento. Se la felicità, oltre che una parola e un sogno, è anche un’immagine, si manifestò in quell’istante con tutto il suo fulgore. E
la mente di Maddalena, già messa alla prova da mesi e mesi di patimenti,  si  rifugiò  prudentemente  nel  buio  confortevole  dello svenimento. Ma la sua fuga dalla realtà durò solo pochi attimi: aprì gli occhi richiamata in vita dal caldo abbraccio di Gianlorenzo e dai suoi baci insistenti sul viso, sui capelli, sulle mani.

- Maddalena, Maddalena! E’ finita, sei in salvo! -
- Dio mio, com’è possibile? Cosa sta succedendo?-
- Tranquillizzati, amor mio. Ho fatto ricorso all’aiuto di tutte le persone più potenti che conoscevo e sono riuscito a organizzare questa messa in scena. Dopo la visita che ti ho fatto in carcere, non ho fatto altro che pensare a te. Mi sono accorto che tu eri la mia vita e che tutto il resto non aveva importanza: anzi, anch’io ti stavo facendo soffrire e dovevo rimediare in fretta.-
Lanciò uno sguardo d’intesa al tenente, che sorrideva, anch’egli in preda a una viva commozione, e gli cedette il proprio mantello. Il giovane scese dal carro e prese il posto di Gianlorenzo a cassetta. Uno schiocco di frusta e i cavalli correvano già sulla neve in direzione di Urbino.
- Ho un’altra bella sorpresa per te, Maddalena. Ho comprato la casa con la terrazza: penso che l’amore debba crescere dove è nato. Troverai il fuoco del camino già acceso, abiti puliti per cambiarti.... potrai fare anche un bagno caldo nella tua vecchia vasca... e io potrò spiarti di nascosto, come ho già fatto una volta.-
- Ah! Ma questo non me lo avevi detto! - Maddalena si liberò dall’abbraccio di Gianlorenzo. Lo guardò rossa in viso, certamente più  per  l’eccitazione  che  per  la  vergogna.  Gli occhi,  sgranati   e rilucenti, avevano ritrovato la loro vita e riacquistato il loro potere ipnotico. 

- E quindi mi hai visto tutta nuda.... senza il mio permesso... hai peccato gravemente: in fondo sono ancora una monaca! Cos’hai da dire in tua discolpa?-

- Eri bellissima!-

Il carro sobbalzava nell’aria che imbruniva. Alle orecchie del conducente arrivava ogni tanto qualche risata più forte: allora sorrideva a sua volta, schioccava la frusta e incitava i cavalli.
Il chiarore della luce diurna era ormai stato sostituito da quello più tenue e suggestivo che diffondeva la coltre nevosa. Gli alberi sfilavano chiari e veloci ai lati della vettura, magico accompagnamento per un singolare corteo nuziale nella campagna silenziosa.


I conti Bellanti della Torre vissero a lungo e felicemente nella casa in collina, salvo i periodi trascorsi nel loro palazzo di città. Nel Novecento la casa cambiò varie volte proprietario e subì alterne vicende. Gli attuali proprietari, con amorevole cura, l’hanno restituita alla primitiva bellezza, trasformandola in un gioiello dell’accoglienza turistica di prestigio. Oggi è possibile a tutti dormire nella stanza che vide nascere l’amore di Gianlorenzo e Maddalena.

 

 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'
 ESCAPE='HTML'