La compagna

Era rincasato di malumore, trascinandosi dietro la sua ombra e stringendo i pugni in tasca. Quegli imbecilli dei suoi colleghi oggi erano stati particolarmente astiosi e si era dovuto rifugiare tra le carte per riuscire a portare al termine una giornata da dimenticare.

Salendo le scale riacquistò un po’ di buonumore, soprattutto pensando a Martina che lo stava aspettando, bella e fedele, due doti che non sempre andavano d’accordo. Aprì la porta e lo sguardo andò subito alla sala, dove sapeva che la ragazza lo stava aspettando per la cena.

«Amore, sono io!»

«Ciao Ale, hai fatto tardi...»

«Ma... sì... una delle solite scocciature. Ma non chiamarmi Ale, lo sai che non mi piace.»

Martina era seduta sul divano, di fronte al televisore su cui stavano scorrendo immagini di ballerine scomposte e dal sorriso ebete. Era in una posa rilassata che metteva in evidenza le sue gambe lunghe dalla forma affusolata e perfetta, con una delle aristocratiche mani in grembo e l’altra posata sul divano. Il busto ben eretto faceva sporgere un seno piccolo e ben proporzionato che tendeva, con due capezzoli appuntiti, un abitino rosso aderente al corpo, in magnifico contrasto con una soffice e opulenta chioma scura. Guardò Alessandro con i suoi occhi di un azzurro incredibilmente scintillante, mentre la bocca dalle linee impeccabili si schiudeva in quel sorriso dolcemente glaciale che lo aveva sedotto fin dal primo incontro.

«Hai preparato qualcosa per cena?»

«Ma... veramente... no, scusa: mi sono distratta con la televisione...»

«E ti pareva... vabbe’ preparo qualcosa io. Faccio delle uova strapazzate col prosciutto crudo, così faccio in fretta.»

Si tolse la giacca e la cravatta, infilò un paio di ciabatte e cominciò a trafficare nel piccolo cucinotto adiacente alla sala.  

«Martina! Mi cambi canale per favore? Fammi ascoltare un telegiornale mentre cucino!»

«Ale, scusa... devo andare nel bagno...»

«O.K., lascia stare, faccio io. Ma non chiamarmi Ale!»

I primi dieci minuti del telegiornale consistevano come sempre nella solita sfilata di facce ultranote, sempre quelle, sempre con la medesima espressione sorridente e stolta, che tutto dicevano, tutto promettevano in un gioco infinito di specchi autoriflettenti.

«Ma non se ne può più di questi qua!» disse Alessandro ad alta voce. «Adesso hanno veramente rotto i coglioni!»

«Amore cosa c’è? Perché ti arrabbi?» chiese timidamente Martina affacciandosi alla porta del cucinotto.

«Non ce l’ho con te... mi danno fastidio questi politicanti inamovibili che parlano, parlano e non vengono a capo di niente! I problemi dell’Italia e del mondo sono quelli da decenni, non sono riusciti a risolverne uno! Però si sono dati stipendi da favola e hanno lasciato che si arricchisca alle nostre spalle una lobbie di manager incapaci!»

«Su, calmati adesso...»

«Hai ragione... dài, siediti che è pronto.»

Alessandro mise in fretta sul tavolo due piatti e due bicchieri, posate e tovaglioli per due, una mezza bottiglia di sangiovese pescata nella dispensa insieme al pane e servì con maestria le uova dal tegame fumante. Si sedette a sua volta e aggredì il suo piatto con entusiasmo: era affamato.

Martina mangiava silenziosa e composta.

«Ti propongo una seratina romantica» disse lui ad un tratto, guardandola con espressione maliziosa. «Niente televisione. Mettiamo un bel sottofondo musicale e andiamo a letto presto a leggere. Cioè... prima leggiamo... poi vediamo cosa succede...»

«Va bene. Come vuoi tu, Ale.»

«Però non chiamarmi Ale!»

 

 

 

Aveva la pelle incredibilmente levigata. Alessandro non si stancava di percorrere le interminabili gambe con le labbra gonfie di eccitazione, che trovavano ristoro solo su quella pelle eternamente fresca. Risaliva gemendo fino al ventre piatto, strofinava il naso intorno ai piccoli seni, saliva su di lei e stringeva a sé le piccole natiche sode.

Martina lo lasciava fare, guardando il soffitto, felice, appagata dal solo fatto che lui la amasse con tanta passione, aspettando pazientemente che si accasciasse su di lei, esausto, dopo un ultimo gemito strozzato.

 

 

 

La prima, fastidiosa luce del mattino filtrò attraverso le vecchie tapparelle che non chiudevano più perfettamente. Con inopportuno tempismo entrò in funzione anche la sciocca musichetta che faceva da suoneria nella sua sveglia. Cercò brancolando il tasto che la spegneva e ricadde sul cuscino. La testa gli pesava un quintale e le orecchie gli fischiavano: il pensiero di alzarsi e andare al lavoro gli procurava un senso di insopportabile angoscia.

Lanciò un’occhiata a Martina che dormiva placidamente, con l’immancabile sorriso che delineava piacevolmente le belle labbra senza difetti. A volte la passività della ragazza gli dava veramente il voltastomaco: il ricordo del focoso rapporto della sera prima, invece che trasmettergli una piacevole sensazione, gli fece salire al cervello un moto di stizza. Diciamo pure che si faceva schifo... come faceva a scopare  con una così... La rabbia gli diede almeno l’energia sufficiente a sedersi sul letto e alzarsi di scatto.

Ingollò interamente il bicchier d’acqua che teneva sul comodino per tentare di liberarsi dall’arsura che gli incollava la lingua al palato.

Alzò la tapparella, scostò la tenda e aprì la finestra, sperando che l’aria piacevolmente fresca del primo mattino e la gradevole prospettiva dei tetti che si perdevano verso il mare gli procurassero un accenno di vitalità, quel tanto che bastava per iniziare la giornata.

«Ale... ma perché hai aperto la finestra? Mi fai prendere freddo...»

«Ti ho detto di non chiamarmi Ale! Non lo sopporto! Te l’ho detto mille volte!»

«Ma... amore... perché ti arrabbi tanto?»

«Amore, amore... non sai dire altro! Ma che razza di amore è il tuo? Te ne stai lì, senza un pensiero decente, senza mai darmi un minimo di aiuto, non c’è mai stata una conversazione intelligente tra di noi! E allora sai una cosa? Mi sono scocciato! Mi sono scocciato per davvero! Sto pensando di farla finita con te!»

«Ma... Ale...»

«Ti ho detto di non chiamarmi Ale!» strillò Alessandro con un improvviso e brutale aumento del tono di voce. Si diresse come una furia verso il letto, afferrò Martina per le spalle e cominciò a scuoterla malamente, facendo rimbalzare la testa sul cuscino e ondeggiare disordinatamente la morbida chioma scura.

«No... ti prego.... Ale...»

Alessandro lanciò un ruggito. Afferrò Martina per i fianchi, la costrinse a mettersi in piedi, la trascinò verso la finestra e la appoggiò sul davanzale. Sembrava impazzito: lo sguardo dilatato, il viso contorto in una smorfia malvagia, lo trasfiguravano nella raccapricciante immagine di qualche demonio sfuggito a una vecchia tela gotica.

La prese per le gambe, la sbilanciò verso l’esterno e la gettò di sotto.

«Muori maledetta stronza!»

 

 

 

La testa esplose lanciando tutto intorno frammenti di gesso bianco, mentre la parrucca si adagiava poco distante. Le membra si disarticolarono, volando qualche metro lontano. Una gamba, urtando il palo di un lampione, si spezzò in due e uno dei monconi rotolò via, facendo terminare il rumore dello schianto in un secco acciottolio che si spense lentamente.

Alessandro si affacciò, riacquistando velocemente la padronanza di sé, guardò ansiosamente da un lato all’altro della strada: fortunatamente a quell’ora non passava nessuno.

Guardò in basso, sulla strada, studiando per qualche attimo, con un po’ di nostalgia, quello che restava della sua Martina. Qualche coccio opaco, minuscole schegge. Un occhio, miracolosamente integro, lanciava ancora verso il cielo uno sguardo azzurro straordinariamente luminoso.

«Noooo!» gridò Alessandro mettendo nella voce tutta la sua disperazione, il dolore di vivere, la rabbia. Ma l’eco, seccata o impaurita, non volle rispondere. Preferì adagiarsi sui tetti senza rumore, restando a scaldarsi ai primi raggi del sole.