Lo specchio

Bogdan Georghievich entrò in casa con passo stanco e si richiuse la porta alle spalle.

Vuotò le tasche del giubbotto di pelle nera gettando su una mensola dell’ingresso un pesante mazzo di chiavi, una manciata di spiccioli, il portafogli gonfio e consumato: al di sopra della mensola uno specchio dalla dozzinale cornice dorata gli rimandò la sua immagine, alla quale gettò un’occhiata distratta. Era stato un bell’uomo, con i lineamenti squadrati dell’avventuriero forte e risoluto, nonostante gli occhi troppo vicini e la fronte bassa consigliassero di girare al largo da lui. I folti baffi, un tempo nerissimi, erano screziati da peli bianchi sempre più numerosi.

Recuperò il cellulare da una delle tasche e lo posò sul tavolo del salottino che comunicava con l’ingresso, gettando poi il giubbotto su un divano, sul quale si lasciò cadere anche lui, appoggiando il capo all’indietro e chiudendo gli occhi. Anche stasera si sentiva sfinito. La gestione del negozio di pelletteria diventava sempre più fastidiosa… e pensare che era solo una semplice copertura della sua attività principale, attività ben più lucrosa. Anche se i rischi e le seccature avevano raggiunto ultimamente un livello preoccupante. Quello che lo faceva imbestialire di più era l’ultimo gruppo di donne che aveva fatto venire dal suo paese: erano belle sì, niente da dire, avrebbero sicuramente fruttato molto, ma erano meno sottomesse del solito, aggressive, lo guardavano apertamente con aria di sfida quando era il momento di tirar fuori i soldi e consegnarglieli. Che cavolo volevano quelle stronze! Le aveva tirate fuori dalla loro miseria, le aveva ripulite, e questa era la gratitudine… come se non bastassero le recenti norme emanate dal governo e quel sindaco rompiscatole che aveva dichiarato di voler liberare le strade della sua città dalla piaga della prostituzione. Una volta per tutte!

Afferrò il telecomando e accese il televisore, fece svogliatamente un giro di canali e si fermò infine sulle immagini violente di un vecchio poliziesco. Seguì per un po’ il film ma si distrasse subito: il suo pensiero tornava inevitabilmente alle sue ragazze ed ebbe un gesto di disappunto… forse era il momento di dare una lezione a un paio di loro: si sarebbero date una calmata anche le altre! Scosse lentamente il capo… dopo la morte di Petra quei sistemi gli creavano un fastidioso senso di colpa… avrebbe detto a Constantin di occuparsene lui, non voleva saper niente!

Petra… il ricordo non lo abbandonava. La prima regola, lo sapeva bene, era non innamorarsi, le ragazze erano solo uno strumento di lavoro, delle schiave di razza inferiore… ma Petra era diversa. Una stretta dolorosa gli afferrò per un attimo la gola e la mente, il viso di lei sembrò quasi materializzarsi nella penombra della stanza: il caschetto di capelli neri, il piccolo naso a punta, la bocca piccola ma dalle labbra piene che un rossetto spudorato rendeva estremamente invitanti. Quella donna lo aveva fatto impazzire: tutti se la potevano scopare a pagamento, ovviamente, ma con lui faceva delle storie. Lo fissava con quegli occhi grandi, incredibilmente neri, nei quali si accendeva una luce fredda di rifiuto e disprezzo, o un lampo di derisione, ancora più umiliante per lui. Poi erano iniziate le aperte ribellioni, i tentativi di fuga,  ogni volta la punizione era più dura, dalle minacce era passato alle percosse, poi l’aveva fatta picchiare selvaggiamente dai suoi uomini. Petra sembrava indomabile. Fino a quel mattino, quel maledetto mattino quando aprì la porta dello stanzino in cui l’aveva lasciata rinchiusa per tre giorni, senza nulla da bere o da mangiare. Bogdan si coprì il viso con le mani e appoggiò i gomiti sulle ginocchia: quell’immagine non l’avrebbe mai abbandonato. Il collo distorto in una posizione innaturale, il corpo appeso al cavo elettrico nero come un orrendo lampadario, le belle gambe bianche inanimate, che la corrente d’aria causata dall’apertura della porta faceva ruotare lentamente.

Si tirò su a fatica, sospirando. Quella era la sua condanna. Si trascinò fino alla camera da letto, prese una sigaretta da un pacchetto che sul comodino faceva compagnia a un accendino d’acciaio e a un vecchio posacenere,  la accese e cominciò a spogliarsi.

Fu allora che la vide.

 

 

In un primo momento pensò a un riflesso, un gioco di luci nello specchio dell’armadio. Aveva colto una specie di movimento con la coda dell’occhio ma non vi aveva prestato attenzione, poi la cosa si ripeté e si avvicinò incuriosito all’armadio. Era un vecchio mobile con una grande anta unica, quasi interamente ricoperta da uno specchio, che, naturalmente, riflesse la sua immagine sullo sfondo del letto. Scosse la testa e pensò che era tempo di metter fine a una giornata particolarmente snervante. Infilò il pigiama, andò nel bagno portandosi la sigaretta, che gettò nella tazza prima di azionare lo scarico, e finalmente spense la luce e si coricò. C’era qualcosa che lo infastidiva… aprì gli occhi e vide un insolito chiarore provenire dall’armadio. Si alzò su un gomito per vedere meglio… e lo sgomento lo prese alla gola come una morsa.

Petra era… dentro lo specchio! Balzò dal letto per vedere meglio. L’immagine era debole, appena percettibile, ma non vi erano dubbi: era proprio lei! Se ne stava seduta, indolente, su una vecchia sedia a braccioli, teneva un gomito su un bracciolo e la mano sollevata a fare da appoggio al mento. Lo guardava fisso, con uno sguardo enigmatico… o era uno sguardo di rimprovero? Poi in quello sguardo si accese il lampo di derisione che lui conosceva molto bene. Sentì i peli rizzarsi in tutto il corpo. Si avvicinò allo specchio senza staccare lo sguardo da quegli occhi, legato da un sottile filo ipnotico. Allungò la mano lentamente per toccare la superficie del vetro… o l’immagine… ma il fioco bagliore si spense improvvisamente e l’immagine scomparve. Bogdan restò un attimo immobile, ma si riprese in fretta. Con un balzo raggiunse l’interruttore e accese la luce. Non si lasciava fregare tanto facilmente! Aprì di colpo lo sportello e restò interdetto di fronte alla familiare vista dei suoi abiti appesi. Richiuse lentamente, disorientato. Dio mio: adesso quella storia lo stava veramente scocciando. Doveva liberarsi di quei ricordi e di quei sensi di colpa. Strinse i denti e i pugni, andò nel bagno, pescò un flacone dall’armadietto e si versò un  paio di pasticche sul palmo della mano, ingollandole poi con un desto deciso. L’avrebbero aiutato a prender sonno. E domani… domani avrebbe pensato lui a cacciare dal suo cervello idiota quelle stupide paure. Avrebbe punito di persona, e con gusto, una di quelle stronze che drizzavano la cresta. Sì, questo era il modo giusto per recuperare la sua proverbiale durezza.

 

 

 

Il primo manrovescio arrivò rapido come l’attacco di un serpente. Eléna sentì un improvviso bruciore alla guancia e il sapore del sangue in bocca. Non era la prima volta che veniva picchiata ma lo sguardo selvaggio di Bogdan metteva paura e le si annebbiò per un attimo la vista. Tentò di rispondere con un calcio ma Constantin e Antòn la immobilizzavano con una stretta ferrea e il calcio andò a vuoto: il risultato fu l’arrivo di un secondo colpo che le scatenò un sibilo intollerabile all’orecchio.

«Ringrazia che non ti posso rovinare la faccia», disse Bogdan sprezzante, «altrimenti potrei farti molto più male… Una puttana col naso rotto non interessa nessuno, ma la prossima volta ti riduco quel bel visino a un miscuglio di ossa e carne. E ti rimando a casa a fare la fame.»

La afferrò per le guance con tutte e due le mani, inasprendo il bruciore degli schiaffi,  e la costrinse a guardarlo negli occhi.

«Chi lavora per me», disse in tono basso e minaccioso, «deve strisciare ai miei piedi. Altrimenti lo schiaccio. Hai capito?»

Eléna, sconvolta e priva di forze, si reggeva in piedi a malapena.

«Rispondi!» le urlò Bogdan sul viso.

«Sì… ho capito…», disse in un sussurro. Bogdan si girò e se ne andò rapidamente, seguito dai suoi uomini. Eléna cadde sul letto come un vecchio pupazzo smembrato e si mise a piangere: piccoli singhiozzi sconsolati scuotevano ritmicamente il bel seno su cui molti investivano i loro ultimi cinquanta euro.

 

 

 

Un leggero senso di oppressione cominciò a impadronirsi di lui già mentre stava salendo le scale. Rise di se stesso e strinse i denti, ribellandosi con un grugnito a questa sensazione che non faceva certo parte del suo carattere. Entrò nell’appartamento e si impose di andare con calma in camera da letto, accese la luce centrale e anche quella sul comodino, guardò a lungo lo specchio con astio, quasi fosse una sfida con se stesso… tutto normale. Coglione, si disse da solo ad alta voce, cosa pensavi di trovare? Si spogliò e si fece una doccia bollente che gli lavò via quasi del tutto la stanchezza, il sudore, il disgusto di una giornata da dimenticare. Si frizionò a lungo tutto il corpo con l’asciugamano, si versò sulle mani una generosa dose di profumo  e si massaggiò il petto e le spalle: adesso si sentiva meglio. Prese un pigiama pulito dal cassetto, lo indossò con soddisfazione e finalmente si coricò. Speriamo di non avere problemi di acidità, pensò mentre spegneva la luce: a cena aveva un po’ esagerato, sia col mangiare che col bere. A tavola faceva lo sbruffone, come i suoi uomini si aspettavano, si ingozzava di pasta e la annaffiava abbondantemente  con bicchieri colmi di vino rosso, che ingollava avidamente: non poteva permettere che l’immagine costruita negli anni si affievolisse. Si rigirò nel letto un paio di volte, poi, mentre stava per cedere ad un sonno pesante, il chiarore di una luce gli colpi le palpebre e lo costrinse ad aprirle. In un attimo fu completamente sveglio, avvertì un leggero brivido percorrergli il corpo.

Las luce proveniva dallo specchio dell’armadio, naturalmente. Si alzò con cautela e guardò: l’immagine lo colpì come una pugnalata.

Petra stava seduta sulla solita sedia, circondata dalla penombra, dalla quale emergeva bianca e splendente la sua pelle liscia. Era completamente nuda, eccetto un paio di calze a rete autoreggenti,  eleganti scarpe nere e lucide dal tacco vertiginoso, un nastrino nero al collo da cui pendeva un grosso ciondolo d’oro a forma di pantera. Sotto la compatta frangetta nera gli occhi brillavano di una luce fonda e ardente, lo fissavano  immobili e allettanti. Bogdan era incapace di muoversi, deglutì a fatica, le mucose secche e sabbiose, senza riuscire a staccare lo sguardo da quella visione sconvolgente che lo soggiogava.

Petra si mosse sulla sedia, lenta e sinuosa, si portò il dito indice alla bocca e cominciò a succhiarlo lentamente, poi lo passò, sempre con lentezza esasperante, sulle labbra chiuse, sul mento, sul collo, come se volesse tracciare il proprio profilo. Scese sul petto e si spostò su un capezzolo, disegnandogli intorno piccoli cerchi concentrici. Portò ancora la punta delle dita alla bocca, succhiandole e leccandole con maggior decisione, irrorandole di saliva luccicante. Scese di nuovo fino all’ombelico e accarezzò con molli  gesti circolari il ventre delicato. Scivolò lentamente in avanti sulla sedia, distese una gamba e piegò invece l’altra, divaricando le ginocchia ed esponendo allo sguardo un sesso scuro, riccioluto, minaccioso. Cominciò a giocherellare col pelo, poi vi affondò decisamente le dita…

La luce si spense di colpo e l’immagine svanì. Fu come se Bogdan avesse ricevuto una secchiata d’acqua, riemerse in un attimo dallo stato ipnotico in cui era rimasto immobilizzato. Accese la luce, lanciò uno sguardo impaurito e astioso allo specchio che rifletteva apaticamente la stanza, si mise a camminare su e giù scosso da una sgradevole agitazione. Dio, cosa mi sta succedendo? Sto diventando matto? Ma no… sarà lo stress degli ultimi giorni… domani vado da un medico e mi faccio dare qualcosa. Era un uomo pratico, dal pensiero semplice e privo di grandi profondità, cresciuto in un ambiente dove la violenza risolveva ogni controversia e dove lui era riuscito a sopravvivere e a creare un proprio spazio grazie alla spregiudicatezza e, spesso, alla malvagità.

Lentamente si calmò, ma l’eccitazione scatenata nel suo corpo dalla travolgente carica erotica delle immagini appena viste non accennava a diminuire. Ormai non sarebbe più riuscito a prendere sonno.

Si vestì rapidamente e uscì di casa. Aveva bisogno di una donna… e di donne ne aveva tante! Improvvisamente seppe da quale andare.

Elèna era abituata a essere svegliata in piena notte, ma non si aspettava certo di vedere Bogdan. Fu presa dal panico: se lui era lì, le botte che le aveva dato non gli erano bastate…

«Non avere paura, non sono qui per darti un’altra lezione», disse sbrigativamente. La spinse dentro casa, le strappò di dosso la vestaglietta che lei aveva infilato per aprire la porta, la buttò sul letto e le saltò addosso come una bestia in calore.

 

 

 

«Le allucinazioni sono un fenomeno ben conosciuto in psichiatria. Per il soggetto che le sperimenta sono percezioni reali e concrete, con le conseguenti reazioni emotive, anche se sono assolutamente prive di sorgenti esterne».

La voce dello specialista era impersonale e non mostrava il minimo accenno di simpatia o comprensione. Era quello che Bogdan voleva: aveva evitato di proposito il suo medico curante, perché non voleva si diffondessero voci maligne sul suo stato mentale, e si era rivolto ad uno sconosciuto neurologo, che, nel suo spazio pubblicitario sulle Pagine Gialle, vantava diversi meriti e specializzazioni. L‘uomo, magrissimo, abbronzato, quasi del tutto calvo, fissava Bogdan con due occhi chiari e  penetranti da dietro un paio di occhiali piccoli e tondi. Si appoggiò sulla scrivania con i gomiti, giocherellando con una stilografica, e aggiunse:

«Anche il tema delirante persecutorio – questa donna sembra volerla perseguitare perché la ritiene responsabile del suo suicidio – è molto frequente. Tenga presente però che la donna non esiste e il senso di colpa è nel suo inconscio.

Io però voglio tranquillizzarla: il sintomo che lei riferisce e che potrebbe far pensare ad una schizofrenia paranoide, non trova altri riscontri nella sua storia clinica né nelle evidenze emerse dal nostro colloquio e dagli esami. Sono certo che si tratti di un fenomeno passeggero innescato da un periodo di forte stress».

Bogdan tirò fra sé e sé un sospiro di sollievo: come aveva notato altre volte, le semplici rassicurazioni di un medico avevano un effetto miracoloso.

«Io comunque», proseguì lo specialista impugnando la stilografica e cominciando a scrivere rapidamente su un ricettario, «le prescriverei un neurolettico da associare a un blando tranquillante. Segua questa terapia per un mese e torni da me», concluse alzandosi dalla scrivania e tendendo a Bogdan un foglietto.

«Spero proprio di non doverla disturbare ancora…», disse Bogdan alzandosi a sua volta. «Le sue parole mi hanno dato coraggio. Sono convinto che questo disturbo passerà in fretta».

 

 

 

La vita riprese i suoi ritmi abituali: il lavoro di copertura, le mille beghe con le ragazze, le bisbocce con i suoi uomini. Petra, o meglio il suo fantasma, da un paio di giorni non si faceva vedere: quasi quasi Bogdan aveva una certa nostalgia delle apparizioni… ma questa considerazione lo fece sorridere e si diede dell’imbecille.

Possibile che quelle poche gocce prescritte dal medico avessero avuto un effetto così immediato?

Passarono altri giorni senza particolari problemi: Bogdan si sentiva guarito e si apprestava ad archiviare l’episodio tra i tanti ricordi spiacevoli della sua vita.

Eléna… non l’aveva più vista. E neanche voleva vederla. Prima regola: niente storie con le ragazze.

Anche gli affari avevano ripreso ad andare per il verso giusto, dopo un periodo di crisi, e l’ultima giornata sembrava aver riportato gli incassi ai livelli di un tempo.

Bogdan rincasò di buon umore: la cena era stata ottima, la compagnia allegra. Si apprestò a godersi un’altra notte di sonno ristoratore, cosa a cui si stava ormai abituando.

Fumò un’ultima sigaretta al davanzale della finestra, assaporando l’aria fresca della notte, e si coricò senza problemi.

 

 

 

Aprì gli occhi a fatica. Qualcosa lo stava disturbando. Restò immobile cercando di individuare eventuali suoni nella notte: nulla. Poi il lieve rumore si ripeté… sembrava …un cigolio. Ora era sveglio completamente, irritato per essere stato strappato a un sonno piacevolmente profondo. Si guardò intorno nel buio cercando di individuare la provenienza del rumore: dall’armadio si diffondeva il chiarore che lui conosceva bene e mentre stava prendendone atto, con rabbia e scoramento, dall’armadio giunse anche, nitido e inconfondibile, quello sgradevole cigolio.

Si alzò di malavoglia, più rassegnato che impaurito, ma l’immagine dentro lo specchio esplose nel suo cervello, gli fece spalancare gli occhi e la bocca in modo inverosimile mentre l’aria gli penetrava in gola con un sibilo rauco e un gelo diffuso gli contraeva la pelle.

Petra brillava nell’oscurità, netta e tangibile, rischiarata da una luce verdognola. Pendeva inerte da un cappio fissato con un gancio al soffitto, con il collo piegato di lato, ondeggiando lentamente e provocando il cigolio del gancio.

Bogdan si coprì il volto con le mani, ma l’immagine non lo abbandonava, formava un bagliore nella sua retina come un orrendo buco di fuoco. Riaprì cautamente gli occhi e si costrinse a guardare: lo sguardo di Petra era fisso su di lui, immobile e minaccioso, lo sguardo di un dio crudele e vendicativo a cui non si può sfuggire. Inutile aprire l’anta dell’armadio, non avrebbe trovato nulla. Non era uno scherzo di cattivo gusto. Si precipitò alla finestra e la spalancò, aspirando l’aria come un annegato. Afferrò il davanzale e scosse furiosamente la testa come volesse scacciare qualche bestia che gli artigliava la fronte e i capelli. Dio mio, no, no, ancora! Credeva di essersene liberato e invece il suo rimorso era ancora lì, spietato, anzi, aveva alzato il tiro: non più immagini seducenti ma terrificanti.

Richiuse la finestra e lanciò un’occhiata di sbieco allo specchio: l’immagine era svanita. Fuori cominciava ad albeggiare: impossibile pensare di prendere di nuovo sonno. Si vestì e uscì, iniziando sconsolatamente la giornata sotto il peso della sua angoscia.

 

 

 

Da quella notte Petra tornò regolarmente a fargli visita. Era divenuto ormai una specie di appuntamento inevitabile con l’orrore. Bogdan lo aspettava con la dolorosa tensione con cui si va incontro a una sofferenza certa e imminente, entrando in casa con le membra rattrappite, coricandosi senza prender sonno, con gli occhi sbarrati nel buio, aspettando l’apparizione che lo avrebbe se non altro liberato dall’inquietudine dell’attesa.

Non riusciva più neanche a dare una collocazione ragionevole all’avvenimento. In un primo momento riusciva a ripetersi che si trattava, come gli aveva confermato anche il medico, di una banale persecuzione da parte del suo rimorso per il suicidio di Petra, un rimorso che prima o poi avrebbe dovuto affievolirsi e infine scomparire del tutto. Ma ora la sua ragione aveva perso la battaglia. Le apparizioni erano divenute una droga, ne dipendeva totalmente, le attendeva con un misto di terrore e desiderio, uscendone ogni volta sempre più esausto e devastato. Nell’anima e nel corpo.

E come se Petra conoscesse questo suo sprofondare nell’abisso della dipendenza aumentava ogni volta la dose del raccapriccio. Bogdan l’aveva osservata mentre gli puntava contro un indice accusatore, l’aveva vista pugnalata in un lago di sangue, l’aveva spiata a lungo, quasi con bramosia, mentre giaceva pallida e immobile su un letto di morte… quella volta si era addirittura rispecchiato in lei: anche lui era diventato pallido e smunto. Non solo: camminava con le spalle infossate e lo sguardo sfuggente, aveva smesso di bere e di mangiare, era colto spesso da un tremito delle mani e da vertigini improvvise che lo lasciavano sudato e disorientato. I suoi uomini, abituati a dipendere totalmente dal suo decisionismo, erano disperati. Era allo sbando anche il gruppo di ragazze che battevano le strade, per non parlare del negozio di copertura.

 

 

 

Bogdan era preparato a tutto, ma non a questo improvviso cambio di scena. Quella sera Petra era seducente come non mai. Completamente nuda, e sorridendo con espressione maliziosa, si insaponava con cura il corpo seduta sul bordo di un vasca da bagno piena di acqua fumante, un’elegante vasca ottocentesca con graziosi piedini di ottone. Faceva scivolare la schiuma rugiadosa sulle belle braccia, sulle cosce sode, la spalmava con gesti lenti e provocanti sulle grosse mammelle, facendo inturgidire i capezzoli che sporgevano tra le bollicine. Lanciò un’occhiata al suo unico, avido spettatore e poi, con un movimento elegante, scavalcò il bordo e si immerse nell’acqua. Bogdan raggiunse il colmo dell’eccitazione: con quel movimento Petra aveva aperto le gambe quanto bastava per mettere in mostra la peluria scura del pube, brillante di una miriade di goccioline. Bogdan deglutì e accelerò il respiro, fissando le immagini con la bocca semiaperta. Era completamente soggiogato.

Ma qualcosa non andava… l’acqua si stava colorando a vista d’occhio, una sfumatura rossastra saliva dal fondo e si stava impadronendo di tutta la vasca. In pochi secondi il liquido assunse decisamente un colore e una consistenza che Bogdan conosceva bene.  Ma… sì, quello… era sangue!   Petra cominciò ad agitarsi nell’acqua, l’espressione felice e soddisfatta del viso cominciò a trasformarsi lentamente in una maschera di terrore. Scivolò inesorabilmente verso il basso, si aggrappò disperatamente ai bordi della vasca ma sembrava che una forza invincibile la trascinasse verso il fondo, scomparve un attimo sott’acqua poi riemerse tossendo e sputando quell’orribile liquido rosso, affondò di nuovo, le nocche delle mani, bianche per lo sforzo, persero la presa sul bordo della vasca… l’acqua fu scossa violentemente, spruzzi di sangue schizzarono tutt’intorno, poi, dopo un ultimo sussulto, quella ributtante mistura si acquietò. Ma Bogdan era già svenuto.

 

 

 

«Constantin, sono io.»

«Ehi, capo, come stai?»

«Sto bene, sto bene. Ho bisogno di una cosa.»

«Dimmi…»

«Mi servono un paio di dosi di quella roba che hai tu…»

«Ma… non hai mai voluto saperne di quella schifezza…»

«Non è per me, stronzo. Sta’ a sentire: guarda che non voglio quella buona, portami quella tagliata…»

«Ma… Bogdan, vuoi far fuori qualcuno?»

«Non t’impicciare. Fai quello che ti dico.»

 

 

 

Il corpo giaceva composto sul letto ben fatto, come se si fosse preparato a morire. La siringa sul comodino non lasciava dubbi. Il tenente Caldera aveva già tirato le sue conclusioni senza bisogno di aspettare le analisi dei colleghi della scientifica: arresto cardio-circolatorio da overdose di eroina. Si guardò intorno lentamente, scosse la testa e si avvicinò di nuovo allo specchio dell’armadio per leggere la scritta tracciata con un pennarello nero: MUORI MALEDETTA!

«Qualcosa non quadra, vero tenente?» La ragazza in divisa gli si era accostata in silenzio e si era messa anche lei a studiare quella scritta. «Lo scenario del suicidio sarebbe perfetto, se non ci fossero queste parole…»

«Già… e chi le ha scritte era piuttosto incavolato: i tratti del pennarello sono violenti come pugnalate.»

«E’ come se chi si è ammazzato avesse in realtà fatto fuori qualcun altro, o meglio un’altra.»

«Brava! Lei mi legge nel pensiero…»

Il tenente Caldera si avvicinò alla finestra taciturno. Alto, magro, sembrava ignorare il proprio fisico atletico e l’effetto che aveva sulle donne, colleghe di polizia e non. Ignorava anche l’invidia degli altri poliziotti per quel suo viso enigmatico, da divo del cinema: quello che gli interessava era fare bene il suo lavoro e quando capitava un caso stimolante come questo ritrovava l’entusiasmo dei primi anni.

«Alessandra, cosa sappiamo di quest’uomo?»

«Lo tenevamo d’occhio», disse la ragazza, lusingata per essere stata chiamata per nome e non con il cognome, in modo militaresco, come facevano tutti. «Era titolare di una pelletteria in una via del centro, ma sospettiamo avesse un ruolo di primo piano nello sfruttamento della prostituzione e nella tratta di donne dall’est. Si chiamava…», Alessandra consultò una piccola agenda… «Bogdan Georghievich, di origini bulgare ma da molto tempo in Italia. Era molto furbo, a quanto pare, non siamo mai riusciti a incastrarlo.»

«Chi lo ha trovato?»

«Nessuno, una telefonata anonima, una voce di uomo con accento straniero, naturalmente.»

Caldera guardò intensamente il volto di Bogdan, come se volesse carpirgli il motivo della sua morte. Prese il cellulare dal taschino, cercò un nominativo nella rubrica e spinse il tasto di chiamata.

«Ciao, Paolo, ho bisogno del tuo aiuto… Sì per quel caso di suicidio… Lo so che i tuoi colleghi sono già venuti, ma io ho bisogno del tuo famoso intuito, di quel terzo occhio per cui sei famoso… Sì, c’è una nota stonata in un quadro perfetto, sono sicuro che tu riuscirai a individuarla subito… o.k. ci vediamo qui tra una mezz’ora, ce l’hai l’indirizzo? Va bene, ciao, a dopo.» Chiuse la comunicazione e si rivolse alla giovane poliziotta: «Alessandra, abbiamo il tempo per uno spuntino… che ne dice?»

«Perfetto! Stavo giusto svenendo dalla fame: è dalle sette che sono qui…»

 

 

 

Paolo Braschi era una leggenda della Polizia scientifica. Specializzato nella ricostruzione tridimensionale della dinamica di un evento criminale, con tecniche di realtà virtuale, era un mostro di conoscenza nei campi più vari: chimica, fisica, biologia, e conosceva profondamente la contorta psicologia degli autori di crimini efferati. Persona dall’apparenza insignificante, basso e completamente calvo, aveva due occhi chiari, dall’iride piccolo e indagatore che ti facevano sentire un insetto sul vetrino di un microscopio.

Entrò nella stanza dove giaceva il cadavere di Bogdan col sorriso di un lupo che entra in un ovile e cominciò subito a guardarsi intorno con metodo. Studiava ogni particolare con sguardo attento e veloce, soffermandosi su alcuni punti che riteneva evidentemente meritevoli del suo interesse. Caldera lo osservava sornione, senza disturbarlo.

Arrivato davanti allo specchio dell’armadio, Braschi si arrestò di colpo, studiò la scritta, ne inumidì un angolo col polpastrello bagnato di saliva, aprì l’anta e diede un’occhiata sommaria all’interno. Poi si mise a studiare l’interno dello sportello, che era quasi del tutto occupata dalla parte posteriore dello specchio, vi picchiettò sopra con le dita e…

«Questo è un vetro unidirezionale», disse con un tono di lieve sorpresa nella voce.

«Cosa?» fece Caldera avvicinandosi.

«Come quelli che usiamo per gli interrogatori?» chiese Alessandra.

«Più o meno…» rispose Braschi. «In realtà si tratta di uno specchio parzialmente riflettente, ottenuto cioè con un’alternanza di strisce argentate e strisce chiare. Quando questa lastra è guardata dall’esterno l’effetto è quello di un comune specchio, mentre dall’altra parte è possibile intravedere l’immagine di chi si specchia. Variando le condizioni di luce, da una parte o dall’altra, cambiano i rapporti: ad esempio se qui nella stanza fosse buio e dentro l’armadio ci fosse una lampada, invece di specchiarci vedremmo la lampada. Non so se…»

Caldera stava riflettendo rapidamente.

Spalancò completamente lo sportello, scostò i vestiti ancora appesi sugli attaccapanni, esaminò attentamente il fondo dell’armadio.

«Aiutatemi», disse, «spostiamo l’armadio.» Insieme a Paolo fece scorrere di lato il pesante mobile: sulla parete si apriva una porta di legno scuro, senza maniglia.

«Accidenti!» si lasciò sfuggire Alessandra.

Caldera e Braschi, che si erano capiti al volo, stavano già allontanando l’armadio dalla parete, premettero sul fondo e questo scivolò di lato, senza opporre resistenza, silenzioso, come un meccanismo ben lubrificato.

«Incredibile…» disse Caldera perplesso, fissando i suoi due colleghi. «Qualcuno aveva trovato il modo di spiare il defunto Georghievich… per motivi che non conosciamo.»

«Dobbiamo vedere cosa c’è qui dietro», disse Alessandra studiando attentamente la porta segreta.

«Non sarà difficile.» Braschi si diresse alla finestra, si sporse e valutò con sguardo indagatore la facciata del palazzo confinante. «Venite a vedere: qui di fianco c’è una piccola casa a schiera a tre piani. Una stanza dell’ultimo piano corrisponde esattamente a questa.»

 

 

 

Quattro gradini accuratamente puliti conducevano a un portoncino lucidato a specchio, ma che aveva conosciuto giorni migliori. L’altezzosa targa in ottone era smentita dal modesto contenuto: Pensione Magda. Una stella.

Una donna matura, dal viso aperto e cordiale, aprì e guardò con aria interrogativa ma sorridente le tre persone che avevano suonato. Il sorriso si spense subito, vedendo la ragazza in uniforme.

«Non abbia paura signora», disse Caldera. «Siamo della polizia, ma dobbiamo solo farle un paio di domande.»

«Prego, accomodatevi…» disse l’anziana affittacamere, aprendo completamente la porta e facendosi da parte. «In cosa posso esservi utile?» Il tono tradiva una certa apprensione.

«Può farci vedere le stanze dell’ultimo piano?» chiese Caldera.

«Certo… prendo le chiavi.»

«Sono affittate?»

«Ah, guardi, non ho più tanta gente come una volta… Ci sono due stanze di sopra: una è vuota da molto tempo. Nell’altra c’è stata una ragazza fino a ieri.»

Caldera e Braschi si scambiarono uno sguardo d’intesa.

La donna li precedette arrancando su per le scale, ansimando.

«Eh, non sono più quella di una volta…» disse scusandosi.

«Non si preoccupi,» la incoraggiò Alessandra. «Non abbiamo fretta. Ci faccia vedere la stanza che si è appena liberata.»

L’affittacamere armeggiò un attimo con le chiavi e lasciò entrare i poliziotti. La stanza era molto modesta e arredata in maniera essenziale. Lo sguardo di tutti andò subito alla porta sulla parete di fondo.

«E questa porta dove dà?» chiese il tenente dirigendosi verso di essa.

«Ah, quella è sempre stata chiusa. Credo di non avere neanche le chiavi…»

«E cosa c’è dietro?»

«Non lo so… forse una stanza dell’appartamento di fianco. Queste sono case vecchie, gli appartamenti erano molto grandi. Tanti anni fa, prima ancora che il mio povero marito comprasse questa pensioncina, il proprietario pensò di dividere gli appartamenti in due, così quando vendette ci guadagnò il doppio. Non si degnò neanche di murare le porte di comunicazione…»

«E questa ragazza… quella che ha preso in affitto questa stanza, quanto tempo è rimasta?» chiese Caldera.

«Ah, poco… solo tre mesi.»

«E che tipo era?»

«Ah, un gran bel tipo. Era molto bella sa? Molto gentile, educata. Però… un po’… come posso dire… misteriosa. La sentivo trafficare nella camera, non so cosa facesse, si sentivano dei gran rumori delle volte, come se lavorasse. Ma non le ho mai chiesto niente: in fondo non dava fastidio e poi pagava sempre puntuale.»

«Naturalmente ci può fornire tutti i dati…»

«Sì, certo, se andiamo di sotto… pensi che ho anche una fotografia…»

«Una foto!?» Il tenente non credeva alla propria fortuna. Guardò Braschi e la sua aiutante con espressione furbesca e aggiunse: «E come mai?»

«E’ stato il giorno del mio compleanno… Quando è passata in portineria gliel’ho detto e le ho offerto un po’ di frizzantino come aperitivo. Ero un po’ su di giri. Le ho detto “lo sa che non ho mai avuto una cliente bella come lei? Facciamo una foto insieme, così la tengo come ricordo”. Ho chiamato una mia vicina e ci siamo fatte una foto col mio telefonino… sono vecchia, ma il telefonino ce l’ho!»

L’affittacamere si era sciolta. Non la smetteva un attimo di parlare. Erano scesi intanto nel piccolo ingresso  adibito  a reception e la donna pescò da un cassetto un registro:

«Ecco qua», disse infilando un paio di occhiali. «Stéphka Dimitrova» lesse poi, con una certa difficoltà e aggiunse compiaciuta: «Era bulgara…»

«Segnati tutto», disse Caldera rivolto ad Alessandra. «E la foto?» chiese poi all’affittacamere.

La donna prese il cellulare che era posato sul banco, pigiò con una certa concentrazione alcuni tasti e infine mostrò trionfante il display. La foto era nitida e luminosa: ritraeva la donna sorridente accanto a un viso piuttosto enigmatico, in cui spiccava una sensuale bocca rossa dal sorriso appena accennato. Una  frangia scura, dal taglio geometrico, non riusciva a nascondere lo sguardo intenso di due occhi grandi e nerissimi. Caldera fissò un attimo quegli occhi cercando in essi la risposta ai tanti interrogativi che si stavano affollando nella sua mente. Poi si riscosse e disse:

«Signora, abbiamo bisogno di questo telefono: dobbiamo stampare la foto. Ma non si preoccupi: la mia collega glielo riporterà in meno di un’ora.»

Sul viso della donna si dipinse una certa apprensione:

«Ma… perché… cos’ha fatto quella ragazza? Non si sarà mica messa nei guai?»

«Non possiamo dirle niente di preciso. Stiamo facendo delle indagini. Può darsi che la ragazza non sia neanche coinvolta,» aggiunse per tranquillizzare l’anziana affittacamere. Ma era il primo a non crederci: lo sguardo della presunta Stéphka Dimitrova, sia pure da una semplice foto, lo aveva trafitto nel profondo come il colpo di una lama affilata.

 

 

 

Alessandra entrò nell’ufficio del tenente Caldera senza attendere il permesso. L’eccitazione le si leggeva in viso.

«Tenente! L’abbiamo trovata!»

Caldera sollevò il capo vivacemente. Finalmente le copie della foto che Braschi aveva ricavato dal telefonino dell’affittacamere e che lui aveva fatto girare in tutta la città avevano dato il loro frutto.

«L’hanno riconosciuta in molti. Era una delle tante prostitute che circolano nei viali della circonvallazione, ma  a quanto dicono, era molto richiesta e apprezzata… Il nome però non corrisponde: tutti l’hanno indicata come Petra.»

«Questo significa poco. Potrebbe essere un nome… d’arte. E nessun legame con l’uomo che abbiamo trovato morto?»

«Veramente ci sarebbe un piccolo collegamento, appena un accenno. Il cameriere di un bar ci ha detto che lavorava per uno che chiamavano “il bulgaro”… Ma il problema è un altro. Questa Petra è sparita dalla circolazione un paio di mesi fa: nessuno l’ha più vista.»

Caldera si alzò lentamente e cominciò a passeggiare per la stanza, fermandosi ogni tanto per riflettere e lanciando qualche occhiata dubbiosa alla sua collega.

«Bene… un bel mistero…» disse a un certo punto. «Abbiamo una passeggiatrice bulgara che lavora per uno sfruttatore soprannominato “il bulgaro”. Scompare improvvisamente per ricomparire due mesi dopo. E’ una donna notevole, è furba, capace: affitta una camera adiacente a quella del suo padrone e questo poco tempo dopo muore suicida. Che cosa ha scoperta Petra, nascosta dietro il suo specchio? E’ lei che ha indotto l’uomo a farla finita? E’ rivolta a lei la minaccia che lui ha scritto prima di morire?»

Si arrestò fissando Alessandra come se potesse rispondere alle sue domande.

«Sembrerebbe esatta come ricostruzione….» disse la ragazza. «Anche se ci sono ancora parecchi lati oscuri. Ma noi cosa possiamo fare? Anche se trovassimo Petra, di cosa potremmo accusarla?»

«Già… di cosa? Potremmo benissimo chiudere la questione: un banale caso di suicidio… ma c’è qualcosa di insolito in tutta questa vicenda. Qualcosa di inspiegabile che mi crea un certo disagio… Però  potrebbe aiutarci ad uscirne una carta che ho giocato stamattina: ho un amico al Servizio di cooperazione internazionale di polizia che mi deve un favore.  Gli ho mandato la foto della donna via internet: vediamo cosa potrà fare per noi.»

***

 

 

«Ha chiesto di me, tenente?»

«Sì, Alessandra. Entri e chiuda la porta.» Caldera stava studiando con interesse lo schermo del computer. «Venga a vedere.»

La ragazza aggirò la poltrona del tenente collocandosi alle sue spalle per osservare anche lei lo schermo luminescente, interamente occupato da una specie di scheda segnaletica, a sinistra della quale si trovava una foto molto simile a quella che avevano ricavato dal telefonino dell’affittacamere.

«Petra Dimitrova,» lesse Alessandra ad alta voce,«nata a Stara Zagora (Bulgaria) il 25 gennaio 1981. Nessun precedente a suo carico. Ha lasciato il paese per l’Italia con regolare passaporto nel 2007. Non ha più fatto ritorno. Attuale domicilio sconosciuto… Be’ non ci dice molto di nuovo…» commentò Alessandra.

«Guardi la prossima immagine,» disse Caldera cliccando col mouse.

Apparve una scheda simile alla prima con una foto che, a prima vista, sembrava della stessa persona. Alessandra riprese a leggere.

«Stéphka Dimitrova, nata a Stara Zagora…. il 25 gennaio 2007…» Alesandra si interruppe sorpresa. Osservò meglio la foto: il viso era altrettanto bello ma appariva più determinato, lo sguardo era intelligente, un po’ inquietante. «Ma… sono due gemelle!» esclamò. Continuò a leggere la scheda: «Laureata in biologia, ha lasciato il paese dopo aver ottenuto una borsa di studio come ricercatrice al Trinity College di Dublino nel 2006. Attualmente è impegnata in un progetto pilota nel campo della chimica immunologica. Domicilio: 223 Exchequer Street, Dublin, Ireland.»

«Donna interessante, eh?» commentò Caldera.

«Ma… quindi? Che cosa può essere accaduto?»

«Un’idea me la sono fatta…  Petra, visto l’ambiente in cui viveva, avrà purtroppo fatto una fine violenta. La sorella gemella, lei sa come le gemelle abbiano spesso un legame molto profondo, ha deciso di vendicarla, è venuta in Italia, ha costruito la strana trappola che abbiamo visto e poi….»

«E poi?»

«Quello che accadde esattamente non lo sapremo mai. Sappiamo solo che Stéphka ha ottenuto quello che si era proposta.»

«Ma… ora sappiamo chi è. Possiamo interrogarla…»

Caldera restò in silenzio parecchi secondi, continuando a fissare gli occhi di Stéphka: non riusciva a staccarsene, gli davano un leggero senso di capogiro, erano gli occhi di una donna pericolosa, capace di grandi passioni, nel bene e nel male. Avrebbe voluto conoscerla in un’altra occasione, pensò con un accenno di struggente innamoramento.

«Perché?» disse infine. «Perché rovinare a questa donna il suo piano perfetto? Abbiamo un cadavere, abbiamo il colpevole, che si è già condannato da solo al massimo della pena... cosa vogliamo di più. Direi che il caso è chiuso.»

Si alzò e guardò Alessandra intensamente, quasi a cercarne la complicità.

«Che ne direbbe di festeggiare? Conosco un ristorantino in collina....»

La ragazza confermò la sua disponibilità con un gesto di assenso e un sorriso sfolgorante che metteva allo scoperto i suoi sentimenti.

Caldera si girò per chiudere la cartella dei suoi documenti sul computer. Un rapido clic e Stéphka scomparve nel nulla.