Stanza d'albergo

La prospettiva dello stretto corridoio, debolmente illuminata dalle appliques dorate, si allungava in maniera incongrua per effetto di uno specchio posto sulla parete di fondo. La cameriera di colore spinse svogliatamente il carrello con le lenzuola e gli asciugamani puliti lungo la sbiadita moquette rossa, fermandosi davanti a una delle numerose porte laccate di blu che interrompevano ai due lati, con regolarità, le pareti ricoperte da una lisa carta da parati color tabacco. Armeggiò con un mazzo di chiavi, spinse la maniglia ed entrò, facendo una smorfia per l’odore stantio di chiuso e di sudore. Si diresse alla finestra e la spalancò, lasciando entrare, insieme alla luce di una giornata grigia, l’aria umida dal lieve sapore di nebbia e il brusio inconfondibile di un mattino metropolitano.
I rumori familiari e il fresco pungente le misero addosso un po’ di buonumore e si trattenne un attimo a guardare in alto le terrazze degli attici, dove il verde di qualche pianta si stagliava contro il cielo lattiginoso. La luce, anche se non era intensa, fece brillare i grandi occhi scuri della ragazza e i denti bianchissimi, appena scoperti da un sospiro e dal principio di un sorriso. Era piuttosto bella per una della sua razza: il naso era stretto e ben proporzionato, le labbra generose e appena sporgenti come se stesse mandando un bacio, la fronte spaziosa dietro la frangetta di capelli nerissimi, accuratamente stirati e con morbidi riflessi bluastri. Si allontanò dalla finestra e si diede un’occhiata distratta passando davanti allo specchio: il suo corpo non era per niente male, pensò per la millesima volta. Avrebbe potuto fare la ballerina in un night, fare un provino in qualche agenzia di modelle… con quelle gambe lunghe e flessuose, con le cosce forti che tendevano i bottoni della divisa da lavoro, il seno piccolo ma aggressivo, forse i soldi e il successo non erano poi così impensabili, irraggiungibili… ma le mancava il carattere, la giusta determinazione, si faceva troppi scrupoli.
Sospirò rumorosamente, dando un’alzata di spalle, e si accinse a rifare il letto, mentre il suo sguardo allenato registrava qua e là un giornale spiegazzato, una rivista di politica, due mozziconi di sigaretta, il vuoto di una mignon di whisky per terra, vicino al comodino. “Un uomo solo”, pensò. “Chissà se era bello, giovane, se aveva sentito la mancanza di una donna. Accidenti, perché devo sempre essere così romantica!” Diede uno strattone energico alle coperte, scoprendo il lenzuolo di sotto, e restò col gesto a metà: verso il fondo del materasso, un indumento scuro, appallottolato. Lasciò andare le coperte e lo prese, scuotendolo per vedere di cosa si trattava; non era la prima volta che qualcuno lasciava i pezzi in camera.
Erano i pantaloni di un pigiama scuro di seta, molto raffinati, giudicò la ragazza. Qualcosa la indusse a rimirarli più del necessario, tenendoli davanti a sé con le braccia tese: forse il profumo maschile e gradevole che si sprigionava dalla stoffa fine, forse l’ingenua fantasia che la faceva pensare a un corpo giovane, muscoloso, abbronzato. Si ritrovò a fissare l’apertura che scendeva dall’elastico fino al cavallo, interrotta da due asole e due bottoni slacciati: stava per darsi vergogna da se stessa quando notò che proprio quella zona era più scura, l’avvicinò al viso, la toccò con la punta delle dita. Era fresca e bagnata.
Non si rese mai conto, anche ripensandoci in seguito, di come fosse potuto succedere: ebbe improvvisa e quasi materiale la visione dello sconosciuto che si svegliava di colpo, bagnato ed eccitato, al culmine di un sogno erotico. Sentì accelerare il respiro, che cominciò a sibilare tra le sue labbra semiaperte. Il sangue le pulsava nelle orecchie e le faceva avvampare il viso. In un attimo avvertì dentro di sé tutta la sua mancanza d’amore, la sua solitudine, la forza trattenuta a stento delle sue sensazioni, delle sue fantasie, delle sue eccitazioni, una forza che in quel momento stava dilagando libera e travolgente fuori dagli argini della sua insignificante vita quotidiana.
Sdoppiata, in completa balìa di un’altra sé, si vide chiudere la porta della camera, sfilarsi rapidamente le mutandine e metterle in tasca, sollevare il grembiule sopra le cosce lucide e scure come quelle di una statua di bonzo, mentre si adagiava contro la spalliera del letto, appoggiando le reni al cuscino. Si portò il tessuto umido del pigiama al viso e ne aspirò il profumo, poi ne introdusse un lembo nella vagina, che sentiva ormai contrarsi in maniera spasmodica, e cominciò a spingerlo dentro e in alto, premendo forte come se volesse riempirsene, mentre i suoi occhi, sempre più scuri e sempre più lucidi vagavano disperati per il soffitto in cerca di un appagamento totale che la ragazza sentiva ormai vicino.
“Amhira! Amhira, dove sei?”
Il suo nome, gridato dalla voce inconfondibile di Alex, vicedirettore dell’albergo, esplose nella sua testa come uno sparo. Balzò dal letto in preda al panico. Guardò disorientata la porta senza sapere cosa fare. Poi si sbarazzò velocemente del pigiama ed ebbe un’ispirazione: entrò nel bagno e fece scorrere l’acqua dello scarico, mentre con le mani afferrate al bordo del lavandino si guardava allo specchio tentando di controllare il ritmo del respiro.
“Ahmira!” chiamò di nuovo Alex, che aveva visto il carrello e aveva aperto la porta giusta. “Ah, sei qua! Quanto ci vuole a finire questo corridoio?”
“Non c’è bisogno di urlare: sono dovuta andare in bagno. Un bisogno improvviso, va bene?”
“Sì, va bene, va bene. Voi negri non avete voglia di fare un cazzo! Dai, muoviti, che c’è bisogno di te di sotto.”
E se ne andò in fretta, mentre Amhira, sentendosi stupida, infelice, insoddisfatta, radunava a stento un po’ di energie per finire la camera.

 

Sedeva vergognosa, con le ginocchia unite e lo sguardo abbassato, guardando di sottecchi le altre donne, tutte di razza bianca naturalmente, in attesa come lei nell’anticamera del ginecologo. Fingevano tutte di leggere le vecchie riviste consunte, ma di sicuro la stavano osservando: una ragazza di colore, non troppo elegante, cosa ci faceva nello studio di uno specialista rinomato? Possibile che dappertutto, anche nei posti più impensati, ci si dovesse mescolare, contaminare con questa gente? Un ambulatorio poi era un posto delicato… c’è il rischio di beccarsi qualche infezione…
Amhira quasi si lasciò sfuggire un sorriso immaginando i pensieri di quelle signore impettite e astiose, ma c’era ben poco da rallegrarsi, quella visita le sarebbe costata una buona fetta del suo stipendio! D’altra parte, come fare? Non poteva certo accontentarsi dell’esito di quel fottuto esame fatto in casa!
Riandò col pensiero agli ultimi, angosciosi giorni, che avevano dato uno scrollone alla sua vita insignificante trasformandola da un momento all’altro in un opprimente assillo.Rivide la farmacista dal sorriso gentile e complice che le porgeva la confezione: è un test di gravidanza molto facile da eseguire anche da soli, dentro ci sono tutte le istruzioni… Le tornarono in mente il contagocce, la provetta, il campione di urina raccolto di primo mattino e la strisciolina di carta, tenuta con mano tremante, la stramaledetta strisciolina di carta che cambiava colore e che, come da istruzioni, le urlava in faccia l’incredibile sentenza: sei incinta, povera scema! Incinta? Ma di chi? Di cosa? Vaffanculo! Ma se io non ho neanche scopato!
“Signorina, tocca a lei.” La voce fredda e malevola la strappò ai suoi pensieri. Si alzò, conscia dell’effetto che faceva comunque il suo fisico giovane e attraente, ed entrò con apprensione nello studio del medico.

“Il suo è un caso piuttosto raro. Ma non impossibile.” Il tono era cortese e comprensivo. Anche l’aspetto del medico, un signore attempato dai modi cordiali, aveva rilassato Amhira, che, un po’ piangendo, un po’ avvampando per la vergogna, si era rassegnata a raccontare esattamente quanto era accaduto, anche perché lei stessa era ansiosa di capire.
“Vede,” proseguì il ginecologo, “quando il seme viene depositato in vagina in modo naturale, vengono liberati fino a cinquecento milioni di spermatozoi: più di metà è uccisa dalle secrezioni acide della vagina stessa, un numero ancora maggiore muore durante il viaggio attraverso l’utero e nelle tube, ma ne sopravvivono comunque alcune migliaia, quasi tutti in grado di fecondare l’uovo. Ora, nel caso specifico, tutti questi numeri vanno drasticamente ridotti, ma, tenuto conto che uno spermatozoo può sopravvivere fino a 48 ore, è possibile che un certo numero sia riuscito a raggiungere l’uovo.”
Amhira, più che seguire le spiegazioni tecniche che le venivano date, spiava sul viso del medico un minimo accenno a un incoraggiamento, uno sguardo più disteso che annunciasse la minima speranza di una via d’uscita.
“Allora sono proprio incinta, non c’è niente da fare?”
“Beh, cara la mia ragazza, di cose da fare ce ne sono tante. Oggi la legge le consente di abortire in ospedale, con tutta l’assistenza psicologica e ostetrica che il caso richiede. E mi sembra che nella sua situazione…”

 

Camminava lentamente, vicino al muro, come se le costasse fatica mettere un piede davanti all’altro, come se dare inizio ad un nuovo passo le costasse una tormentata decisione. Vedeva appena i passanti che incrociava e che la guardavano con aria interrogativa. “Crederanno che sono una battona!” pensò amaramente. “Magari! Almeno con quello là ci sarei andata veramente. E mi avrebbe pagato, per giunta.”
L’aria si stava scurendo e il tepore del pomeriggio lasciava il posto a un venticello gelido che penetrava sotto i prematuri abiti leggeri, tirati fuori con l’entusiasmo delle prime giornate di sole. Amhira però non se ne accorse. Come non si accorgeva delle luci abbaglianti che ad una ad una trasformavano le vetrine in grandi palchi variopinti, su cui si rappresentava, come ogni sera, il fastoso melodramma del consumo gratificante e delle voglie represse.
“Perché proprio a me?” pensò di nuovo, sconsolata. “Come faccio? Ora sono sola più che mai, con questo problema più grande di me, senza qualcuno con cui condividerlo. Credevo di essermi conquistata una vita quasi normale e invece… non è cambiato nulla!” Le si accese improvvisa nel buio della mente la diapositiva sovraesposta e sfocata di una strada di periferia, caldo e polvere tra un caotico ammasso di baracche di latta, capanne di fango, cubi bianchi di cemento, tutti uguali e soffocanti. Il suo cuore saltò un battito. Nascere all’inferno e riuscire ad andarsene aveva richiesto una quantità enorme di coraggio, di sofferenza, le aveva sottratto l’allegria dell’adolescenza dandole in cambio tante piccole dosi notturne di incubo, l’aveva insidiata ogni giorno con il pericolo di scivolare nella disperazione. Ora ricominciava tutto da capo.
Si sedette sul bordo di una fontana ai margini del parco: improvvisamente l’idea di rimettere piede nella sua modesta stanza in affitto le diede un senso di oppressione. Ascoltò con piacere il gorgoglio amichevole dell’acqua che scorreva sulle vecchie pietre chiazzate di verde e nero e quel semplice suono naturale la isolò per un attimo dai rumori del traffico. Il suo corpo, indolenzito da una lunga giornata di lavori frustranti e di emozioni, riuscì finalmente a richiamare l’attenzione su di sé: Ahmira si guardò vivere con sguardo nuovo e distaccato ed ebbe la lucida, dolente percezione di quello che stava accadendo nel proprio organismo.
Non era credente. Era sempre stata scettica sia di fronte all’animismo e alle pratiche divinatorie dei suoi antenati, sia di fronte ai nuovi culti e ai nuovi feticci che di volta in volta qualcuno voleva imporle. Si sentiva anche, senza vergognarsene, molto ignorante. Non aveva perciò sentimenti o cognizioni o convinzioni religiose che le consentissero di collocare in qualche modo nella sua esistenza l’evento di cui aveva appena avuto conferma. C’era solo un grumo di cellule che viveva e cresceva dentro di lei, che l’avrebbe accompagnata per mesi succhiandole parte di ciò che mangiava, parte della sua forza. E un giorno lei si sarebbe sdoppiata, dando origine a un nuovo individuo. Il dottore l’aveva consigliata vivamente di sbarazzarsi di quella cosa, intuendo la sua precaria condizione, aveva detto che era molto semplice e, dandole il suo numero di telefono, l’aveva raccomandata di richiamarlo. Tutto a posto dunque, non c’era da disperarsi tanto. Però…
Si alzò lentamente e si avviò verso casa, anche perché la gente cominciava a guardarla con sospetto e l’aria si stava facendo veramente fredda.
Però… Quel grumo di cellule era suo, era lei stessa… Come poteva liberarsi tanto disinvoltamente di una parte di sé? Non una parte insignificante, una parte in più, ma un pezzo di vita, un pezzo della sua vita che si sdoppiava, la vita per cui lei si era sempre battuta, la vita che aveva difeso e che si era conquistata poco a poco col tormento dei sacrifici e delle umiliazioni. Doveva tenersi quello che la vita le mandava. Nella sua razionalità confusa, nella sua mancanza di religiosità, un valore si faceva comunque strada, forse il valore del possesso, forse la meraviglia del corpo, forse il rispetto per il mistero che circolava nel suo sangue.
Affrettò il passo, stringendo forte i pugni e i denti, come faceva da bambina. La lotta non era finita. Bisognava, ancora una volta, tirarsi su dalla polvere.

 

“Alex, ho bisogno di un grosso favore da te!”
Aveva aspettato il momento opportuno per parlare con il vicedirettore, poi si era fatta coraggio. In fondo Alex non era cattivo, strillava un po’, soprattutto con il personale extracomunitario, ma poi cercava di accontentare tutti.
“Ti pareva! Voi negre non fate altro che chiedere!”
“Voi negre, voi negre… E dai, tanto lo so che non sei razzista!”
Alex si rimangiò a stento quello che stava per dire: sapeva bene cosa avrebbe fatto a quella bella ragazzona. Cosa gliene fregava del colore! Doveva avere un culo e due tette fenomenali! Come si faceva a essere razzisti di fronte a tutto quel ben di dio. Ma sul lavoro era molto serio e faceva di tutto per mantenere il dovuto ascendente sul personale.
“Allora cosa c’è? Cosa mi devi chiedere?” disse schiarendosi la voce, tirandosi i baffetti brizzolati e distogliendo a fatica lo sguardo dalla scollatura della ragazza.
“Ho bisogno di sapere chi era il cliente di una certa stanza in un certo giorno…”
“Cosa? Sei impazzita? Non se ne parla nemmeno! E’ una questione di discrezione professionale. A te poi cosa te ne frega?”
“Beh… mi aveva parlato nel corridoio…” mentì Amhira, alla disperata ricerca di una scusa plausibile. “Aveva detto che per questo lavoro ero sprecata, che mi poteva aiutare…”
“Ah! Hai capito il marpione! E tu ci sei cascata? Povera fessacchiotta, quello cercava di agganciarti, non ci arrivi da sola?”
“Macché agganciarmi, mi credi stupida? Anch’io l’ho guardato con aria scettica e stavo per liberarmi di lui con cortesia, ma mi ha prevenuto. Mi ha detto di non equivocare, mi ha mostrato il dépliant di un’agenzia di modelle di cui è il titolare e mi ha detto che mi avrebbe procurato un appuntamento con la sua direttrice. Solo che io… Lì per lì non ho dato importanza alla cosa… e ho buttato il dépliant!” Assunse un’aria tra il comico e il disperato, poi si avvicinò ad Alex fino a toccarlo e a premere delicatamente con il morbido rigonfiamento del seno sul suo braccio. Abbassò la voce e lo guardò dritto negli occhi: “Su Alex, fa’ il bravo, perché vuoi togliermi questa possibilità, vuoi che faccia la sguattera per tutta la vita?”
“Ma che rottura!” Il vicedirettore cercò di nascondere l’imbarazzo sotto un’impazienza e un fastidio che in realtà non provava. Si allontanò di colpo da Amhira e si diresse verso il piccolo ambiente adibito ad ufficio che stava dietro la reception. “Dài , vieni, guardo nel computer. Basta che stai attenta a non farti fregare però!” Armeggiò un attimo con la tastiera e il mouse finché sullo schermo azzurrino non comparve una lista di nomi e di dati. “Ecco qua, qual è il giorno che ti interessa?”
Amhira gli mostrò un fogliettino piegato in quattro che estrasse dalla tasca del grembiule e sul quale aveva annotato un numero di stanza e una data: erano impressi nella sua mente come un’incisione su una pietra e nulla avrebbe mai potuto cancellarli, ma non voleva certo dare questa impressione.
“Ecco qua” disse finalmente Alex, dopo aver digitato veloce e sicuro i dati sulla tastiera del computer. “Francesco Shengen… Dev’essere di origine straniera. Ti faccio una stampata: ci sono anche l’indirizzo e il numero di telefono.”
Amhira seguì quasi ipnotizzata il carrello della stampante che andava ronzando da una parte all’altra del foglio. Prese quest’ultimo cercando di nascondere il tremito involontario della mano e fissò per alcuni istanti il nome e l’indirizzo: forse quella era la sua assicurazione sull’avvenire. Lanciò un rapido sguardo al vicedirettore e se ne andò senza dire una parola.
“Non si dice neanche grazie , eh?” le gridò dietro lui. “Tutti uguali voi negri!”

Il bambino cominciò a strillare senza preavviso, agitando mani e piedi e scotendo la carrozzina.
“Buono, buono!” disse Amhira con dolcezza. “Lo so che hai fame, ma adesso andiamo a casa e ci mangiamo una bella pappa!”
Il bambino sembrò calmarsi sentendo il suono familiare della voce materna, o forse rassicurato dal fatto che la carrozzina accelerava. Spalancò gli occhi e fissò le chiome degli alberi che sfilavano lungo il cielo sopra di lui. La pelle, di un caldo e pastoso color marrone, risaltava sul corredino da neonato. Con un disordinato movimento delle manine grassocce prese a scompigliarsi i folti ricci neri, atteggiando il viso a una buffa smorfia che fece sorridere la madre.
Amhira era quasi felice. Non le pareva ancora vero di essere una mamma che spingeva la sua carrozzina. Certo non era facile pagare l’affitto, pagare una baby sitter che le permettesse di andare a lavorare, sgobbare tutto il santo giorno, ma ce la poteva fare. E poi finora era andato tutto per il verso giusto. Era stata una soddisfazione constatare che il suo lavoro, l’avvilente fatica di tutti i giorni, le avevano dato dei diritti, le avevano permesso di portare a termine la gravidanza e assistere il bambino nei primi mesi. E, al ritorno, le avevano ridato il suo posto.
“E’ bello far parte di un mondo civile!” disse ad alta voce, ridendo lei per prima della propria semplicità.
Il bambino intanto aveva ripreso a piangere. Amhira fu riportata alla realtà del momento e ai lati ancora irrisolti della propria vicenda. Nell’ambiente di lavoro, nei negozi vicini a casa, era riuscita a far accettare il suo diritto ad avere un bambino senza padre, rifiutandosi di mentire, rispondendo con sicurezza e con orgoglio alle occhiate, alle malignità che le venivano riferite, ai giudizi inespressi, ma che lei poteva ben immaginare. Eppure in varie occasioni della giornata, soprattutto quando rincasava, quando restava sola nel letto con gli occhi spalancati, si chiedeva anche lei: ma chi è il padre di questo bambino? Lo dovrei cercare? Forse è una persona importante. Forse mi può aiutare a uscire da questa vita squallida, assicurare a suo figlio una vita migliore di quella che io gli potrò mai dare… Suo figlio! E come si fa a convincerlo! Chi crederebbe mai a una storia come la mia…
Quella sera il pensiero era particolarmente insistente. Cambiò il bambino in modo automatico, gli diede da mangiare svogliatamente e lo mise subito a letto. Si scaldò un piatto di pasta che assaggiò appena e rimase a lungo così, con la forchetta in mano, un gomito appoggiato al bordo del tavolo a reggere la testa pesante e lo sguardo perso nel vuoto.

 

Francesco Shengen si alzò, rivolse uno sguardo alla platea in attesa, diede alcuni colpetti al microfono col polpastrello dell’indice, per accertarsi che fosse in funzione, e ne ricavò alcuni battiti forti e cupi che ebbero il potere di zittire la discreta folla che era andata a sentirlo. Come leader di un movimento politico costituiva sempre un buon richiamo, ma erano soprattutto le sue intemperanze dialettiche a fare il tutto esaurito nelle sale in cui si presentava, il modo aggressivo e colorito di sostenere le proprie idee, l’innegabile profondità di pensiero con cui esponeva gli argomenti. Era anche un bell’uomo, e questo non guastava. Soprattutto quando si trattava di accaparrarsi i voti di un certo elettorato femminile, sul quale esercitava un indubbio fascino. Anche se poi, sul suo conto, non circolavano né indiscrezioni né storie di donne. Anzi tutta la sua vita privata era protetta da un invalicabile riserbo che spesso la stampa e gli avversari politici tentavano di penetrare, ma sempre senza successo.
“Come molti di voi già sanno,” esordì con una voce forte e sicura, cui una leggera sfumatura ironica conferiva un tocco di gradevolezza, “sono qui per parlarvi male di extracomunitari, immigrati, mgrebini, negri e altre sciagure della società civile. Per cui, se ci sono tra di voi deboli di cuore, umanitari ipocriti, dame di San Vincenzo, sono pregati di abbandonare la sala.”
“Sono qui per dimostrarvi,” disse in tono più alto per dominare il brusio divertito degli ascoltatori, “non con banali espressioni di odio razzista, non con lacrimevoli racconti di vecchiette scippate o di bambine picchiate e sbattute sulla strada a prostituirsi, sono qui per dimostrarvi con serie argomentazioni storiche, sociali, antropologiche, che l’ingresso lento ma inesorabile, forzato, violento, di individui provenienti da realtà arretrate, primitive, all’interno della nostra civiltà, non può che generare danni, ferite profonde, squilibri, alterare un tessuto che pazientemente i nostri padri hanno costruito per noi con il lavoro e il sacrificio, superando tremende avversità, come ad esempio l’incubo della guerra.”
Succedeva quasi sempre, a questo punto, che Shengen continuava a parlare, ma la sua mente vagava altrove. In fondo le parole, le battute più o meno spiritose, i ragionamenti, anche i più complessi, erano sempre gli stessi e l’oratore, come un cocchiere che si affidi serenamente all’esperienza di un vecchio cavallo, lasciava vagare la propria voce e il proprio pensiero in massima libertà per l’aria fumosa della sala, mentre la parte più in ombra del suo spirito emergeva e gli creava un’indefinita sensazione di malessere e di noia che lo infastidiva come un sottofondo stonato.
Era proprio in queste occasioni, quando al contrario avrebbe dovuto essere più presente e determinato, che Shengen veniva inopportunamente visitato da dubbi e ricordi.. Un evento, sopra tutti, emergeva in maniera subdola: mandava in avanscoperta indistinte sensazioni di incertezza, ricordi innocui di fatti e persone che si aggiravano silenziosi per la mente senza troppo disturbarla, poi all’improvviso, come inevitabile conclusione di un concatenamento di pensieri, sferrava il suo colpo più doloroso, un colpo particolarmente destabilizzante, poiché spiegava l’origine del suo odio per la gente di colore, non in base a complessi ragionamenti, ma nel modo più banale possibile. Si era sforzato per mesi di razionalizzare quell’odio, mascherandolo con strati e strati di argomenti, citazioni, deduzioni, ma quel semplice avvenimento, limpido e drammatico come tutte le spiegazioni essenziali, era sempre lì, ottuso e inamovibile, a ricordargli che il caso, con una sola mossa, con mano pesante e impietosa, determina a volte la vita intera e il pensiero di un individuo.
Era in questi momenti che rivedeva la macchina, la sua macchina rossa e scintillante, che percorreva a buona andatura la bella strada di collina: il sole sfolgorava e ritagliava contro il cielo il verde intenso degli alberi. L’autoradio, fissa su raitre, riempiva l’abitacolo con le possenti note finali di una rapsodia ungherese di Listz, percotendo il torace del guidatore più del vento fresco che entrava dal finestrino. Un rettilineo lo invitò a correre. Si sentiva pieno di energie: i primi successi professionali, nel campo del marketing internazionale, cominciavano a costruirgli una solida posizione e un cospicuo conto in banca. L’amicizia e l’appoggio di alcuni personaggi politici emergenti, suoi vecchi compagni di studi che già ai tempi dell’università davano la scalata agli apparati di partito, lo facevano sentire potente e intoccabile.
Si rese improvvisamente conto, grazie ad una sferzata di adrenalina che gli fece tendere di colpo i muscoli, dilatare gli occhi e formicolare le dita, che la macchina che stava per incrociare sbandava vistosamente contromano. Neanche il tempo di chiedersi come evitarla ed era già lì, una macchia scura, indistinta, che occupava tutta la visuale. In una inesistente frazione di tempo, il bianco esagerato di due occhi che guardavano i suoi, l’espressione di sorpresa e di orrore su un viso scuro dai lineamenti negroidi, poi la violenza di un colpo al di fuori della normale capacità di tolleranza e il buio pietoso dello svenimento che metteva immediatamente fine allo sgomento della vista e alla sofferenza del corpo.
Quanto tempo era trascorso? Riemerse lentamente da una notte densa e pesante e vide per prima cosa il viso cordiale di un’infermiera. Spostò con circospezione lo sguardo e seguì per qualche secondo lo stillicidio silenzioso di due grosse bocce per fleboclisi, una piena di un liquido trasparente e l’altra di un liquido color Magenta. Il viso di un giovane medico dall’aria severa apparve nel suo campo visivo: capì subito dalla sua espressione che le notizie non erano buone, ma dovette pazientare diversi giorni prima che lo stesso giovane medico, il giorno delle dimissioni dall’ospedale, lo convocasse nel suo studio per una definitiva sentenza di condanna, che venne pronunciata in tono comprensivo, ma freddo e impersonale. Aveva subìto, oltre numerose lacerazioni e fratture ormai in via di soddisfacente guarigione, una lesione al midollo che aveva provocato una forma permanente e irreversibile di impotenza.
“Naturalmente oggi la scienza ci viene in aiuto” aveva detto il medico con un tono che voleva comunicare ottimismo. “Possiamo affidarla al nostro reparto di urologia per la scelta di una …metodologia sostitutiva…”
“No guardi, per favore, lasci perdere! Non mi interessa proprio!” era stata l’immediata reazione, piuttosto stizzita.
Nei giorni successivi, con l’aiuto dei familiari e degli amici, aveva tentato faticosamente di rimettere insieme un’accettabile approssimazione di esistenza. Era stato proprio in quei giorni che la sua inutile rabbia aveva trovato un bersaglio comodo: l’imbecille che aveva causato l’incidente e che, oltretutto, se l’era cavata con qualche graffio. Era un giovane originario del Nordafrica, senza permesso di soggiorno, che viveva di espedienti e aveva rubato una macchina, pensando bene di ubriacarsi prima di fare un giro col suo nuovo acquisto.
Il suo odio per i negri crebbe a dismisura, calpestando tutto quello che lui possedeva naturalmente: carattere quieto e tollerante, intelligenza aperta, razionalità difficilmente influenzabile da sentimenti o pregiudizi. Tutto fu spazzato via per lasciare il posto a un comportamento rissoso, polemico, insofferente di pareri opposti, a un pregiudizio maniacale che lui nutriva e difendeva con i brillanti mezzi che la notevole capacità dialettica gli metteva a disposizione.  Di pari passo era aumentata l’angoscia per la sua menomazione fisica e l’odio era alimentato proprio dalla lucida constatazione che la sua vita finiva con lui, niente procreazione, niente famiglia, niente amore, nessun corpo di donna da accarezzare… Eppure bastava essere più adattabili, c’era l’inseminazione artificiale, c’erano le protesi… no! Nemmeno parlarne! Il solo pensiero gli procurava un intollerabile senso di fastidio.
Un lungo applauso accolse le sue ultime parole. Ringraziò automaticamente, strinse alcune mani sconosciute che si allungavano verso di lui, sorrise in modo stereotipato ad alcuni visi che lo guardavano con insistita ammirazione. Raccolse lentamente le sue carte, continuando a rispondere distrattamente alle manifestazioni di simpatia, alle frasi banali che aveva sentito ormai troppe volte, poi si avviò verso l’uscita, seguito dalla piccola corte degli organizzatori della conferenza, soddisfatti e ossequienti.
Lei era là, nel corridoio, seduta sul bordo di una poltroncina, col bambino sulle ginocchia.
Shengen restò indeciso un attimo a guardarla, troppo sorpreso per pensare o dire qualcosa: l’immagine era proprio fuori posto, una giovane negra! Sentì salire dentro di sé un’ondata di collera e si diresse rapidamente verso la donna con l’intenzione di compiere qualche gesto plateale, che sarebbe certamente finito l’indomani su tutti i giornali. Fissò duramente la ragazza, ma lei lo guardava a sua volta con una inspiegabile espressione di stupore e di affetto e lui si perse per un attimo in quello sguardo. Sentì che dentro qualcosa gli si frantumava: in quegli occhi intensi, nerissimi, lucidi, in cui le luci circostanti si fondevano in un lontano punto luminoso e ipnotico come una fiammella nella notte, egli vide qualcosa che gli mancava da tempo. Si sentì vacillare e spostò la sua attenzione sul bambino, che sorrideva e addirittura protendeva una manina scura verso di lui.
“Io e lei dobbiamo parlare, signor Shengen,” disse la ragazza con una bella voce melodiosa, colorita da qualche traccia di esotismo. “Ho una storia incredibile da raccontarle…” E accese, come per magia, la luce bianca di un sorriso. 

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