Virus

Il virus stava rinchiuso da anni tra le pagine del raro manoscritto quattrocentesco. Un angolo in basso, umido e scuro, in corrispondenza del quale due pagine si erano incollate tra loro, a causa di un’antica popolazione di funghi microscopici e verdastri, ormai estinti da secoli. In questa nicchia protetta ed accogliente, complice anche l’atmosfera quieta e raccolta della modesta biblioteca di provincia, il virus aveva conservato per un tempo interminabile un metabolismo ridotto al minimo, quel tanto che bastava a mantenere in vita e tramandare a un futuro imprecisato la mutazione che lo rendeva orgogliosamente diverso da tutti gli altri: la straordinaria peculiarità della sua membrana di sintetizzare e secernere un acido che deprimeva la mobilità e l’aggressività dei linfociti killer, i globuli bianchi specializzati e programmati per moltiplicarsi in presenza di cellule invase da virus, attaccarsi ad esse e liberare sostanze che contribuivano a distruggere le cellule anomale. Che misere difese! Che essere presuntuoso e fatuo l’uomo! Lui, grande predatore e conquistatore, poteva cancellarlo in poco tempo dalla faccia della Terra!
Fremeva, eccitato e bramoso, al pensiero di poter penetrare, prima o poi, in un organismo ospite e dare così inizio alla generazione di una rigogliosa discendenza.

 

“Sì? Pronto?”
“Stefano, ti vuole il Presidente, puoi salire un attimo per favore?”
“Ah! Va bene, vengo subito.”
Abbandonò a malincuore il mouse sul tappetino rosso e spinse lentamente indietro la poltroncina girevole. “Che cazzo vuole quello adesso!” disse ad alta voce con malumore. Tolse dall’attaccapanni dietro la porta la giacca blu sgualcita e dall’aria leggermente polverosa e se la infilò, avviandosi per il corridoio. “Se pensa che i testi della campagna siano già a punto, sta fresco! Lo slogan poi… figurati, non mi viene un’idea decente!” rimuginava mentre un’espressione contratta gli modellava il viso come una digestione difficoltosa o un pensiero importuno.
Camminando lentamente seguì con lo sguardo la trama della spessa moquette verde bottiglia fino all’ascensore. Un inconfondibile senso di frustrazione si stava impadronendo di lui, come in ogni occasione in cui il lavoro si faceva assillante.
Terzo piano. Incontrò casualmente i suoi occhi in uno specchio e si fece un sorriso che assomigliava di più ad una smorfia, un po’ per sdrammatizzare, un po’ per commiserarsi. Era stato un brillante copywriter, Stefano Perrotti. Fino a qualche anno prima. La padronanza impeccabile e fantasiosa della lingua, la naturale sintonia col variegato mondo della pubblicità, l’avevano condotto a trovare, sotto le potenti ali della Advertising Italia, la soluzione del pane quotidiano. E anche qualcosa di più, qualche bella soddisfazione dovuta in special modo ai suoi slogan brucianti e orecchiabili che entravano spesso a far parte del linguaggio comune.
Ora si trascinava, rimasticando e riciclando vecchie immagini ed espressioni partorite in tempi migliori, sentendosi sempre più fuori luogo, salutando distrattamente i compagni di lavoro, lavorando con astio e aspettando solo, come un artigiano spremuto da giorni e giorni di gesti ripetitivi, l’orario di chiusura della bottega.
Solo allora ritrovava il gusto della vita, tra le braccia del suo grande amore riservato e personale: una grande passione, la ricerca storica. Come un ottuso ranocchio trasformato in principe, rinasceva nel Quattrocento, lo sguardo brillante di ansia, le mani trepidanti nell’attesa di toccare uno dei suoi amati codici manoscritti, viatico odoroso di umida polvere per trapassare in un’altra epoca. La vita e gli spettacoli delle corti, le dame raffinate e bellissime, i principi guerrieri che, tolta l’armatura lorda di polvere e sangue, sapevano inebriarsi di musica, arte, filosofia: tutto questo era ormai divenuto la sua unica ragione di vita.

 

“Perrotti, allora? Tutti mi dicono che sono pronti e che manchi solo tu, che cavolo combini?
“Mhhh… niente, non mi viene niente di buono. Materiale ne ho tanto, ho riempito un mucchio di cartacce, ma non c’è niente che mi convinca davvero.”
“Ma come? Anche stamattina la dottoressa Berardi mi telefona per sollecitare un incontro e tu mi vieni a dire, candido candido, che sei ancora in alto mare! Siamo in un bel casino!”
“Beh, lei lo sa meglio di me, le grandi idee vengono fuori quando uno meno se l’aspetta…”
“Dai Perrotti, non farmi incazzare! Lo so che se ti ci metti puoi tirar fuori qualcosa di valido, di molto valido. Su fa’ il bravo, scuotiti. Ultimamente ti vedo così depresso, sempre rinchiuso in biblioteca con i tuoi manoscritti: lo credo che non ti vengono più le idee! Te lo ricordi lo slogan del tonno? Eri diventato un dio…”
“Beh, un dio, non esageriamo…”
“E invece sì, esageriamo. Lunedì torni a trovarmi e mi porti non un’idea ma una strafiga di idea. Devi sforzarti di tirar fuori un po’ di grinta, come ai bei tempi. Poi ti prendi un periodo di riposo, va bene così?”
“Va bene… in teoria. Speriamo anche in pratica.”
“Ma certo! Io sono fiducioso. Ti aspetto lunedì.  Ah, scusa, intanto che vai giù passa dalla Vezzini e fatti dare lo storyboard della Ackerman, dovrebbe essere pronto.”

 

Nadia! Il solo suono del nome gli faceva accelerare il respiro. E immediatamente, sfolgorante diapositiva nel buio, si accendeva nella sua mente il bagliore di quegli occhi dorati, l’ondeggiare dei capelli biondi, corti e ribelli, il sorriso da strega buona, capace solo di sortilegi che rendevano felici. Al resto preferiva non pensare: la generosa curva del seno, il lampo candido di una soffice coscia che si scopriva per un attimo, erano emozioni troppo dolorose. No, niente donne! Ogni volta che era andato in cerca di un amore o semplicemente di una compagna, come tutti, aveva rimediato solo insuccessi e profondi sensi di frustrazione. No, niente donne! E tanto meno la Nadia! Era stata con tutti tranne che con lui, quella puttana! Eppure tante mattine trovava la forza di andare in agenzia solo per lei. Almeno la vedrò, pensava. Vedrò muoversi quelle forme incantatrici sotto le stoffe leggere e mi verrà un nodo alla gola. Elemosinerò il suo sorriso con qualche vecchia battuta e sentirò forza e calore inondarmi per un attimo.
Poi, alla sera, le sue donne più vere, che non tradivano mai, disponibili, serene, amorose: Isabella d’Este, Elisabetta di Montefeltro… ancora una volta la fuga nel passato a trarlo in salvo da un presente nemico e tedioso.

“Ciao, Nadia, hai qualcosa di pronto per me?”
“Ah, Stefano, sì, tieni, ” disse distrattamente allungandogli una cartellina di colore azzurro, “qui c’è tutto quello che ti serve per la campagna della Ackerman.”
“Oh no, ma che risposta deprimente!” scherzò lui con espressione tragicomica. “Potevi dire: sì, ci sono io pronta per te!”
“Che scemo!”

 

Sì, scemo. Veramente scemo a pensare sempre a lei.
Ma anche stasera, finalmente, l’appuntamento con l’amante che non giocava con crudeltà, che l’accoglieva sempre seducente come una cortigiana esperta di ogni arte amatoria, arrendevole come una donna totalmente sedotta: il prezioso codice quattrocentesco con la sua elegante scrittura corsiva calligrafata, il suo odore di muffa e di tempi lontani, le minuziose notizie sulla vita e gli spettacoli di corte puntigliosamente registrate da un anonimo cronista. E l’atmosfera fresca e silenziosa della piccola biblioteca era l’alcova ideale per questo cerebrale amplesso, un accoppiamento virtuale così atteso e struggente che talvolta provocava in Stefano un incredibile, ridicolo inizio di erezione.
Erano ormai diversi mesi che studiava e trascriveva pazientemente e meticolosamente quella cronaca di corte così sorprendentemente viva ed attuale. Era arrivato ad un punto in cui due pagine, per l’umidità o chissà che altro, si erano incollate tra di loro nell’angolo inferiore. Stefano si inumidì accuratamente la punta dell’indice e con estrema delicatezza la insinuò tra le carte aderenti. Sentì che cedevano, si fece coraggio e dopo aver bagnato ancora il dito spinse con maggior risolutezza. Ripeté varie volte l’operazione e finalmente poté girare un’altra pagina da decifrare.

 

Il virus avvertiva il vago malessere di una fine imminente. Le sue funzioni vitali si stavano affievolendo inesorabilmente lasciando spazio solo ad una crescente ed impotente collera, la consapevolezza di non poter esprimere e tramandare la sua grande potenza biologica.
Ed ecco, d’un tratto, qualcosa stava accadendo, un immane cataclisma sconvolgeva il suo secolare ambiente. Sentì con terrore avvicinarsi alcune molecole di ossigeno e cominciò subito ad avvertire un insopportabile senso di soffocamento. Poi, inattesa, la salvezza: un velo di prezioso liquido organico, sconosciuto ma tiepido e accogliente. Si lasciò trascinare, sentendosi rinascere, e immediatamente, attraverso una minuscola fessura, l’incredibile, abbacinante fulgore della terra promessa: la corrente sanguigna di un organismo ospite! Una enorme sensazione di forza esplose nel suo nucleo col fascino primitivo di un sovvertimento stellare, sentì che cominciava a sdoppiarsi, e poi ancora, e ancora, irresistibilmente, senza tregua, frantumandosi in milioni di individui, pur conservando stranamente una sorta di identità, di coscienza della propria forza. E si lasciava trascinare intanto dal veloce, pulsante flusso delle arterie, esplorando ogni più nascosto capillare di quel corpo ignaro. Si aspettava ovviamente, da un momento all’altro, l’attacco dei linfociti, ma era anche consapevole dell’imprevedibile arma segreta in suo possesso: le difese che gli organismi avevano elaborato in millenni di selezione naturale erano sicuramente impreparate alla sua sconosciuta mutazione.

 

“Dottoressa Bardini, hanno mandato dal laboratorio i risultati delle ultime analisi?”
“Sì, professore, ma non c’è niente di nuovo. Anzi, ci confermano il ceppo sconosciuto, anche se per alcuni aspetti si potrebbe pensare a una mutazione dell’HSV2.”
“E la terapia?”
“Ma! Mi sembra di non vedere ancora risultati apprezzabili. Agli immunostimolanti non reagisce. Non succede niente neanche con l’aciclovir: e sì che gliel’ho somministrato in dosi massicce.”
“Accidenti, ma che cavolo si è preso questo! E la temperatura? La pressione?”
“Tutto nei limiti. Solo la bilirubina mi dà da pensare: è sempre più alta ad ogni controllo.”
“Beh, non c’è da meravigliarsi. Mi raccomando, lo segua da vicino e mi tenga informato costantemente. Io vado a vedere a che punto è questo autovaccino… ma ci spero poco.
Ah, senta, credo sia opportuno aggiungere il cortisone. E’ rischioso, se si tratta di herpes, ma… a questo punto…”

 

Stefano si sentiva profondamente abbattuto. Aveva il fisico prostrato, la testa bollente, un fastidioso sibilo alle orecchie e soprattutto quelle schifose pustole biancastre ai bordi della lingua, che gli impedivano di bere e mangiare se non a costo di atroci dolori. Mosse le labbra per imprecare fra sé e sé ma anche questo gli procurò una fitta bruciante: doveva esserci una di quelle maledette pustole anche sotto la lingua.
Era stato male altre volte, come tutti, ma ora era diverso: non sapeva da cosa nascesse la sensazione, forse dal sorriso falso delle infermiere e dei medici, dalle continue e frenetiche analisi cui lo sottoponevano, dalle risposte imbarazzate e incongruenti che ricevevano le sue richieste di chiarimenti. E poi c’era la notte, la difficoltà a prendere sonno, l’impressione agghiacciante di sentirsi scivolare nel vuoto e, peggio di ogni altra cosa, lo sdoppiamento: si vedeva da fuori, provava un’angosciosa pietà per il suo corpo avvilito e martoriato, galleggiava sopra se stesso come uno spirito in pena. Non è che quella era… per caso… la fine? Se ne rese conto in un momento di lucidità. Ma sì, come aveva fatto a non capirlo? Un’abbagliante certezza si impadronì di lui e sentì un primordiale terrore serpeggiargli sotto la pelle per tutto il corpo.
Solo allora avvertì lo sgradevole contatto del cuscino bagnato contro la guancia e si rese conto che, suo malgrado, copiose lacrime gli scendevano lungo il viso.

 

La soddisfazione del virus cominciava a incrinarsi: d’accordo, aveva vinto su tutti i fronti, come previsto d’altra parte. Le funzioni vitali dell’organismo ospite si stavano affievolendo, sarebbe sicuramente morto, ma… maledizione! Anche lui sarebbe morto!  
Lo stretto isolamento in cui tenevano il malato, l’assoluta impossibilità di contatti, la specifica particolarità di non potersi trasmettere nell’aria, lo relegavano senza speranza in quel corpo ormai finito, da cui egli stesso aveva parassitariamente succhiato tutte le energie. Una vittoria amara, il rimpianto di essere stato ad un passo dal dare origine a un’imponente epidemia, che avrebbe segnato lo sterminio di una razza, evento raro ma ricorrente nella storia dell’universo, di cui egli stesso sarebbe stato il memorabile protagonista.
E se ne stava invece impotente, come un imperatore esiliato sulla spiaggia della sua isola, a inseguire all’orizzonte ricordi e improbabili speranze. Era stato infatti costretto a uscire all’esterno, dentro una lacrima che si era annidata in un angolo delle labbra della sua vittima.

Nadia si sentiva, per la prima volta in vita sua, veramente addolorata.
Sì, Perrotti le faceva un po’ di corte, come tutti, però era un ragazzo strano, a volte anche un po’ stupido a pensarci bene, ma forse le voleva bene davvero. Probabilmente era per questo che non se l’era mai voluto portare a letto, come tutti gli altri… Le tornavano in mente quelle lunghe occhiate che lui le lanciava, mettendoci dentro l’anima, l’imbarazzo che cercava di nascondere dietro un sorriso che voleva essere spavaldo, le fulminanti battute, quasi tutte a sfondo sessuale, che certamente sostituivano l’incapacità di un’aggressione diretta. Era quello l’amore? Le veniva il dubbio solo adesso, perché avevano detto che lui stava per morire. E non sapeva come fare per dargli qualcosa in cambio, qualcosa per sdebitarsi di quell’amore discreto e certamente tormentato.
Rallentò il passo e tornò indietro lungo il corridoio lucido e asettico dell’ospedale: le avevano detto che il paziente era in isolamento e non poteva ricevere visite, ma i ricordi che aveva trovato in profondità, dentro di sé, l’avevano indotta a non arrendersi tanto facilmente. Finse di interessarsi alle pubblicazioni appese in una bacheca, indugiò a lungo ad una finestra, poi, finalmente, vide l’infermiera uscire dalla guardiola e allontanarsi. Si diresse rapidamente alla porta che le avevano proibito di oltrepassare, si guardò rapidamente intorno ed entrò decisa.
Pirocchi era supino, immobile, quasi confuso con il bianco delle lenzuola, all’interno di una specie di grossa cabina di vetro. Nadia studiò un attimo l’ambiente, poi individuò un’apertura nella cabina e si avvicinò al letto. Il respiro dell’amico era quasi impercettibile, come l’ultimo battito d’ali di una farfalla. Vinse il lieve senso di ripugnanza che per un attimo l’aveva colta, si chinò su di lui e lo baciò sulla bocca, dapprima con delicata leggerezza, poi, cogliendo dietro il suo sguardo opaco un breve lampo di comprensione, con più passione, penetrandogli le labbra con la punta della lingua, mescolando i propri freschi e dolci umori con quelli amari di lui.
Uscì lentamente, girandosi a guardarlo un’ultima volta. Si sentiva stranamente felice, quasi esultante. Quel bacio le aveva procurato, nonostante tutto, una piacevole contrazione alla vagina: pensò ai mille baci che ancora la attendevano, a tutti gli uomini che, fuori, popolavano una sterminata riserva di caccia. Ma sì, la vita era bella e continuava.
Sorrise tra sé e si allontanò decisa, accentuando inconsciamente il movimento delle anche. Nei suoi occhi, più scintillanti del solito, il bagliore ipnotico di un subdolo strumento di morte.

Testo
 ESCAPE='HTML'