Sala parto

L’Essenza Cosmica accarezzò soddisfatta la lunga barba bianca, accompagnandone le volute con lenti movimenti delle dita interminabili, e si sedette sull’asteroide più comodo, tirando a sé, dallo spazio circostante, i grandi lembi svolazzanti della sua veste argentata. Gli immensi occhi grigi, tristi e meditativi, si socchiusero in un impercettibile sorriso, mentre l’ansia rosata dell’attesa sfumava d’insolito colore il pallido volto percorso da sottili vene azzurrine.

Era una debolezza da parte sua, ma tra poco la splendida coda della cometa Leuconoe avrebbe tracciato una pennellata di luce sul cielo vellutato dell’iperuniverso e non voleva assolutamente perdersi lo spettacolo. Leuconoe era la preferita tra le sue creature più antiche, la più vanitosa, con io rosso cerchio di idrogeno che le cingeva il capo superbo. L’Essenza Cosmica si lasciò sfuggire un sorriso più aperto, velato di nostalgia: com’era lontano il tempo, miliardi di anni luce?, in cui la sua fantasia bruciante di colori e di luci, avida di creazione,  scagliava negli universi, come staffilate di fuoco, le ardite code delle comete, spargeva a piene mani le galassie d’argento facendo fiorire le cupe atmosfere della notte, mentre le nebbie livide e invidiose fuggivano e andavano a morire lontano.

Poi, lentissimamente, tutto era cambiato: sintesi complesse, affinamenti esasperati, la materia le era sfuggita di mano. L’Essenza Cosmica, schiava della sua stessa ansia creativa, aveva chiesto a se stessa l’impossibile ed aveva fatto nascere, in uno sperduto pianeta di uno sperduto universo, l’ultimo sconvolgente fiore: la prima, approssimativa forma di vita, creazione audace che aveva scosso in un brivido di turbamento tutto ciò che esisteva fino a quel momento. Erano passati alcuni milioni di anni da quel momento, un battito di ciglia, e la vita, animata dalla stessa forza oscura e irresistibile che l’aveva prodotta, aveva generato l’estremo portento: l’uomo.

L’Essenza Cosmica strinse i pugni con disappunto e imprecò contro se stessa: l’uomo era la sua dannazione, aveva carpito i suoi segreti, aveva preso coscienza di sé, aveva esaminato tutto e tutto posto in dubbio, turbando un equilibrio fino ad allora perfetto.

Lontano, vincendo lo splendore delle stelle più giovani, una luce sanguigna scivolava nello spazio color ebano, avvicinandosi con rapidità.

«Eccola finalmente!» esclamò l’Essenza, dimenticando tutti i suoi crucci.

Improvvisamente vide sfarfallare accanto a sé il lungo mantello violaceo del Segretario Spaziale.

«Cosa vuoi? Avevo detto che non volevo essere disturbata!»

«Domando perdono…» disse sottovoce, col suo tipico, odioso suono metallico, «ma accade una cosa gravissima nell’ultimo universo…» Parlava tenendosi a distanza, col capo infossato nelle strette spalle e senza il coraggio di alzare i piccoli, sfuggenti occhi vitrei. L’Essenza lo guardò un attimo, allarmata e infastidita.

«Cosa c’è questa volta?», chiese cercando di non far trapelare la sua esasperazione .

«Ecco… non è facile a dirsi, ma… l’Essere Possibile n. 1039475/198651/093481 (generazione Y) si rifiuta di esistere…»

«Come? Si rifiuta di… ma non può essere vero! E’ assurdo!»

Si strinse tra le dita affusolate le grandi tempie: lo sapeva che sarebbe finita così, lo sapeva fin dall’inizio, quando si era lasciata affascinare dallo stupido orgoglio di dare al cosmo l’essere a sua immagine e somiglianza. Che scocca vanità! Ora quello stupido essere poneva in crisi tutto il sistema: evidentemente si giudicava inutile e  poneva le basi per l’autodistruzione, chiudendo inevitabilmente un ciclo, oltre il quale l’eternità aveva il freddo fuggente di uno sconosciuto, immenso fantasma.

«E… non ha detto perché?», chiese a bassa voce l’Essenza.

«Non una parola. Continua a tacere. E a sorridere in modo misterioso.»

L’Essenza Cosmica pensava in silenzio, fissando lo sguardo malinconico in un punto lontano nello spazio dove scompariva guizzando la coda lucente di Leuconoe.

 

 

 

Quel giorno la sala parto era più soffocante del solito. Il professor Pagani chiuse un attimo gli occhi e respirò a fondo: ultimamente sentiva su di sé tutto il peso degli anni e di quel lavoro ripetitivo ed estenuante, che gli sembrava sempre più assurdo. Vedeva il neonatologo, l’anestesista, l’ostetrica, l’infermiera, fluttuare con i loro camici bianchi  in un mondo silenzioso, privo di dimensioni, come dietro il vetro spesso di un grande acquario. Anche le cose sembravano partecipare di questa atmosfera rarefatta, liberando il loro valore esistenziale dai ceppi di un’antica condanna a morte: il monitor elettronico per il controllo del feto, il lettino da parto, gli sterilizzatori, i ferri chirurgici, le ampolle colorate, avevano un’espressione assorta, come se seguissero con attenzione il ritmo faticoso del respiro della partoriente. Una luminosità gelida pioveva dal grande occhio inespressivo al centro del soffitto.

Pagani si riscosse e si concentrò sulla ragazza: ma perché cominciavano così presto a fare all’amore? Ricordò l’espressione dolce della ragazza il giorno in cui era stata ricoverata, il cespuglio informe di lunghi riccioli rossi, gli stupefacenti occhi azzurri. Ricordò lo sguardo impaurito e dilatato di poco prima, le piccole mani trasparenti, aggrappate con forza alla spalliera del letto, le contrazioni del periodo espulsivo che scuotevano il giovane corpo troppo esile.

Adesso non era che una delle tante, col disegno armonioso delle gambe adolescenti scomposto nella posizione ostetrica, con quella grottesca bocca messa a nudo dalla tricotomia, protesa verso di lui come una muta invocazione d’aiuto.

Il dottor Salviati, l’anestesista, gli rivolse un’occhiata pressante e interrogativa: già, bisognava far presto! Alla rottura dell’amnios il liquido era apparso tinto di meconio, segno inconfondibile della sofferenza fetale e il monitoraggio cardiotocografico, inoltre, non prometteva nulla di buono… E ora la presentazione podalica, il bambino doveva essersi girato all’ultimo momento… La madre nel frattempo aveva smesso di collaborare… bene, proprio oggi che si sentiva così stanco.

«Salviati, come va il cuore del bambino?»

«E’ scomparso il secondo tono. E l’intensità continua a diminuire… riesco appena a sentirlo.»

Non c’era un momento da perdere. Prese il panno tiepido che l’infermiera gli stava porgendo e cominciò a tirare il piede del feto in basso e all’indietro. L’estrazione era molto facile: sembrava che il bambino assecondasse passivamente ogni movimento, come se la cosa non lo riguardasse affatto. O come se avesse già rinunciato a sopravvivere.

Il professor Pagani afferrò con perizia la piccola gamba e tirò verso il basso, con un delicato movimento a pendolo, fino a che non apparve l’ombelico. Sentì Salviati che dava ordini all’infermiera:

«Signorina, prepari le pinze per forcipressura.»

Maledizione! Come faceva lui a essere così calmo! Il professore si fece forza e liberò successivamente le due spalle, ruotando con sicurezza il piccolo corpo. Adesso era il momento di disimpegnare la testa: insinuò indice e medio lungo la commessura vulvare posteriore e li introdusse per la punta nella bocca del feto. Tirando leggermente la mandibola per mantenere la testa flessa, afferrò con l’altra mano le spalle ed estrasse così il corpo del bambino fino all’occipite. Ne rovesciò poi delicatamente il dorso verso l’addome della madre, liberando così il mento, la faccia la fronte e, per ultima, la nuca.

Si sentiva sfinito. Fortunatamente Salviati aveva compreso la situazione e intervenne prontamente: recise il funicolo, liberò il retrobocca dalle mucosità e, senza perdere un attimo, affidò il bambino alle cure del dottor Nardini, il neonatologo, che iniziò immediatamente la ventilazione artificiale con ossigeno.

Il professor Pagani vedeva Nardini e l’ostetrica affaccendarsi intorno al bambino dietro un velo di nebbia rossastra e seguiva allucinato i loro movimenti  come se si trattasse di un rito magico. Doveva assolutamente riprendersi. Cercò di parlare in tono normale, per quanto gli era possibile.

«Come va Salviati?»

«Ancora niente, professore. La cute è livida e i muscoli sono rilasciati.»

«Facciamogli 6 millilitri di epinefrina per via endotracheale. E ripetiamola tra cinque minuti.»

«Il neonato non risponde alla ventilazione con maschera,» intervenne in tono allarmato il neonatologo, «la frequenza è ancora al di sotto degli 80 battiti. Bisogna procedere all’intubazione!»

«No, dottor Nardini, non perda tempo! Passi subito al massaggio cardiaco!»

Il professor Pagani sentì la propria voce troppo alta, il tono era quasi isterico. Tacque immediatamente e si guardò intorno. Si erano accorti del suo stato? Ma certo: l’infermiera evitava il suo sguardo e tutti senza dubbio stavano pensando una cosa sola. Era troppo vecchio per far nascere bambini. E di nuovo si affacciò alla sua mente il fastidioso pensiero che negli ultimi tempi lo perseguitava: era davvero così essenziale continuare a far nascere bambini?

 

 

 

La sede degli Esseri Possibili era un’immensa sfera diafana, diffusamente illuminata da un debole chiarore verde e screziata bagliori giallo-azzurri che scendevano da un polo all’altro, lentamente, come sbavature di luce. Al centro della sfera la luminosità diveniva talmente intensa da vincere ogni altro splendore del cosmo e da quel crogiolo incandescente, in cui sembrava rimescolarsi senza sosta una materia prodigiosa, scaturivano fiotti di punti luminosi che si irradiavano verso la superficie della sfera. A quel punto fuoriuscivano, si disperdevano nell’universo per andare a raggiungere la loro sede terrena e costituire l’essenza fisico-chimica di un vivente.

Un piccolo satellite, anch’esso verde ma di tonalità più intensa ed opaca, percorreva con moto uniforme un’orbita perfettamente circolare intorno alla grande sfera cristallina: era la sede della Sezione Generativa, regno incontrastato del Segretario Speciale.

 

 

 

«Non è colpa mia», disse leggermente adirato il Segretario Speciale con la sua voce melliflua. «Nella mia Sezione ogni cosa si è sempre svolta nel massimo ordine. Questo fatto nuovo ha certamente motivazioni complesse, profonde, che vanno cercate alla base stessa della creazione.»

Le concave spirali rosse dei suoi occhi vorticarono per un attimo poi si spensero.

L’Essenza Cosmica abbassò lo sguardo e tacque. Un tempo non avrebbe certo tollerato questo aperto atteggiamento di sfida e di critica al suo operato. Ma ora… ora cominciava lei stessa a dubitare della propria autorità. Stette alcuni attimi pensierosa, con lo sguardo perduto nel vuoto, poi disse lentamente:

«Voglio parlare direttamente con lui…»

Il Segretario Speciale restò un attimo interdetto, era una cosa inaudita…, poi chinò il capo piumato d’azzurro, spalancò le grandi ali e scomparve.

Pochi secondi dopo l’Essere Possibile era di fronte all’Essenza Cosmica, orgoglioso ma pallido e senza guizzi, la fiammella di una candela che sta per morire.

I loro occhi si guardarono fissamente. L’Essenza Cosmica aveva già deciso di non imporre la sua autorità, di non assumere atteggiamenti da maestà oltraggiata. Voleva solo capire. Diede al suo sguardo un’intensità dolorante e comprensiva e chiese semplicemente:

«Perché?»

L’Essere Possibile sorrise e scosse la testa lievemente:

«Non è facile rispondere… la vita è meravigliosa, è così facile prendere tutto ciò che essa può dare senza porsi tanti problemi. Ma essere un’infinitesima parte del tutto, scomparire senza lasciare traccia in un tempo e in uno spazio tanto dilatati da non poterli concepire, gioire sì, ma anche provare sofferenze, a volte atroci, o, quel che è peggio, amare le persone e vedere, impotenti, che sono loro a provare sofferenze strazianti… E quando ti chiedi perché, non trovi risposte. Qualcuno ha deciso per te.

No. Stavolta voglio essere io a decidere.»

L’Essenza Cosmica osservò con estrema pietà la sua creatura. Forse… aveva sbagliato qualcosa, aveva peccato di presunzione… Aveva imposto grandi ideali, valori assoluti, la fede, pensando che fossero riusciti a riempire l’enorme vuoto cosmico che si celava dietro la vita, barattandoli con altri grandi sentimenti, amore, felicità, l’orgoglio della specie… ora la nebbia si diradava, il gioco assurdo si scopriva, la patetica vernice sulla facciata cominciava  a sfaldarsi come il trucco di una vecchia prostituta al termine della notte.

L’Essenza Cosmica curvò il capo. Che cosa doveva rispondere, che cosa? Che anche lei era schiava di questa forza che la spingeva a creare? Che anche lei si era chiesta per miliardi di anni: a che scopo!? No. Non poteva arrendersi. Il gioco doveva continuare. Lanciò uno sguardo astuto all’Essere Possibile:

«Aspetta qui!» disse in tono autorevole. E volò via in un attimo, lasciando dietro di sé un fantastico gioco di scie luminose.

 

 

 

«E tu chi sei?» chiese stupito l’Essere Possibile.

Lei era comparsa all’improvviso, un pulviscolo d’oro che splendeva di sorrisi scivolando sulle curve dolci di un corpo armonioso.

«Io sono la donna…» disse una voce ammaliante, intessuta di mille note carezzevoli e melodiose. «Per la precisione sono la donna che tu amerai. L’Essenza Cosmica ha detto che dovevo parlare con te.»

«Che trucco ingenuo! Se spera di convincermi così ha sbagliato tutto!»

«C’è molta rabbia nella tua voce…» lei sfumò la sua luce dorata con tenui riflessi rosa. «E’ colpa mia? Ma io non so perché mi hanno mandato…»

«No, scusami. Non ce l’ho con te. Mi sono rifiutato di esistere e ti hanno mandato per convincermi.»

«Cosa? Ma… è terribile! Non si può fare una cosa simile.»

«Non si può, non si può… e chi me lo impedisce? Sono stanco di questa pagliacciata che chiamano vita!»

La donna arretrò come se fosse stata colpita da uno schiaffo.

«Hai detto una cosa orribile… E io? Non pensi che anch’io senza di te non potrò esistere? Io nella vita ci credo. Io lo voglio l’amore. E sarai tu a darmelo.»

«Amore… credi ancora in questa favola!? Non ti accorgi che noi idealizziamo la tenerezza, la pelle bianca e morbida della donna che ci fa rimescolare il sangue, lo sgomento del desiderio che ti spinge verso di lei. Apparenze! Dietro c’è il banale rincorrersi nel nostro sangue di molecole impazzite che ci spingono ad accoppiarci.»

Si interruppe un attimo, dubbioso, vedendo che lei lo osservava, immobile, serena, come se quelle parole ribelli la lasciassero indifferente.

«Quello che tu chiami amore», riprese in tono sarcastico, «è la stessa forza che spinge alcuni pesci a fecondare le uova sospese nell’acqua senza alcun contatto con la femmina. Anche questo è amore!? E il primo accoppiamento della Terra, quello che ha dato origine alla vita: due atomi di idrogeno si sono amati e hanno fatto nascere un atomo di elio… Che tenerezza!»

La donna accentuò il suo splendore e disse con pazienza:

«Dici di non credere all’amore ma ne hai parlato finora. Perché l’amore è forse meno straordinario se gli cambi nome, se lo guardi sotto un altro aspetto? Tu dici di non voler esistere. E allora. Cosa pensi di avere scoperto!? Anch’io sarò risucchiata dal nulla, ma la mia felicità non sarà sminuita dal fatto che deve finire. Il mio amore sarà dolcissimo, anche se non sarà immortale. E io non rinuncerò mai ad averlo.»

Lui la guardò corrucciato e le girò le spalle. C’era del buono in quello che la donna diceva, ma lui ormai aveva preso la sua decisione. Ed era irremovibile.

«Dunque… sei proprio deciso?» La sua luce era impallidita e la voce era divenuta fredda, lontana. «Allora è inutile che io vada sulla Terra.»

«No. Tu non c’entri, se ci credi, devi vivere.» Si girò a guardarla. Non aveva mai visto qualcuno così addolorato. Improvvisamente sentì dentro di sé una strana commozione.

«Che ci faccio io da sola sulla Terra?» disse lei sottovoce, desolata. «Se sono destinata a te e non ti trovo, i miei colori e la mia musica si spegneranno dentro di me a poco a poco, come una stella vecchia di millenni che non ha più nessuno da illuminare…»

«Questo è un modo di pensare superato», disse l’Essere Possibile, ma la sua voce cominciava a essere incerta e, senza rendersene conto, lui si sforzava di parlare con più dolcezza. «Tu puoi affermare la tua personalità, trovare i tuoi valori, la tua forza!»

Si interruppe imbarazzato. Si stava contraddicendo. Lei si avvicinò fino a sfiorarlo, la sua luce era più seducente che mai.

«Vedi, anche tu sei ancora tentato dalla vita. Ma il tuo coraggio mi piace. Anche a me piacerebbe ribellarmi, ma ho paura, paura di ciò che non conosco. E quel breve attimo di sogno che ci viene donato io lo voglio vivere, lo voglio con tutte le mie forze. E per questo… ho bisogno di te…».

L’Essere Possibile fissava lontano un universo giovane, le galassie che si allontanavano vorticando lentamente. Sentiva il calore della donna fluire dentro di sé come una nuvola di vapore e sciogliere il ghiaccio dei suoi pensieri.

«Va bene… vivrò, visto che ci tieni tanto.» La sua voce non aveva più la limpidezza di chi non ha ancora vissuto, ma era spezzata da ombre, variegata dal dolore, dalle cose non dette, dalle ultime note di canti spenti troppo presto. «Ma è un peccato di vanità. E, come tutti, lo pagheremo con la morte.»

 

 

Il neonato, con le piccole braccia disarticolate che seguivano passivamente i movimenti ritmici del massaggio cardiaco, sembrava un grottesco burattino nudo, col quale il dottor Nardini, il neonatologo, si divertiva a giocare.

Il professor Pagani spiava ansiosamente sul piccolo volto i segni della vita. Perché si ostinava a non respirare un po’ di aria benefica, un po’ di quell’aria nauseante della clinica, quell’aria che in molti maledicevano ma che era indispensabile per vivere.

Vivere… Pagani non credeva alla vita: personalmente si era rifiutato di mettere al mondo dei figli e i suoi amori erano stati passioni di una notte, o di un mese, con l’unico scopo di raggiungere un piacere rapido e senza conseguenze. Eppure per anni, ogni giorno, aveva messo al mondo i figli degli altri. La vita si era vendicata di lui facendone un proprio strumento. Ed ora eccolo lì, ancora una volta curvo su un essere appena abbozzato, ansioso di vederlo muovere, respirare, vivere.

La vita vince sempre, pensò. Ma non la nostra personale, quella di tutti: solo l’uomo è tanto stupido da pensare di essere unico. Invece è solo un attimo di luce, il tempo di lanciare una freccia senza un obiettivo preciso, una freccia inutile che, dopo una breve parabola, va a cadere chissà dove.

Lanciò un’occhiata compassionevole alla madre: la ragazza dai capelli rossi fissava il soffitto, in attesa, sembrava non si rendesse conto del dramma che stavano vivendo, liberata dal dolore con l’anestesia epidurale e momentaneamente parcheggiata in un limbo semicosciente con l’aiuto di un tranquillante.

«Professore, comincia a respirare!»

Le parole di Salviati giunsero come una liberazione, sciogliendo l’aria tesa e dilatando la luce, che sembrava essersi raccolta su di loro, concentrata in una debole favilla.

Nardini intanto continuava il massaggio cardiaco, secondo la classica frequenza di 120 volte al minuto. Il ripristino della circolazione e la ventilazione artificiale avevano migliorato significativamente il colorito e la perfusione ematica. Nardini si arrestò:

« Il supporto cardiorespiratorio non è più necessario», disse. «Il bambino sta bene.»

Il professor Pagani osservò il piccolo torace alzarsi ritmicamente, poi si diresse stancamente al lavabo, tolse i guanti e si guardò le mani bianche di borotalco prima di lavarle. Dietro di lui sentiva una grande agitazione, poi i primi soffocati singhiozzi del neonato. Si avviò alla porta senza salutare nessuno. Salviati lo raggiunse e gli toccò un braccio:

«Professore, ha visto? Ce l’abbiamo fatta!»

«Sì… però, ascolti: piange anche lui, come tutti gli altri. Come un disperato…»

«Gli passerà presto. Una poppata e il suo faccino da scimmia farà una smorfia molto simile a un bel sorriso.»

«Ha chiesto alla madre come lo vuole chiamare?»

«Sì, ha già un nome, bello e nobile, Federico.»

 

 

 

Vent’anni dopo.

 

Federico, o meglio Fred, come lo chiamavano tutti, ebbe un gesto di stizza. Si alzò, raccolse i suoi libri, gettò indietro il ciuffo indocile che si ostinava a coprirgli l’occhio destro e si arrampicò lungo i gradini che portavano fuori dall’aula universitaria, gremita fino all’inverosimile. Si scusò con gli altri giovani che si accalcavano per ascoltare il dibattito in corso tra alcuni leader del movimento studentesco, raccolse le solite occhiate di ammirazione da parte di alcune ragazze e raggiunse finalmente l’uscita.

«Ehi, Fred, te ne vai proprio adesso?» gli chiese un suo compagno piccolo e occhialuto.

«Basta! Non ne posso più di tutte queste cazzate. Quei quattro galletti esagitati possono continuare a beccarsi… io vado a casa a studiare.»

«Ma come? Proprio tu, che avevi la fama del rivoluzionario duro e puro?»

«Qui di duro e puro c’è rimasto ben poco. Se pensano di cambiare le cose con tutti quei discorsi interminabili, infarciti di ideologie da quattro soldi… be’ io mi dissocio.»

«Ok. Stasera ti racconto come è finita. Ciao.»

«Ciao.»

Federico si allontanò dalla facoltà di buon passo, con quella andatura sghemba che lo faceva assomigliare a un cane randagio, forte e pericoloso. Salutò una coppia di studentesse che, dopo averlo incrociato, si misero a parlottare fittamente girandosi di tanto in tanto a guardarlo. Federico sorrise: sapeva di far colpo sulle donne, col suo fisico vigoroso, l’espressione sorniona, lo sguardo indagatore. Ma per lui esisteva una sola donna. La “sua” donna. Ancora non credeva a quell’incontro. In un ambiente dove ragazzi e ragazze si rincorrevano caoticamente, si prendevano, si lasciavano, si facevano del male, si consumavano in storie di sesso, lui aveva trovato la donna che sembrava fatta apposta per lui. E sembrava che anche lei la pensasse allo stesso modo. La loro attrazione era stata immediata, istintiva, profonda, come se l’incontro fosse deciso da tempo, in qualche imperscrutabile groviglio dell’ordine naturale. La vita non gli aveva fatto balenare sogni o promesse, gli aveva regalato un’incredibile  certezza.

Fece a due a due i gradini della stretta scala che portava al modesto bilocale che avevano preso in affitto, introdusse la chiave nell’antiquata serratura, aprì la porta di slancio.

«Amore? »

Si diresse alla camera da letto, da cui aveva sentito provenire un rumore.

La scena non poteva essere più sconcertante. Un uomo che non conosceva era sdraiato sul  letto, completamente nudo, aveva rialzato il capo  e lo guardava smarrito, con gli occhi dilatati. La “sua” donna era a cavalcioni sull’uomo, anche lei completamente nuda, in una posizione che non lasciava dubbi, con le grandi mammelle ciondolanti sollevate ritmicamente da un violento ansimare. Aveva girato il capo e guardava Federico impietrita, con il viso arrossato su cui spiccavano i grandi occhi azzurri sbarrati.

Federico uscì in pochi attimi dallo sbalordimento. Sentì aprirsi dentro di sé il luminoso spazio di una verità essenziale. Ma sì…era tutto preparato, un congegno perfetto. E lui ci era cascato in pieno. La vita lo aveva trattato bene, lo aveva blandito, coccolato, lo aveva fatto bello, intelligente, lo aveva convinto che l’esistenza era la cosa più desiderabile… e, quando meno se lo aspettava, l’aveva spietatamente, ineluttabilmente, fregato.