Sequestro di persona

Primo giorno

 

Improvvisamente la piccola folla che premeva contro le transenne ebbe un fremito: evidentemente chi si trovava in posizione migliore aveva notato qualcosa e trasmesso a tutti un impaziente senso di aspettativa. Anch’io feci uno sforzo per allungarmi verso l’alto, tendendo il collo e cercando uno spazio utile tra le teste: subito individuai, come tutti ovviamente, un lato della piazzetta  dove si stava creando una certa agitazione.

«E’ lei, sta arrivando!» disse qualcuno di fianco a me con la voce carica di eccitazione a mala pena soffocata. Mi girai a guardare chi aveva parlato e riconobbi in un viso anonimo la stessa emozione che mi aveva portato fin lì, contrariamente alla mia infastidita avversione per tutte le forme di morbosa curiosità popolare. Ma “lei” valeva bene la pena di uno strappo alle regole personali. Veronica Bellini non era un’attrice eccezionale ma era certamente, in quel periodo, la più ammirata dai maschi di ogni età: gli occhi nerissimi, in fondo ai quali danzava languidamente una luce liquida, ti osservavano impietosi dai manifesti dei film, dalle copertine delle riviste, ti fissavano durante gli spot pubblicitari mettendoti dentro un’irrequietezza smaniosa, facendoti attingere per un attimo il fondo indistinto e primordiale dell’eros e del suo irresistibile richiamo. Le labbra generose e brillanti, che formavano una bocca graziosa dalla piega lievemente imbronciata, e la lucida, morbida cascata di capelli scuri completavano l’effetto generale di un volto difficile da guardare senza sentire rallentare un attimo il respiro. E questo valeva anche per me, nonostante l’età non più giovane e un conseguente calo della tensione virile, tranne qualche sprazzo che ti faceva illudere che il desiderio fosse duro a morire e covasse sotto la cenere degli anni.

Quel giorno giravo per le vie del centro senza una meta precisa, soffermandomi, più annoiato che curioso, davanti alle vetrine delle librerie: succedeva sempre più spesso da quando avevo dato un addio amaro ma risoluto a un datore di lavoro ottuso e scarsamente generoso, lo Stato. Quando avevo visto la macchina dei carabinieri per traverso all’imbocco di una via e la gente accalcata sullo sfondo, mi era tornata in mente la notizia di qualche giorno prima: avrebbero girato in città  alcune scene di un film per la televisione, in particolare una sequenza in cui appariva Veronica Bellini, diva del momento e “sogno proibito degli italiani”, come titolavano i giornali locali.

Perché non vederla dal vivo? Perché non concedere al sogno qualche attimo di illusione in più? Ed eccomi lì, maturo signore dai distinti capelli brizzolati mescolato alle ragazzine vocianti e scherzose, ai passanti e agli sfaccendati in cerca di emozioni da poco, tutti a fissare avidamente i macchinari necessari alle riprese, i gruppi elettrogeni, gli spot, i pannelli riflettenti, le telecamere, gli enormi rotoli di cavi attorno ai quali si affaccendavano ragazzi in jeans e maglietta, dai capelli e dalla barba incolti. Intorno a un grande tavolo da campo ingombro di carte e circondato da sedie pieghevoli, altri personaggi erano oggetto della nostra attenzione e delle nostre inespresse congetture sulla loro identità: il regista? La sua assistente? Il direttore della fotografia?

Un improvviso spegnersi del brusio concitato sottolineò che era arrivato il momento che tutti attendevano: una grossa BMW nera, lucida e silenziosa come uno squalo, entrò lentamente nella piazzetta da una delle vie laterali, subito circondata da premurosi addetti ai lavori che purtroppo ci impedivano una comoda visuale. Intuimmo, più che vedere, una sinuosa figura in abito rosso che scendeva elegantemente dalla parte del passeggero, stringeva alcune mani, abbracciava in modo un po’ formale un giovane dal fisico prestante. Poi le cose si congelarono senza apparenti sviluppi per un tempo che mise a dura prova chi era ansioso di vedere qualcosa di più interessante, di avere un incontro più ravvicinato con l’attrice o assistere a qualche fase della ripresa. Molti si allontanarono spazientiti o già sufficientemente soddisfatti di ciò che avevano visto, altri attesero imperturbabili e tra questi io stesso, che non perdevo di vista quella figura in rosso ricavando da questo minimo contatto visivo, da questo essere semplicemente dove anche lei stava, un’appagante sensazione di benessere, l’illusoria emozione di vivere, sia pure ai margini, nel fiabesco mondo del cinema.

Da un momento all’altro la scena si animò, qualcuno impartì degli ordini a voce alta, si accesero numerose luci che diedero vita e colore alla facciata del nobile palazzo che costituiva l’attrattiva della piazza. Due ragazze, verosimilmente due comparse istruite da quello che sembrava un aiuto-regista, attraversarono chiacchierando e ridendo la scena, quindi la protagonista, bellissima nell’abito rosso con cui era arrivata, con la magnifica massa dei capelli neri ondeggiante e rilucente sotto i riflettori, si avvicinò al maestoso portale del palazzo, studiò un attimo i nomi sulla campanelliera e premette quindi un pulsante, mentre un operatore, con una complessa camera portatile, si avvicinava a lei per riprenderla evidentemente in primo piano. La porta si aprì e l’attrice scomparve nel buio dell’androne. Fu come un segnale: le luci si spensero, tutti si mossero  formando gruppetti che parlavano animatamente, le maestranze rimettevano a posto le loro apparecchiature: il fantastico mondo dello spettacolo mostrava il suo  retroscena più prosaico, una mattina di lavoro e di pazienza per pochi secondi di ripresa. Era il momento di andarsene, fine della festa.

 

 

L’urlo improvviso ridestò in modo traumatico la nostra attenzione. Guardai sgomento e incredulo verso il portone del palazzo che era stato riaperto: Veronica Bellini, malamente spinta e strattonata da due uomini armati e incappucciati, era caduta su un ginocchio, uno dei due l’aveva afferrata per un braccio e la tirava su violentemente. Altri due uomini uscirono correndo dal portone: portavano anch’essi un passamontagna e si muovevano veloci e minacciosi come felini. Con grida secche e gutturali, spianando ciascuno con mano ferma una specie di mitraglietta, immobilizzarono il personale della produzione e il gruppo dei curiosi al di là delle transenne.

«Tutti a terra! Tutti a terra o vi ammazzo!» urlò uno di loro in un italiano stentato, con un accento straniero non ben identificabile. Lo stravolgimento della situazione era stato talmente improvviso e inatteso che tutti apparivano pietrificati, terrorizzati  più dall’ estrema violenza belluina che si sprigionava dai  movimenti di quegli sconosciuti che dalle minacce urlate. Abbracciai in un attimo tutta la scena con un’ improvvisa e insolita acuità visiva, con tutti i sensi all’erta. Il cuore mi spinse di colpo sulle pareti delle arterie un getto di ormoni primordiali e aggressivi che mi lasciarono senza fiato per la sorpresa. Nello stesso istante si illuminò nella mia mente, come un rapido flash, la nitida diapositiva della situazione: i carabinieri, allertati dalle grida e dalla strana agitazione, che si erano messi a correre ma erano troppo lontani per arrivare in tempo utile, la piccola folla immobile, l’incongrua figura rossa dell’attrice che si dibatteva e strillava mentre i due uomini che la trascinavano stavano ormai svoltando l’angolo di una via laterale, gli altri due uomini che indietreggiavano velocemente, sempre tenendo la gente sotto la minaccia delle armi, e stavano anch’essi per scomparire. Tutto stava accadendo in una manciata di secondi.

Come accade che un uomo mite diviene improvvisamente un eroe? Decine di storie, in una storia millenaria, non hanno dato spiegazioni. Qualcuno, altro da noi o speculare a noi, vive tra le pieghe più oscure del nostro io, una realtà parallela che dà forse segno di sé nei momenti più rabbiosi o negli slanci ideali, oppure, in rare occasioni, esce allo scoperto e prende possesso del nostro corpo materiale: questo demone si sostituì a me proprio in quell’istante.

Vidi me stesso balzare al di là delle transenne, mettermi a correre come certo il mio fisico non mi permetteva, ignorando il battito forsennato del cuore e l’ansimare che mi stringeva la gola. Raggiunsi il gruppetto dei sequestratori mentre due di loro stavano salendo alla guida di un furgone bianco e gli altri due, aperti i portelloni posteriori, sollevavano il corpo inerte di Veronica Bellini per buttarlo senza tanti riguardi all’interno.

«Fermi!» urlai con voce strozzata, «lasciatela!» Uno degli uomini si girò e i suoi occhi si spalancarono per lo stupore dietro il passamontagna nero: gridò qualcosa che non capii, forse un avvertimento, il guidatore si sporse dal finestrino e gli diede seccamente un ordine. L’uomo venne verso di me, rapido come un serpente: l’ultima cosa che ricordo è il suo braccio scuro e muscoloso che si alzava,  la mitraglietta che occupava il mio campo visivo, un dolore terribile e accecante tra gli occhi.

 

 

Buio. Richiusi prudentemente gli occhi. Il dolore al di sopra delle orbite e in tutta la testa era pazzesco, il sangue mi batteva sulle ossa frontali come un martello cadenzato, una nausea ripugnante mi artigliava lo stomaco. Deglutii e feci uno sforzo per riprendere la padronanza di me stesso. Tesi le orecchie e avvertii gli scricchiolii e i rumori di un grosso veicolo in movimento, confermati dai dolorosi sobbalzi che subiva il mio corpo. Tentai di muovermi ma sia le mani che le caviglie erano immobilizzate, strettamente legate con quello che sembrava un grosso spago. Tentai nuovamente di aprire gli occhi e ripresi contatto con la realtà, un contatto sconvolgente. Avevano sequestrato Veronica Bellini! E io mi ero intromesso! Ma cosa mi era venuto in mente? Cosa credevo di fare? Che imbecille! Con degli uomini armati… mi potevano ammazzare… E adesso dove mi trovavo? Forse… avevano preso anche me! Mi guardai intorno, muovendo la testa con prudenza. Un po’ di luce filtrava da qualche parte e consentiva di vedere alcuni dettagli: mi trovavo disteso sul pianale di un grosso furgone, apparentemente vuoto, tranne qualche sacco appallottolato, un vecchio bancale e un rotolo di corda. Girai la testa dall’altro lato e vidi accanto a me una forma indistinta che si muoveva, sforzai gli occhi per vedere meglio e riconobbi il vestito rosso: mi avevano preso insieme alla Bellini! Ma perché? Cosa ci facevano con me? Se l’intenzione, come tutto faceva supporre, era quella di sequestrarla, io potevo solo essere di peso! Ignorando il dolore che dalla fronte si irradiava in tutto il corpo, vivo e tagliente come la fenditura di una lastra di cristallo, tentai di girarmi verso la donna, facendo forza coi piedi e tirandomi un po’ su fino ad appoggiarmi alle pareti del veicolo. Gli occhi si erano ormai adattati alla scarsa luce e vidi la poveretta raggomitolata su se stessa, con il viso appoggiato ad un braccio e i bellissimi capelli sparsi sul pavimento sudicio. Il vestito, sporco e con un vistoso strappo laterale, era risalito lungo il corpo e lasciava scoperta una delle magnifiche gambe per cui l’attrice andava famosa: non potei fare a me di indugiare con lo sguardo sulla lunga curva della coscia che si arrampicava fino al morbido rilievo dell’anca e mio malgrado sentii affiorare alle labbra un amaro sorriso. Ero a pochi centimetri da una visione incantevole, fino ad allora appena vagheggiata, sbirciata sospirando in fotografie o inquadrature cinematografiche, ma la realtà circostante era violenta e crudele.

«Signorina… signorina Bellini!» chiamai piano. Mi rispose con un gemito, si mosse lentamente, si appoggiò ad un gomito e, scostando i capelli, si girò verso di me. Per quel che potevo vedere nella luce incerta, il bel viso era rigato di lacrime, il trucco degli occhi si era sfatto e le dava un’espressione dolorante e drammatica. Mi sembrò di cogliere un tentativo di sorriso, o quanto meno un cenno di riconoscimento.

«Oh… hanno preso anche lei… Pensavo che l’ammazzassero. E’ stato un pazzo a mettersi contro di loro». Il suo tono era sofferente ma la ragazza sembrava abbastanza padrona di sé, forse aveva già superato lo shock, magari questa gente dello spettacolo era più forte di noi gente comune, pensai sentendomi un po’ stupido.

«Sta bene? Le hanno fatto molto male?»

«A parte lo spavento e un po’ di lividi in tutto il corpo, mi sento abbastanza bene. Lei invece ha una brutta ferita sulla fronte, il sangue le è colato dappertutto…»

«Accidenti, devo essere un mostro… una volta che mi capita l’incontro più fortunato della mia vita mi presento da far schifo!» Ecco: la mia irresistibile tendenza a fare lo spiritoso anche fuori luogo, a costo di sembrare uno sciocco, era già venuta fuori. Ma lei sembrò prenderla bene.

«Be’ non mi sembra un incontro tanto fortunato. Come va la testa?»

«Mi sta scoppiando... Ma penso si sia lacerata solo la pelle. Passerà in fretta. Il problema non sono io: probabilmente mi abbandoneranno da qualche parte appena possibile, non li saprei neanche riconoscere… Ma lei? Perché l’hanno presa? La solita richiesta di denaro?»

«Non lo so. Ci ho pensato molto… Io non sono miliardaria. Nonostante il successo ho cominciato a guadagnare bene da poco…»

Non sapevo cosa replicare e mi misi a riflettere. La situazione aveva dell’incredibile: stavo conversando amichevolmente con una donna che fino al giorno prima era la dea di un olimpo irraggiungibile, ero sdraiato accanto a lei, in un atteggiamento quasi di intimità, unito a lei da paure, incertezze, sofferenze comuni. Non solo: ero stato sbalzato di colpo in una dimensione brutale, al centro di quegli eventi che solitamente si vedono al cinema o di cui si legge.

«Da quanto viaggiamo? E’ molto che sono svenuto?»

«Non so, forse due o tre ore, ho  perso un po’ il senso del tempo. Dopo il primo spavento sono stata in una specie di dormiveglia finché lei non mi ha chiamato. Ah, dimenticavo: a un certo punto si sono fermati e i due che erano saliti dietro con noi sono scesi».

«Mia moglie impazzirà non vedendomi tornare… Fortunatamente è una donna pratica e attiva: quando assocerà la mia scomparsa alla notizia del sequestro si metterà a cercarmi dappertutto, indagherà per conto suo, farà da matti…»

«E’ fortunato ad avere una moglie così», disse con un mezzo sorriso nella voce. Pensai che mi prendesse in giro, ma poi soggiunse: «Anche sua moglie è fortunata: in mezzo a tutti quei conigli immobilizzati dal terrore lei è stato l’unico a fare qualcosa».

«Sì… l’unico idiota. La sola cosa che potevo ottenere era quella di farmi sparare».

«E’ stato un gesto bellissimo… anche se incosciente. Ma almeno, adesso, la sua presenza mi dà un po’ più di coraggio». Avevo avvertito una punta di sottile infelicità esistenziale nelle sue ultime parole? O forse mi sbagliavo? Forse la vita della diva non era poi così dorata come poteva sembrare.

«Sia fiduciosa», dissi sforzandomi di apparire disinvolto e più sicuro di quel che ero in realtà, «vedrà che prima o poi capiremo qualcosa di più di questa faccenda e in un modo o nell’altro ne usciremo: l’anno prossimo sarà solo un ricordo!»

Cercai di cambiare posizione: le articolazioni, immobilizzate, cominciavano a far male. Il furgone, come se non bastasse, stava evidentemente percorrendo una strada tutta curve e ci sballottava senza tregua da una parte all’altra. Infine, con una brusca frenata e un sobbalzo più violento degli altri si arrestò. Dopo la conversazione, che ci aveva un po’ rincuorati, ci affacciavamo di nuovo all’abisso dell’incubo: sentimmo ancora quelle voci concitate, quegli accenti estranei, guardammo le porte aprirsi con gli occhi dilatati da una nuova paura. Loro indossavano ancora i passamontagna: l’uomo che durante il sequestro aveva parlato una specie di italiano  salì a tagliare le corde che mi tenevano legato e ci intimò di scendere.

Il mio cervello cominciò a ragionare rapidamente: qual era il modo migliore di comportarsi in un caso come questo? Assecondarli, innanzitutto, senza mostrarsi troppo spaventati. Studiarli, cercare di capire chi fossero, che intenzioni avessero, chi fosse il capo, se ce n’era uno, individuare il più disponibile di loro e stabilire un contatto. Attendere. Mi stupii per lo spontaneo cambiamento: non ero più l’imbelle e sempre dubbioso individuo della vita di tutti i giorni ma un istinto animalesco si stava facendo lentamente strada dentro di me, mi acuiva i sensi, mi sentivo come una belva ingabbiata pronta a tutto per riacquistare la libertà.

Mi guardai intorno: il furgone si era fermato davanti a una costruzione cadente, isolata in una campagna collinosa e arida. Un pallido tramonto stava scurendo un cielo grigiastro. Veronica, accanto a me, malmessa e spaurita nel suo vestito lacero, camminava con una certa dignità, cosciente forse che nulla poteva annullare l’effetto provocante del suo fisico perfetto. L’uomo che ci aveva fatto scendere mi diede una violenta manata tra le scapole:

«Dài, muovetevi!» disse con voce esasperata: anche loro dovevano essere provati dalla stanchezza e dalla tensione. L’altro uomo stava intanto aprendo un portone sbrecciato con una grossa chiave. Ci fecero entrare in uno stanzone spoglio e quindi ci spinsero in una stanza attigua, chiudendo la porta alle nostre spalle con una serie di mandate il cui scatto deciso lasciava intuire una serratura solida e ben funzionante.

Per un attimo la curiosità prese il sopravvento. Ci guardammo intorno: una finestra con le sbarre all’esterno lasciava intravedere dai vetri polverosi la poca luce che restava del giorno. Due reti arrugginite, accostate al muro e coperte da due vecchi materassi sudici, costituivano, oltre a un tavolo traballante e due sedie impagliate, l’unico arredamento. Sopra il tavolo pendeva una lampadina nuda: mi girai istintivamente alla ricerca di un interruttore e ne individuai subito uno, quel vecchio tipo in porcellana bianca che si ruota invece di premerlo. Non ci speravo ma la lampadina si illuminò di una luce fioca che ci diede un po’ di conforto. Ispezionai brevemente la stanza: una porticina laterale dava su una specie di bugigattolo con un lavandino scorticato e una tazza senz’asse. Un rubinetto lasciò uscire tossicchiando un filo d’acqua, col quale tentai comunque, alla bell’e meglio, di far scomparire ogni traccia di sangue dal mio viso.

Veronica invece si era lasciata cadere su uno dei due materassi, vincendo a quanto pare la ripugnanza per il sudiciume pur di concedere un po’ di sollievo alle membra maltrattate dal viaggio disagiato.

«Signorina Bellini…»

«Lasci perdere la signorina Bellini… non mi sembra proprio il caso», disse stancamente, «tu invece come ti chiami?»

«Io mi chiamo Dario, Dario Cancellieri…» dissi un po’ imbarazzato per quel tu dato così semplicemente. E la vidi sorridere del mio imbarazzo. Sembrava una presentazione tra due adolescenti un po’ impacciati… «Volevo dire… facciamoci coraggio: non mi sembra che abbiano intenzione di trattarci male. Cosa ne pensi?»

«Mah… non so: sto facendo mille congetture…»

Gli scatti della serratura ci interruppero: entrò l’uomo che parlava italiano, dal viso sempre nascosto con il passamontagna, che buttò due coperte  su una sedia.

«Tra un po’ io porto qualcosa per mangiare», disse sbrigativamente, accingendosi ad uscire. Era l’occasione per iniziare un minimo di dialogo. Dovevo essere veloce, amichevole, conquistare la sua fiducia, non fare errori…

«Scusa, non vogliamo crearvi dei problemi…» cercavo disperatamente le parole giuste, «qualunque cosa vogliate, noi capiamo, siamo…amici», dissi con un sorriso che voleva esprimere solidarietà, vergognandomi come un verme del mio servilismo. L’uomo mi gettò uno sguardo indifferente e uscì, chiudendo nuovamente la porta a doppia mandata.

«Be’, io ci ho provato…» dissi rivolto a Veronica.

«Sei bravissimo, dovresti fare il diplomatico… E invece cosa fai veramente nella vita?» chiese drizzandosi su un gomito. Incredibile: un’altra si sarebbe chiusa nella sua contrarietà, o nelle sue paure, lei invece si metteva a conversare…

« Io… faccio il pensionato dello Stato…»

« Ma dài, non ci credo…»

« Diciamo che quello è il pane quotidiano, per le piccole spese… in realtà ho molti interessi. Quello che mi appassiona di più è la ricerca storica».

« Accidenti, allora devo ritornare al lei…»

« Cosa fai, mi prendi in giro? Dopo che ho rischiato la vita per te… In realtà non ho abbastanza soldi per viaggiare nello spazio come vorrei e viaggio nel tempo, cosa che a volte può anche dare qualche emozione. Lo scopo in fondo è sempre lo stesso: evadere dalla la vita di ogni giorno, che è talmente insignificante…» Mi ero messo a parlare in tono discorsivo, mi sforzavo di essere piacevole perché vedevo che questo aveva un effetto rasserenante su di lei e anche perché la sua vicinanza mi stimolava a rendermi interessante. Mi dovevo però sforzare di guardarla dritta negli occhi, o guardare nel vuoto, mentre sentivo irresistibile la presenza del suo corpo eccitante, quasi impudico nel vestito rosso strappato, che attirava lo sguardo con una forza superiore ad ogni altro sentimento che poteva ispirare la nostra sciagurata situazione.

Ancora gli scatti della serratura. Entrò il solito uomo in passamontagna con una specie di vecchio vassoio sul quale erano due bicchieri, una bottiglia e due piatti con dentro qualcosa di indefinibile, che mandava comunque un buon odore. Decisi di fare un po’ lo stupido… vediamo cosa succede.

«Ehi, ma qui si mangia! E che buon profumo! Devi essere un  bravo cuoco…»

«Sta zitto e mangia», disse sgarbatamente.

«Scusa, volevo fare un po’ di amicizia. Visto che dobbiamo stare qualche giorno insieme…» Dio mio, forse avevo esagerato. Girò il capo di scatto e  mi guardò con gli occhi pericolosamente scintillanti.

«Voi non siete amici, voi siete il nemico!»

Rimasi immobile a guardarlo senza sapere cosa fare. Con la coda dell’occhio vidi che anche Veronica era raggelata. Un rumore di rapidi passi: entrò l’altro uomo dicendo qualcosa ad alta voce nella loro lingua, forse un rimprovero? Il tono era autorevole, forse era quello il capo: il primo uomo borbottò qualcosa e uscirono senza altri problemi.

«Cerca di non provocarli troppo”, disse Veronica.

«Scusami, ti ho fatto spaventare. Ma penso sia importante capire chi sono, riuscire a scambiare qualche parola, avere qualche risorsa casomai qualcosa dovesse andare storto». Veronica fece un cenno del capo che sembrava esprimere il suo accordo.

«Sembrano turchi», disse poi. «Però è una lingua che non ho mai sentito. Chissà perché ci hanno preso…»

«Un po’ di pazienza: vedrai che piano piano scopriremo qualcosa… Intanto non ci resta che mangiare. Vediamo com’è la cucina in questo locale…».

 

 

Il contenuto dei piatti di plastica, una specie di spezzatino annegato in un sugo denso, si rivelò abbastanza gustoso. Non si sa come avevano anche del pane casereccio abbastanza fresco e il vino della bottiglia, dozzinale ma dal sapore genuino, contribuì a rendere la cena accettabile, rincuorandoci un po’. Veronica mi stupì di nuovo: si versava da bere dosi generose che mandava giù con sicurezza, inclinando all’indietro il signorile profilo e facendo scivolare sulle spalle la fluente massa dei capelli.

«Complimenti!» non potei fare a meno di esclamare, «non sopporto quelli che a tavola non amano il vino: mi fanno andare tutto per traverso…»

«Sono abituata a bere fin da quando ero piccola. Ma forse stasera sto cercando anche di annegare i cattivi pensieri e le paure»  Si alzò stancamente e si avviò verso lo sgabuzzino. «Scusami», soggiunse, «cerco di fare un po’ di pulizia e di riacquistare un minimo di apparenza decorosa.»

Quando ritornò, tentai a mia volta di rassettare gli abiti, pettinai i capelli con le dita aperte e frizionai la pelle con l’asciugamano umido, fino a quando non mi fui scrollato di dosso quasi completamente la spossatezza fisica e mentale di quella incredibile giornata. Anche per essere all’altezza di quella magnifica donna, che, pur con gli squallidi mezzi a disposizione, era riuscita comunque a riacquistare un certo splendore. Tornai nella stanza e vidi che Veronica si era sdraiata su una delle due reti e si era tirata una delle coperte fino al collo. Mi sdraiai a mia volta, tenendola d’occhio per capire se fosse ancora sveglia. Dalla porta non giungeva alcun suono: probabilmente anche i nostri carcerieri si erano coricati.

«Buona notte Veronica…» dissi sussurrando. Mi rispose con un breve gemito: si era già addormentata.

 

 

Secondo giorno

 

Dalla finestra filtrava la debole luce di un’altra giornata grigia. Ero infreddolito e sentivo le articolazioni rigide e indolenzite. Mossi prudentemente la testa a destra e a sinistra, mentre la mente acquistava lucidità e metteva a fuoco rapidamente l’angosciosa situazione in cui mi trovavo. Dalla porta giunse un suono familiare: sembrava… ma sì, certo, era la voce sicura e regolare di uno speaker. E parlava italiano! I nostri sequestratori stavano ascoltando un notiziario alla radio o alla televisione. Balzai dal letto e incollai l’orecchio alla porta.

«Ancora nessuna notizia dell’attrice Veronica Bellini e dell’uomo che è stato sequestrato ieri insieme a lei. Nonostante l’imponente caccia all’uomo organizzata congiuntamente da carabinieri e polizia i rapitori sembrano essersi dileguati nel nulla».

Vidi che anche Veronica si stava avvicinando rapidamente alla porta. Le lanciai una rapida occhiata d’intesa e le feci cenno di tacere.

«In tarda serata», proseguì lo speaker in tono distaccato, «i redattori di un quotidiano locale hanno trovato nella cassetta delle lettere una busta recapitata a mano contenente un messaggio che potrebbe far luce sull’episodio: gli  inquirenti stanno valutando con molta prudenza il contenuto del messaggio per verificarne l’autenticità. Copia del testo è stata comunque messa questa mattina a disposizione degli organi di informazione e siamo in grado di anticiparne una breve sintesi. Un sedicente Gruppo Nazionalista Azero avrebbe voluto con questa azione riportare energicamente l’attenzione dei paesi europei sulla questione irrisolta del Nagorno Karabakh, chiedendo nel contempo la liberazione di due componenti del loro gruppo, autori di un attentato in cui hanno perso la vita alcuni soldati armeni. Come noto il Nagorno Karabakh, una piccola enclave all’interno dell’Azerbaigian, è di fatto una repubblica indipendente legata all’Armenia, ma il suo status non è riconosciuto dalla comunità internazionale né tanto meno dall’Azerbaigian, che non ha mai del tutto rinunciato a perdere questo territorio: lo considera infatti parte integrante del proprio stato e in esso è ancora presente una esigua minoranza azera, musulmana e filoturca, malvista dai cristiani armeni.

Nelle prossime edizioni del nostro giornale vi terremo costantemente informati di eventuali sviluppi di questa vicenda che ha profondamente colpito tutti gli italiani per la notorietà di Veronica Bellini e per l’apprezzamento che la giovane attrice ha saputo conquistarsi grazie alle sue indubbie doti di fascino…»

La voce si interruppe bruscamente: l’apparecchio era stato evidentemente spento. Io e Veronica ci guardammo perplessi, nei nostri sguardi la sorpresa e la paura si mescolavano a un intreccio di interrogativi che stentavano a prendere forma. Lei fu la prima a parlare.

«Ma… io non capisco… cosa c’entro io con questa gente? Il Nagorno Karabakh… non so neanche dove sia… l’ho appena sentito nominare! Tu ne sai qualcosa?»

«Veramente sono più esperto di storia antica che moderna. Ti dirò quel poco che so. Se ricordo bene sono vecchie rivalità tra alcuni stati del Caucaso inaspritesi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dietro, neanche a farlo apposta, le questioni più roventi di questi anni: il petrolio e l’islamismo.”

«Oh, no! Ma in che guaio ci siamo cacciati…» Si mise a camminare nervosamente per la stanza, poi si sedette sul letto e si prese la testa tra le mani. Ma subito dopo mi guardò con uno sguardo divertito nei magnifici occhi neri: «Ma che razza di nome è Karabakh… sembra un’imprecazione di Paperino!» Che donna imprevedibile: sembrava disperata e un attimo dopo riusciva a scherzare!

«Invece è un nome abbastanza affascinante» dissi, sedendomi accanto a lei, «significa: Il Giardino Nero della Montagna. Infatti è una piccola regione montuosa che, al crollo dell’impero zarista, fu contesa dalle due neonate repubbliche indipendenti di Armenia e Azerbaigian. Quest’ultima, abitata da popolazione di lingua e religione musulmana, voleva il controllo del Karabakh per guadagnarsi un confine e una via d’accesso commerciale con la naturale alleata, la Turchia. Le pretese azere, seppur prive di ogni giustificazione storico-politica, vennero sostenute prima dalla Gran Bretagna in cambio dell’accesso ai pozzi petroliferi di Baku, la capitale dell’Azerbaigian sul Mar Caspio, poi da Stalin, per non inimicarsi i petrolieri azeri e gli amici turchi.”

«Insomma la solita storia dell’ingerenza delle grandi potenze per i loro sporchi affari e per il maledetto petrolio…», commentò amaramente Veronica, che ascoltava le mie spiegazioni fissandomi attenta con quei suoi occhi dalla bellezza sconcertante e costringendomi ogni tanto ad abbassare i miei.

«Purtroppo le tensioni e gli scontri tra le due popolazioni divennero un’ inarrestabile spirale di violenza, aggravata dal crollo dell’Urss e, mi sembra nel ’91, si arrivò a una guerra vera e propria. Ma nonostante l’aiuto dei turchi, degli iraniani, dei mujaheddin afgani, gli azeri non riuscirono a tener testa alle forze armene e karabakhe, sostenute e armate dalla Russia: dopo alcuni anni di guerra e migliaia di morti e di profughi  venne raggiunto il cessate il fuoco, ma non una vera pace.»

«Dio mio… ma perché questi popoli si odiano tanto e si massacrano a vicenda?»

«Be’… anche noi europei non abbiamo scherzato fino al secolo scorso… non me la sento di dare un giudizio. Certo che povertà, arretratezza, interessi economici, invadenza di altri stati, integralismo religioso sono una brutta miscela… difficile venirne fuori…»

«Quelli che ci hanno preso sono quindi degli estremisti azeri che vorrebbero riprendersi il Karabakh… ma perché hanno compiuto questa azione proprio in Italia?»

«Non so cosa dirti… bisognerebbe conoscere bene la nostra politica estera. Forse il nostro governo ha un atteggiamento ambiguo… sicuramente non ha il coraggio di mettersi contro gli americani che hanno degli accordi petroliferi con Baku. Comunque…» esitai un attimo, lasciando il discorso in sospeso.

«Comunque cosa? Dì quello che vuoi dire!»

«Hanno scelto bene la loro preda. Sei bellissima… famosa anche all’estero… tutti saranno costretti a prendere conoscenza di questa controversia dimenticata. E i governi dovranno prendere posizione».

Mi fissò a lungo con uno sguardo indecifrabile, velato da un vortice di pensieri. Forse per la prima volta meditava a fondo sulla sua carriera, sulla vulnerabilità del suo ruolo. Si alzò lentamente e andò a collocarsi di fronte alla finestra polverosa, guardando un punto imprecisato in lontananza.

«Ben mi sta» disse a bassa voce, quasi parlando con se stessa, «mi sentivo…. Tu non sai come ci si sente quando si riesce a raggiungere la fama. E’ una sensazione di potenza che non puoi immaginare. E invece la realtà è un’altra cosa…»

La commozione mi assalì improvvisamente con un nodo alla gola. Provai una gran pena per quella donna magnifica che appariva ora così fragile. Mi alzai e mi avvicinai a lei posandole una mano sulla spalla. La reazione del mio corpo mi colse di sorpresa: quel semplice, primo contatto mi pervase di un immediato calore, l’istantaneo accelerare del battito cardiaco fece riaffiorare un’emozione lontana e dimenticata.

«Coraggio», dissi per superare l’imbarazzo, ma la voce mi si era arrochita e la gola era asciutta, «vedrai che non ci succederà nulla. E’ solo questione di pazienza: il prossimo anno, come ti ho già detto, questo sarà solo un lontano ricordo».

Girò il viso, facendo scorrere i capelli sulla mia mano, che le teneva ancora la spalla, e provocandomi un ulteriore brivido.

«Sei molto caro…» disse in un soffio. E mi sfiorò leggermente la guancia con la punta delle dita.

Lo schiocco della serratura sorprese le nostre emozioni e le raggelò. La porta si spalancò di colpo ed entrò il nostro carceriere con due grosse tazze e una vecchia caraffa di vetro che sembrava contenere una specie di caffè lungo. Le lasciò al posto del vecchio vassoio, che portò via insieme ai residui della nostra cena, e tornò subito con un pezzo di pane. La rapidità dei gesti e la totale indifferenza dell’uomo rendevano impossibile qualsiasi tentativo di stabilire un minimo di rapporto.

«Grazie!» provai a dire. «Stamattina, senza volerlo, abbiamo sentito…», ma si era già richiuso la porta alle spalle, senza degnarci di uno sguardo.

«Fatica sprecata…» commentò Veronica, amara. E aggiunse con lo stesso tono: «Ma che bella colazione!»

«Ehi! Non essere schizzinosa! C’è solo l’imbarazzo della scelta: cosa prendi? Una fetta di crostata, un babà al rhum o preferisci i salati…» Facevo lo stupido, un po’ per uscire dalla situazione di imbarazzo di poco prima, un po’ per infondere coraggio alla mia compagna. Insomma mi veniva da mettermi nei panni dell’uomo forte su cui si può contare, non so se in modo paterno, data la differenza di età, o se alla maniera un po’ gigionesca del maturo conquistatore…

«Comunque il caffè è caldo», aggiunsi. «Meglio se facciamo colazione subito, se sei d’accordo. Poi ci richiuderemo a turno nel nostro bagno di lusso.»

 

 

La giornata era trascorsa con una lentezza esasperante. A parte la momentanea distrazione offerta dal pranzo, una specie di pollo arrosto freddo e sgradevole che riuscimmo a trangugiare grazie al vino, ci aggirammo infelicemente per la stanza, dalla porta alla finestra, dalla finestra al letto. Fortunatamente eravamo tutti e due buoni conversatori: a lei piaceva ascoltare ma anche aprirsi, io ero sovreccitato, cercavo di esibirmi, di divertirla. Passammo così lunghi periodi seduti l’uno accanto all’altra sulla sponda di uno dei due letti: Veronica mi faceva un mucchio di domande, voleva sapere tutto di me e a me non parve vero poter spiegare la mia filosofia della vita, dichiarare il mio amore per la musica, l’arte, l’archeologia, confessare il piacere di perdermi nei vicoli delle grandi di città, dove era rimasta intrappolata l’anima dei secoli… soprattutto rispolverare le mie battute migliori e assistere ogni volta allo spettacolo di quelle labbra naturalmente colorite e piene che si socchiudevano in un sorriso sfolgorante. Con molta pazienza riuscii a sciogliere anche il suo naturale ritegno e a farla parlare di sé. Dopo le prime risposte a monosillabi cominciò gradualmente a parlarmi del suo lavoro di attrice, delle difficoltà degli inizi, dell’amore che non aveva ancora trovato… Alla fine mi ero fatto di lei un ritratto, penso, abbastanza fedele: lo splendido corpo, la bellezza sensuale, nascondevano una personalità complessa, il difficile connubio tra una sensibilità accentuata e la fermezza. Aveva una visione del mondo profonda e disincantata, amava le piccole gioie della vita, i viaggi, la scoperta di angoli suggestivi dei piccoli paesi, tutto sotto la patina compatta e sicura procurata dalla certezza del successo e dalla previsione di una vita agiata.

Intravedevo un fondo di malinconia sotto tutto questo: non lo no negò ma non ne volle parlare.

Un sottile turbamento faceva da sottofondo alla nostra conversazione, come la nota bassa e vibrante di un violoncello: i nostri corpi si sfioravano in una forzata intimità. Cercavo di non vedere, di non sentire, ma l’abito rosso di scena saliva in modo indecente e si arricciava fino al bacino quando eravamo seduti. Lo strappo continuava a mostrare sfacciatamente un’ampia parte dell’abbagliante coscia bianca che si perdeva nell’ombra dell’inguine e che frusciava contro la mia gamba ad ogni minimo movimento. Si rendeva conto Veronica del mio imbarazzo, anzi della mia eccitazione? Perché proprio di questo si trattava: una tensione virile rinnovata, adolescenziale, a cui non ero abituato da tempo e che credevo persa per sempre, con un po’ di rimpianto ma anche con  pacata rassegnazione all’evoluzione naturale delle cose. Spiavo furtivamente lo  sguardo di Veronica per sorprendere il brillio di un sorriso complice o ironico, ma inutilmente: possibile che non capisse? O forse capiva benissimo: si sa, le donne sono maestre in queste sottili arti della seduzione, nel gioco degli sguardi, nel lasciare sospesa nell’aria una piccola dose di mistero.

A un certo punto dovetti fare uno sforzo per tornare alla conversazione.

«Devo dirti una cosa, anche se forse sono il cinquantesimo che te la dice... però mi fa piacere dirtela lo stesso. Ho scoperto il segreto del tuo fascino...»

«Addirittura...»

«Sì, davvero. E’ che i tuoi occhi sono lucidi come se tu avessi pianto, e le tue labbra sono rosse e piene come se tu avessi appena baciato a lungo qualcuno. Le due cose insieme provocano un’emozione sorprendente...»

«Non sei il cinquantesimo», disse fissandomi con intensità, «sei il primo...»

 

 

Persi nelle nostre chiacchiere e nei nostri pensieri non ci eravamo accorti che qualcuno aveva nuovamente acceso la radio o il televisore, ma il volume si alzò improvvisamente e richiamò la nostra attenzione. Era l’inconfondibile voce dello speaker del mattino e parlava di noi.

«Proseguono, ancora senza esito le ricerche della nota attrice Veronica Bellini e dell’uomo che è stato sequestrato insieme a lei. Per quest’ultimo purtroppo si teme il peggio poiché i rapitori non hanno alcun interesse nei suoi confronti. Il prof. Dario Cancellieri, un insegnante a riposo autore di alcune pubblicazioni sulla storia del  Quattrocento, si è intromesso con coraggio, ma anche parecchia incoscienza, nell’azione del commando, che aveva di mira ovviamente la sola Bellini. I sequestratori dovrebbero essersi già sbarazzati dell’uomo, ma il fatto che questi non si sia fatto vivo fa supporre una brutale eliminazione. La moglie, in un’ intervista rilasciata alle maggiori emittenti televisive, è apparsa affranta ma ha dichiarato che non smetterà mai di sperare. Ha detto che il marito, nonostante l’aspetto mite dell’intellettuale, ha mille risorse e riesce a cavarsela anche nei momenti più difficili.»

Non potei fare a meno a questo punto di lanciare un’occhiata modesta a Veronica, che mi sorrise e mi strinse un braccio con complicità.

«Intanto», proseguì lo speaker, «per tutta la giornata si sono succeduti i contatti tra il nostro Ministero degli Esteri, l’ambasciata della Repubblica d’Armenia, le autorità di Erevan e di Baku, per conoscere nel dettaglio le caratteristiche di questo gruppo armato, che, come abbiamo già riferito nelle precedenti edizioni, vuole richiamare l’attenzione del mondo intero sul problema del Nagorno Karabakh, di cui sollecitano l’annessione all’Azerbaigian. Si tenta anche di capire perché abbiano colpito proprio in Italia e, in particolare, si sta vagliando la possibilità di giungere a un accordo per quanto riguarda la richiesta più concreta e immediata dei nazionalisti azeri: la liberazione di due compagni detenuti nella prigione di Erevan…”

Anche stavolta l’audio fu tolto di colpo: i nostri sequestratori avevano sentito quello che c’era da sentire.

«Sembra stiano trattando», dissi, «speriamo che i nostri aguzzini siano soddisfatti...»

Immediatamente sentimmo la porta aprirsi. Era l’ora della cena. Il nostro carceriere entrò con il solito vassoio: sembrava più rilassato, ma era difficile giudicare la sua espressione sotto l’immancabile passamontagna. Decisi di giocarmi ancora la carta della cordialità:

«Vi sono veramente grato di avermi risparmiato», dissi con l’accento più sincero che riuscii a trovare. «Grazie!  Speriamo che accolgano le vostre richieste.» Stavolta non mi ignorò: mentre posava il vassoio mi sembrò di cogliere nei suoi occhi uno sguardo divertito. Dovevo farmelo amico, trovare le parole giuste senza esagerare: «E’ ora che questi armeni la smettano di fare le vittime», dissi tutto d’un fiato. «Fanno gli sbruffoni solo perché sono amici di Putin!» Trattenni il respiro, ebbi la rapida visione di Veronica che si era immobilizzata e aveva sbarrato lo sguardo. L’uomo ebbe un attimo di esitazione, andò verso la porta, poi si girò a guardarmi lentamente:

«Hai detto bene», disse col suo strano accento. «Devono smettere. E’ meglio per tutti. Anche per voi». Gettò una rapida occhiata a Veronica e uscì.

Non potei trattenere un gesto di entusiasmo. Afferrai Veronica per le spalle e le dissi:

«Hai visto? Abbiamo aperto una breccia nelle difese del nemico! Non ha pensato che lo prendessi in giro, altrimenti…»

«Sì, è un progresso, ma hai rischiato molto: sei sicuro che ci serva a qualcosa?»

«Certo, le trattative potrebbero andare per le lunghe: ed è meglio averli amici. Domani cercheremo di sapere qualcosa di più. Ma adesso pensiamo alla cena: vediamo cosa ci ha preparato di buono il nostro cuoco.»

Ehi, ma questi sono spaghetti! Col pomodoro e persino il basilico!» esclamò Veronica con un tono di infantile contentezza.

«Mmh», feci io, dubbioso, «aspettiamo ad assaggiarli…»

Ci era ritornato un po’ l’appetito e attaccammo la pasta con impeto, arrotolandoci due grosse forchettate.

«Non male…», mugugnò Veronica con la bocca piena, «era meglio se li scolava due minuti prima… comunque… non male!» e ingollò la seconda forchettata. Ero contento di vederle tornare un po’ di buonumore: sembrava più giovane e i suoi occhi, se possibile, brillavano ancora di più. Le riempii il bicchiere fino all’orlo e lei non protestò.

«Devono avere una damigiana di questo vino: evidentemente hanno buon gusto e si trattano bene. L’uomo che si occupa di noi deve aver lavorato in Italia per parecchio tempo: parla abbastanza bene e conosce la nostra cucina.»

«Chissà se è stato lui ad avere l’idea di fare il colpo in Italia...», chiese Veronica.

«Penso che non lo sapremo mai… Così come non sapremo perché tengono qui anche me…»

«Forse pensano che due ostaggi facciano più colpo di uno…»

«Mah… tu fai abbastanza colpo da sola. In teoria avrebbero dovuto eliminarmi, sono solo di peso…»

«E dài… forse non sono così cattivi… in fondo ci trattano bene…»

«Questo effettivamente sembra un bravo ragazzo. Chissà se è stato lasciato da solo a sorvegliarci. Non si sente mai parlare… eppure l’altro, quello più aggressivo, quello che sembra il capo, dovrebbe essere ancora qui. Non ho più sentito mettere in moto il furgone con cui siamo arrivati…»

«A meno che non sia partito di notte, mentre dormivamo…»

Ci concentrammo sugli spaghetti e finimmo la bottiglia, ognuno assorto nei propri pensieri, nelle proprie supposizioni.

Il dopocena non fu particolarmente brillante, nonostante la pancia piena e il vino. C’era ben poca scelta. Veronica divenne silenziosa. Passeggiò un po’ per la stanza poi si chiuse nel bagno.

«Dobbiamo chiedere un altro asciugamano…», dichiarò in tono uniforme quando uscì. Si tolse le scarpe, roteò un po’ le caviglie con una smorfia e si infilò senza altri commenti sotto la sua coperta.

 

 

Mi era sembrato di sentire un lieve fruscio. Come sempre mi accadeva mi svegliai di colpo e sbarrai gli occhi nel buio della notte. La finestra mandava un debole chiarore. Mi sembrò di vedere Veronica che si muoveva: era solo un’ombra nell’oscurità ma vidi chiaramente che si stava alzando.

«Dormi?» mi chiese in un sussurro.

«Mmh… no, sono sveglio.»

Si avvicinò, alzò la mia coperta e scivolò accanto a me. Non ebbi il tempo di stupirmi: sentii che appoggiava il capo sulla mia spalla e mi metteva una mano sul petto. Una delle sue ginocchia si piegò e avvertii la lenta carezza della sua coscia che risaliva lungo le mie gambe fino ad abbracciarmele dolcemente.

«Scusami», mi disse all’orecchio con un bisbiglio umido e caldo, «avevo bisogno di coccole».

L’effetto non poteva essere più travolgente. Restai immobile, incapace di parlare, mentre tutto il mio corpo reagiva impetuosamente. Respirai a fondo, sforzandomi di dominare il battito cardiaco. Veronica non poteva non accorgersene.

«Non credevo di farti questo effetto…»

«Be’, mi hai colto di sorpresa, in piena notte, mentre ero mezzo addormentato…» riuscii a dire.

«Mi dispiace di averti disturbato…»

«Disturbato? Non prendermi in giro! Una donna come te che mi si avvicina nel letto…a uno come me… è… è una cosa incredibile, è un sogno: puoi immaginare come mi sento…»

«Non sono una donna eccezionale, sono come tutte le altre, anzi forse più sola…»

«Ma va’, non dirmi che ti mancano gli uomini!»

«Già… sono piena di uomini…», disse con amarezza. «La maggior parte di quelli che conosco mi guarda come una pupattola da sbattere alla prima occasione, altri come una gallina dalle uova d’oro, alcuni come un ornamento…»

Parlare con lei mi aveva un po’ calmato. E il tono delle sue ultime parole mi aveva ispirato un atteggiamento di tenerezza nei suoi confronti, la sentivo fragile, insicura e questo me la faceva sentire più vicina. Le passai un braccio sotto il collo e le cinsi una spalla con la mano.

«Adesso non so più cosa dire... mi hai spiazzato. Se ti può consolare io non ti ho vista in nessuno dei modi che hai detto tu. Be’... devo confessare che il primo impatto è stato quello più ovvio, tu non sei bellissima, sei qualcosa di più, è come se la natura avesse voluto raccogliere in una sola donna tutte le doti della femminilità: avvenenza,  potere di seduzione, mistero... Dovevo fare uno sforzo per non guardarti negli occhi: mi sembrava di precipitare... E dovevo anche cercare di non guardare lo spacco del vestito... e la coscia che c’era dietro... mi attirava in modo irresistibile!»

Questo la fece ridere: il suo corpo ebbe un piccolo sussulto contro il mio e per un attimo persi di nuovo il controllo.

«In seguito però...», mi sforzai di continuare, «fui distratto da altre cose: mi accorsi che eri seria, acuta, una donna notevole, da non prendere alla leggera. E capace anche di ridere in una situazione drammatica come la nostra».

Veronica taceva. Per un attimo pensai che le mie chiacchiere fossero riuscite a calmarla e a farla appisolare. Poi le sentii muovere lentamente la mano che mi teneva sul petto, con dolcezza, su e giù... mi stava accarezzando! Pensai fosse un piccolo gesto di ringraziamento per ciò che le avevo detto, ma, con mio grande imbarazzo, cominciò a muovere su e giù anche la coscia che mi abbracciava le gambe. Dio mio, non sapevo cosa fare, cosa dire, possibile non si rendesse conto... ma forse si rendeva conto benissimo. Mi capitava la più fantastica delle avventure! Ma... sarei stato in grado di.... sarei stato all’altezza... l’eccitazione e i dubbi si rincorrevano sibilando nella mia testa. Perché no... perché no? pensai, fatti coraggio! Rispondi alle sue carezze, idiota! La strinsi a me maggiormente e trovai facilmente la sua bocca socchiusa, in attesa. Cercai con la mano libera la curva del seno e le mie dita si chiusero sulla cosa più soffice e calda che avessi mai sentito: il senso del tatto esplose nel cervello come un lampo. Ma le emozioni non erano finite: la sentii armeggiare col vestito e poi strusciarsi contro di me. La morbida, setosa carezza del suo pube contro la mia pelle accese un lampo ancora più violento: sotto il vestito non aveva niente.

«Ho dovuto mettere la biancheria da lavare...», disse in tono confidenziale.

Non potei fare a meno di sorridere nell’oscurità.

Scivolare dentro di lei fu facile e naturale.

 

 

Terzo giorno

 

La scialba luce del mattino fece sbattere le mie palpebre. Sentii armeggiare nel bagno: Veronica si era svegliata prima di me. Di colpo mi resi conto della situazione e degli avvenimenti della notte. Ero ancora mezzo addormentato, ma l’incredulità e l’emozione cominciarono a mescolarsi nella mia mente. Il primo pensiero fu uno stupido compiacimento tutto maschile: evidentemente la mia capacità amatoria non era scomparsa definitivamente con l’età, era solo latente, capace di scatenarsi di nuovo se si presentava l’occasione giusta. Mi affiorò sulle labbra un mezzo sorriso, ricordai i gemiti di Veronica mentre mi spingevo con foga dentro di lei e sentivo il suo corpo rispondere quasi con furore: sembrava che tutti e due volessimo esprimere la rabbia per la violenza subita, riappropriandoci del nostro corpo, reclamando la sua autonomia.

Veronica uscì dal bagno più bella che mai nel suo vestito spiegazzato.

«Ho dovuto fare un po’ di acrobazie, visto che non c’è il bidet… ma ce l’ho fatta.»

«Be’, per fortuna noi maschi siamo favoriti…» dissi cercando di essere all’altezza del suo tono disinvolto. In realtà avrei voluto correre ad abbracciarla e coprirla di baci, ma mi trattenni: non sapevo quali fossero i suoi sentimenti dopo la notte appena passata. Spiai con ansia la sua espressione e per fortuna lei mi tolse subito dall’imbarazzo. Si sedette sul mio letto e mi guardò con intensità, a lungo, uno sguardo dolce e serio dietro il quale scorrevano mille parole. Di affetto? Di gratitudine? Indecifrabili?

«Non innamorarti di me», disse in tono neutro. Poi si alzò e andò alla finestra, a perdere lo sguardo in una lontananza che conosceva solo lei. Non seppi cosa replicare. Per uscire dalla situazione andai lentamente a chiudermi a mia volta nel bagno.

 

 

La colazione presentò una variante: col caffè c’erano dei grossi biscotti rustici abbastanza gradevoli. Anche il ragazzo col passamontagna sembrava più cordiale. Veronica gli chiese un altro asciugamano e lui ce ne portò due. Gli chiese anche come si chiamava e lui, anche se un po’ scontrosamente, disse:

«Heydar, potete chiamarmi Heydar.»

Visto che l’atmosfera era più distesa provai a chiedergli come andavano le trattative, ma mi gettò un’occhiata torva e se ne andò.

La mattina passò lentamente, ma la nuova intimità che si era creata tra me e Veronica e il mutato atteggiamento di Heydar avevano migliorato il nostro umore, facendo quasi del tutto scomparire l’ansia che ci assillava. Facemmo conversazione a lungo, come il giorno precedente, senza mai accennare al focoso rapporto notturno, ma era come se i nostri corpi avessero una specie di intesa. Ci parlavamo come due vecchi amici, con tante cose da dire e da ricordare, con una quieta dolcezza che spingeva i nostri sguardi a incrociarsi e mescolarsi continuamente.

I guai cominciarono a metà giornata. Sentimmo uno scoppio di voci al di là della porta, nella solita lingua che non conoscevamo. Era una lite piuttosto violenta in cui si mescolavano due voci, in una delle quali ci sembrò di riconoscere Heydar, più una terza voce che interveniva più raramente. Le nostre paure ci attanagliarono di nuovo: eravamo protesi verso la porta chiusa tentando di capire qualcosa  in quella ridda di suoni estranei e furiosi. Poi udimmo una porta sbattere e il rumore di un motore che veniva avviato rabbiosamente. Seguì un silenzio carico di tensione. Io e Veronica ci guardammo a lungo, in silenzio, i dubbi affioravano ai nostri occhi senza risposta.

Passarono le ore. Il pranzo era saltato. Ci scambiammo poche parole e ci aggirammo per la stanza angosciati da questa svolta improvvisa degli eventi. Il lento imbrunire della luce del giorno, il progressivo scomparire di quell’unico collegamento col mondo esterno ci intristirono ancora di più: Veronica mi venne vicino e mi abbracciò con abbandono, posando la fronte sulla mia spalla e cercando conforto nel calore del contatto. Le lacrime non si fecero attendere, ma la necessità di doverla consolare, di offrirle il mio sostegno, mi restituì gran parte del mia sicurezza.

«Ehi, piccola, non fare così», dissi a bassa voce accarezzandole lentamente la schiena con una mano, «Dài… siamo stati bene finora… è normale che i nostri sequestratori abbiano qualche problema e litighino tra di loro. Probabilmente c’è qualche disaccordo sul da farsi».

«E’ andata male, lo sento», disse Veronica con la voce spezzata dal pianto. «La trattativa è fallita e non sanno cosa fare».

«Ma no, queste cose vanno per le lunghe. E’ chiaro che i governi cercano prima di salvare la faccia, poi dovranno cedere. Ci vuole pazienza. E di sicuro, parallelamente alle trattative, ci sono delle ricerche. In un modo o nell’altro ci tireranno fuori».

«Lo dici per rincuorarmi, scommetto che non ci credi neanche tu». La sua voce stava salendo di tono. Stava perdendo il controllo. «Siamo qua, sperduti, insieme a dei pazzi. Se non gli danno quello che vogliono ci ammazzeranno…»

La porta si spalancò cogliendoci di sorpresa. L’uomo che finora avevamo solo intravisto e che non parlava italiano entrò portando il solito vassoio e lo posò in malo modo sul tavolo. Non riuscii a trattenere Veronica, che andò verso di lui con impeto.

«Non potete tenerci qui senza una spiegazione, senza…»

Il colpo, rapidissimo e rabbioso, dato col rovescio della mano, arrivò come una sciabolata sul viso di Veronica, che perse l’equilibrio e cadde di schianto sul letto. Un furore improvviso avvampò di colpo dentro di me. Mi lanciai contro l’uomo ma lui mi bloccò con uno spintone brutale, inaspettatamente forte, tanto forte da mandarmi a sbattere violentemente contro una sedia, che travolsi prima di cadere a terra. L’uomo uscì brontolando qualcosa. Mi alzai dolorante. Veronica era seduta sulla sponda del letto e si teneva la testa con le mani.

«Mi dispiace», disse con voce più calma, «non ho saputo controllarmi…»

Mi avvicinai e le studiai il viso. Fortunatamente né la pelle né le labbra si erano lacerate, aveva solo una delle guance gonfia e infuocata.

«Ti fa molto male?»

«Niente che non si possa sopportare… e tu, come stai?»

«Tutto bene… sono solo un po’ ammaccato. Quell’uomo deve avere una forza bestiale… Vado a inzuppare un asciugamano nell’acqua: è meglio se ci tieni per un po’ qualcosa di fresco su quella guancia».

Ci sedemmo sconsolati a mangiare. Non avremmo dovuto avere quella reazione: la cena che ci avevano portato era piuttosto buona, una saporita braciola con dell’insalata fresca e croccante, e Veronica si maledisse per lo scatto d’ira che non era riuscita a reprimere.

«Non fartene una colpa. La tua è stata una reazione naturale. E poi è stato un attimo. Finora mi sono sempre meravigliato che tu fossi una donna così forte: da una bellona come te mi aspettavo solo piagnistei.»

«Bellona… ma che razza di complimento è… però mi piace… mi fa sentire una di quelle dive del cinema muto».

Le tagliai io la carne perché potesse mangiare con una mano sola e con l’altra tenersi sulla guancia l’asciugamano bagnato, che dovetti rinfrescare varie volte.

Mangiammo con appetito, perché avevamo saltato il pranzo, e ci coricammo presto. Questa volta Veronica si coricò subito accanto a me come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Facemmo l’amore con dolcezza, cercando nei baci e nelle carezze la consolazione e la fiducia che la situazione concreta non ci dava.

Si addormentò tra le mie braccia, delicata e inerme come un neonato.

 

 

Quarto giorno

 

Gli scatti della serratura ci fecero da sveglia. Aprii gli occhi di colpo e vidi entrare l’uomo che ci aveva colpito: evidentemente non provava rancore per l’accaduto, visto che ci portava la colazione… Mi limitai a guardarlo, senza dire nulla, tanto immaginavo non capisse. Veronica era nel suo letto: evidentemente si era alzata durante la notte e si era spostata piano piano senza svegliarmi.

«Buon giorno!» dissi vedendo che anche lei si stava svegliando. Con la guancia gonfia e i capelli scomposti era ugualmente la cosa più bella che avessi mai visto o immaginato. Il vestito rosso, ormai sformato, scopriva una spalla dall’abbagliante colore candido. Mi sorrise con aria soddisfatta.

«Le notti sono molto più belle dei giorni… comunque… buon giorno anche a te».

 

Stavamo mangiando, quella mattina, con un piccolo lusso: pane e miele, quando il nostro sequestratore entrò nuovamente. Sembrava esasperato. Ci buttò malamente sul tavolo un giornale spiegazzato e se ne andò: il passamontagna non riuscì a nascondere il fiammeggiare di uno sguardo minaccioso.

«Maledizione… e adesso cosa succede?» dissi abbandonando la colazione e prendendo il giornale. Veronica si alzò con l’ansia di nuovo a spalancarle gli occhi e si mise a leggere alle mie spalle.

C’erano le nostre due foto, vicine, in prima pagina: se la situazione non fosse stata così drammatica immagino la soddisfazione che avrei provato per quell’abbinamento, su uno dei più importanti quotidiani nazionali...

“Il Ministro dell’Interno” recitava il titolo di un articolo in grande evidenza su quattro colonne “interviene sulla vicenda del sequestro Bellini”. “Mai più”, spiegava l’occhiello in caratteri più piccoli, “cederemo ai ricatti di chi si aggira per il nostro paese minacciando e ammazzando. Non dobbiamo innescare una serie di azioni delittuose che potrebbe non finire mai.”

Io e Veronica ci scambiammo uno sguardo pieno di apprensione: ci sentimmo mancare.

«Leggiamo tutto», disse lei.

L’articolo riassumeva brevemente la vicenda dopo aver fatto il punto della situazione, una situazione di stallo da cui le forze di polizia non sapevano come uscire, visto l’esito negativo delle ricerche. Anche i governi interessati non sembravano particolarmente ansiosi di collaborare: il Presidente della Repubblica di Azerbaigian, Ilham Aliyev, in una nota diffusa tramite l’Ambasciata in Italia era stato molto evasivo e sembrava quasi di leggere tra le righe una certa soddisfazione per l’azione compiuta dai suoi connazionali. Dal canto suo il Presidente armeno, da cui dipendeva la scarcerazione degli azeri richiesta dai sequestratori in cambio del rilascio degli ostaggi, aveva assunto un atteggiamento abbastanza intransigente.

A questo punto l’articolo riportava parte dell’intervista rilasciata dal nostro ministro ai telegiornali la sera precedente. La frase che sintetizzava il suo pensiero era purtroppo quella che avevamo già letto nei titoli: il noto politico riteneva che un comportamento ispirato alla massima fermezza poteva non solo risolvere favorevolmente la vicenda ma anche scoraggiare qualsiasi balordo, che in futuro, autodefinendosi “patriota” o, peggio, “difensore della fede”, avesse in mente qualche azione ricattatoria o terroristica.

«Ma questo stronzo si è bevuto il cervello!» esclamai buttando il giornale per terra. Veronica era impallidita, vedendo la mia reazione, e si teneva il viso con le mani. Cercai di dominarmi per non spaventarla. «Be’... per fortuna c’è l’opposizione. E il parere della gente. Sicuramente domani i giornali daranno spazio a voci diverse: la gente ti ama, prenderà le tue difese.»

Veronica mi guardò con poca convinzione.

«Ho paura...», disse in un sussurro.

«Ma no, non devi avere paura...» Fingevo una sicurezza che non avevo. «E poi cosa vuoi che succeda: se la trattativa va a monte ci lasciano andare...»

«Andare... Andare?» ripeté con voce alterata. «Ma questa è gente feroce! Solo Heydar era buono, e se ne è andato... Questi ci ammazzeranno!»

Non me la sentivo di contraddirla. Che garanzie avevamo che rinunciassero? Cominciai ad aggirarmi  per la stanza sforzando la mia mente a sintetizzare tutti i dati in mio possesso per avere una risposta soddisfacente. Mi ritornarono alla memoria tutti i pregiudizi sulla spietatezza delle popolazioni caucasiche. Veronica aveva ragione: se non riuscivano ad ottenere quello che avevano chiesto, quanto ci mettevano a sbarazzarsi di noi? Tanto più che così davano un esempio spietato della loro determinazione. Forse mi sbagliavo... o forse no. Mi sentivo responsabile anche per la mia compagna di disavventura: il pensiero che la sua sorte dipendesse dalla mia capacità di valutazione, dalle decisioni che potevo prendere, mi metteva addosso una specie di frenesia trattenuta. Mi costrinsi a una velocità decisionale che non era nel mio carattere.

«Dobbiamo andarcene di qui», dissi. «Sta diventando una trappola: dobbiamo uscirne prima che sia troppo tardi.»

«Ma... è pericoloso», obiettò Veronica. «Se ci prendono mentre scappiamo...»

«E’ pericoloso anche stare qui ...forse di più. Dobbiamo essere molto cauti. Fidati di me. Guarda, ti faccio vedere una cosa».

Andai nel bagno e ritornai con un coltello da cucina.

«L’ho nascosto l’altro ieri. E’ stato rischioso ma pensavo che prima o poi potesse essere utile.»

«E cosa ci vuoi fare... quelli sono armati!» disse Veronica sbarrando gli occhi.

«Vieni a vedere: questa è una vecchia porta. Si apre da questa parte e ha anche i cardini da questa parte, fissati con alcune viti che mi sembrano in buono stato. Con un po’ di pazienza e col nostro vecchio coltello forse riesco a svitarle...»

«Ma... e dopo?»

«Senti?» dissi attirando la sua attenzione sulla porta, «durante il giorno non ci sono rumori nella casa. Secondo me, dopo che Heydar se n’è andato, come sembra, il capo, chiamiamolo così, è rimasto solo. Ha necessità di muoversi e ci lascia chiusi qui. Con un po’ di fortuna usciamo indisturbati e ci allontaniamo”.

Veronica mi guardò dubbiosa.

«Mhh... mi sembra troppo facile. Ho paura... ho paura...», disse stringendosi lo stomaco con le braccia e scuotendo la testa.

Le andai vicino e la strinsi con dolcezza. Aspettai che la tensione si sciogliesse un po’ e la baciai sui capelli.

«Veronica, tu mi hai fatto il regalo più bello che potessi desiderare. Mi hai fatto sentire forte, amato da una donna bellissima che neanche nei sogni più fantasiosi potrei permettermi. Forse è dovuta a questo la sensazione di risolutezza che provo. Non posso permettere che ti capiti qualcosa di male. Il mio istinto mi dice che devo tirarti fuori di qui. Fatti coraggio.»

Cercò nei miei occhi quel coraggio che le chiedevo e accennò di sì col capo.

Mi misi al lavoro. Raschiai energicamente la punta del coltello su una mattonella del pavimento fino a quando divenne abbastanza piatta da servire come cacciavite. Poi mi misi a lavorare sulle viti, grattando via la vecchia vernice che le copriva e scalzandole un po’. Quindi provai a girarle. La prima venne via subito, ma le altre mi fecero penare. Sbuffai, feci ricorso a tutta la mia forza, risvegliai qualche fibra muscolare, antico residuo di attività fisiche giovanili... alla fine ce l’avevo fatta, anche se dovetti sedermi un attimo per asciugarmi il sudore e recuperare un po’ di energie.  

Ora veniva la parte più delicata. E pericolosa. Veronica mi osservava con ansia.

Afferrai la porta per la maniglia da un lato e per il bordo dall’altro. La sfilai leggermente dall’infisso e la feci scorrere dal lato opposto alla serratura: si muoveva!

L’appoggiai al muro lasciando uno spazio sufficiente al passaggio. Ci infilai il corpo con mille precauzioni e restai in attesa, con i sensi all’erta, cercando di cogliere anche il minimo rumore. Sembrava tutto tranquillo. Passai nell’altra stanza e feci cenno a Veronica di seguirmi. Ora bisognava vedere se il portone d’ingresso era aperto. Aveva all’interno una grossa barra scorrevole, mossa evidentemente dall’esterno con la chiave. Il cuore mi mancò un colpo: impossibile uscire di lì. Mi guardai disperatamente intorno: le finestre al piano terra avevano tutte le sbarre!

Sentivo su di me lo sguardo terrorizzato di Veronica. Mi lanciai su per una rampa di scale che occupava un angolo della stanza, sforzandomi di non pensare alla sconsideratezza di questo gesto. Nessun rumore per fortuna, se non il battito impazzito del mio cuore. La scala finiva subito su una specie di ammezzato pieno di vecchi attrezzi e cianfrusaglie. Ma c’era un finestrino! Un finestrino a due ante che si aprì con facilità! Tornai all’imbocco della scala e feci rapidamente cenno a Veronica di salire. L’altezza del finestrino da terra era accettabile: lo scavalcai, mi afferrai all’infisso con le mani, mi lasciai penzolare e quindi cadere. Una caviglia protestò vivamente, ma ero fuori. Ora toccava a Veronica: vidi subito nei suoi occhi un’espressione allarmata.

«Veronica, devi farlo. Se l’ho fatto io puoi farlo anche tu. Dài, io sto pronto a prenderti!»

Sentendo l’urgenza nella mia voce, sussurrata e tesa per non fare troppo chiasso, sembrò decidersi. Buttò prima le scarpe dal tacco alto, poi eseguì la manovra che aveva visto fare a me. Neanche a dirlo il vestito rosso, o meglio quello che ne rimaneva, si arrampicò su per le sue gambe.

«Non guardare in su!» strillò.

«Zitta! Ci farai sentire!»

Incredibile: in una situazione estremamente drammatica trovava lo spirito per giocare alla finta virtuosa! Ma io non ero da meno: non potei fare a meno di guardare con interesse le splendide, lunghe gambe che si dimenavano nel vuoto.

Cadde tra le mie braccia e fui svelto a trattenerla.

«Ti ho visto che sbirciavi, maiale!»

«Veramente conosco ormai tutto di te... ma non resisto ad un bello spettacolo...».

Mi lanciò un’occhiata maliziosa e andò in cerca delle sue scarpe. Per fortuna aveva superato la paura e ritrovato il suo senso dell’umorismo.

«Dài, andiamocene di qui!» dissi, ritornando serio. Mi avvicinai cautamente all’angolo della casa e mi sporsi fino a vedere la piccola aia su cui si apriva l’ingresso. Dava direttamente su una stradina sterrata che si perdeva tra le colline da ambedue i lati. Nessuno in vista. Non c’erano neanche mezzi che avremmo potuto usare per allontanarci. Tagliammo per un campo, tenendoci dietro la casa, che ci nascondeva in parte alla vista di chi passava sulla strada.

 

 

Il sole già alto accompagnava impietosamente la nostra fuga. La stanchezza si era ben presto fatta sentire e, unita al caldo asciutto e soffocante della campagna, illanguidiva i muscoli e la mente. I campi  e le colline circostanti ci apparivano sfocati da una leggera nebbia luminosa che in realtà era dentro i nostri occhi. Veronica guardava dritto davanti a sé, senza una protesta o un lamento, liberando faticosamente le sue eleganti scarpine dal tacco alto dai grovigli delle erbacce e dalle zolle di terra.

«Dobbiamo rischiare e camminare sulla strada», dissi, «così è troppo  stancante. Non ce la faremo mai.»

Ci riposammo qualche minuto sotto l’accogliente ombra di un albero ai bordi di una strada assolata. Un tappeto fresco di erba, isola felice nella campagna riarsa, ci consentì anche di coricarci e dare un po’ di sollievo alle articolazioni maltrattate da un esercizio cui non erano abituate.

«Guarda», dissi mentre studiavo il paesaggio in cerca di un indizio che ci suggerisse da che parte dirigerci, «tra poco la strada si inoltra all’interno di una macchia di vegetazione piuttosto folta. Camminare all’ombra sarà meno faticoso. E saremo anche meno visibili da lontano.»

«Non so per quanto ancora riuscirò a camminare», sospirò Veronica, «sono mezza morta!»

«Fatti coraggio: oltrepassato quel boschetto ci troveremo in una posizione abbastanza elevata. Vedrai che scorgeremo qualche casa e potremo farci aiutare».

Ci rialzammo a fatica e ci rimettemmo in cammino, ignorando il messaggio di protesta che la schiena ci inviò, un dolore spasmodico che fortunatamente scomparve dopo pochi passi.

 

 

Ci raggiunsero mentre stavamo percorrendo il tratto di strada in mezzo al bosco.

«Via dalla strada!» gridai afferrando Veronica per una mano e trascinandola verso il folto degli alberi. Lei incespicava e perdeva l’equilibrio, ma si rendeva conto del pericolo e riusciva a starmi dietro. Mi diedi una rapida occhiata alle spalle. Il furgone che ben conoscevamo si era arrestato con una brusca frenata, slittando sul terriccio e sollevando una nuvola di polvere. Lo sportello si era aperto prima ancora che il veicolo fosse fermo e ne erano usciti due uomini che correvano verso di noi. Non avevamo speranze, erano veloci e scavalcavano agilmente gli arbusti del sottobosco. Ci raggiunsero quasi subito: il primo afferrò Veronica con due braccia e la strinse con forza, incurante degli sforzi che lei faceva per divincolarsi. L’altro mi fu subito addosso e mi fece ruzzolare a terra con uno spintone. Mi sovrastò con il corpo robusto e mi sputò addosso, gridando qualcosa che non capii ma con un inconfondibile tono di disprezzo. Aveva un viso olivastro, dai tratti volgari, con dei grandi baffi scuri, una grossa pistola minacciosa gli sbucava dalla cintura, ma il pensiero che mi colpì immediatamente era che non portava il passamontagna. Un bruttissimo segno: è risaputo che i sequestratori non vogliono farsi riconoscere, a meno che... dio mio! avevano deciso di eliminarci!

Il primo calcio mi arrivò alle costole fulmineo e penetrante, un dolore inatteso, intollerabile, che mi fece raggomitolare su me stesso. Subito dopo il primo, un secondo calcio mi martoriò le costole nello stesso punto e mi esplose nel cervello. Sentii Veronica cacciare un urlo. E’ finita, pensai, come ho fatto a mettermi in questo tragico pasticcio? Adesso svengo, pensai ancora. Ma avvenne improvvisamente dentro di me un cambiamento che mi lasciò per un attimo perplesso. Sentii una rabbia gelida diffondersi in tutto il corpo, il dolore era scomparso, la mente tornava lucida, come da un abisso sconosciuto risaliva dentro di me un essere primordiale, feroce, che si stava sostituendo a me. Provai un odio violento, animalesco, per l’uomo che mi stava picchiando selvaggiamente. Gli afferrai il piede mentre mi stava sferrando il terzo calcio e glielo torsi con violenza, facendolo cadere all’indietro. Mi gettai su di lui e gli immobilizzai la testa artigliandogli il collo con una mano, mentre con l’altra cercavo di afferrare la pistola e sfilargliela dalla cintura. I miei movimenti erano divenuti rapidi e precisi come quelli di un animale da preda. La  pistola era adesso nella mia mano. Ragionai rapidamente. Non sapevo nulla di armi ma sapevo che c’era una sicura che si raggiungeva col pollice. Eccola! Dovevo spostarla e far fuoco. Ai margini del mio campo visivo vedevo l’altro uomo spalancare gli occhi per lo stupore, gettare di lato Veronica, balzare verso di me. Il fragore dello sparo sembrò congelare la scena per una frazione di secondo. Sentii il corpo del primo uomo sobbalzare sotto di me. Ignorai il dolore del contraccolpo,  puntai la pistola verso l’altro uomo che mi stava piombando addosso e feci fuoco una seconda volta: lui cadde all’indietro di schianto, come se qualcosa di invisibile l’avesse bloccato a mezz’aria. Dalla strada giunse il rumore di uno sportello sbattuto e le grida di richiamo di un terzo uomo che probabilmente era rimasto alla guida.  Lasciai ricadere il braccio dolorante per i contraccolpi dell’arma e mi avvicinai a Veronica: aveva lo sguardo fisso sui due cadaveri, il terrore le alterava i lineamenti.

«Presto. Andiamocene». Non c’era tempo per le parole di conforto. La presi per una mano, gliela strinsi per darle coraggio e la trascinai delicatamente lontano da quel luogo di morte. Il terzo uomo urlò ancora un richiamo, o forse un nome. Si stava avvicinando di corsa. Spinsi Veronica dietro un grosso cespuglio e mi acquattai vicino a lei facendole cenno di tacere. Attraverso le fronde vedemmo il terzo uomo, con un fucile in mano, arrestarsi esterrefatto davanti allo spettacolo dei compagni ammazzati. Cadde in ginocchio e li scosse, esaminò con raccapriccio le ferite, drizzò la testa di colpo e si guardò intorno. Si alzò lentamente, guardingo, lo sguardo dilatato dalla rabbia e dalla paura. Ora non bisognava sbagliare, non c’era una seconda possibilità: dovevo prendere la mira e sparare di nuovo, senza muovere le foglie del nostro riparo. Fortunatamente la mia nuova e ignorata personalità era ancora attenta e determinata. E sapeva come fare. Allineai con cura il mirino con la tacca sulla canna e sparai. La testa dell’uomo fu scagliata  violentemente all’indietro, il corpo barcollò un attimo, poi crollò a terra.

Restai un attimo immobile, appoggiato sul ginocchio, e tirai un lungo sospiro. E’ finita, pensai.

«E’ finita...» ripetei ad alta voce. Aiutai Veronica ad alzarsi e la strinsi a lungo, dolcemente, tentando di trasmetterle la mia profonda sensazione di quiete dopo la tensione spaventosa del combattimento. Sentii ad un tratto il suo corpo scosso dai sussulti del pianto. Continuai a stringerla accarezzandole i capelli, dovevo aspettare pazientemente che ritrovasse il suo equilibrio, che il pianto liberatorio la ripulisse da tutto l’orrore a cui aveva assistito.

«E’ incredibile quello che è accaduto. Tu...» disse a certo punto, con la voce ancora alterata dal pianto.

«Lo so cosa vuoi dirmi. Non capisco neanch’io cosa mi è successo... Quando quell’uomo ha cominciato a pestarmi mi è passato per la mente, come un lampo, il ricordo di quel personaggio mitologico, figlio della Terra, che quando era battuto e cadeva al suolo riprendeva le forze: gli venivano restituite da sua madre.  Mi sono sentito dentro una violenza, una forza, un odio.... ero lucido, sapevo esattamente cosa dovevo fare...»

«E’ stato terribile... ho avuto paura anche di te...»

«Non ero io... Ancora non mi rendo conto... Quando sarò cosciente di aver tolto tutte quelle vite... non so come mi sentirò... La mia vita è cambiata per sempre».

«Ci avrebbero ucciso...»

«Probabilmente sì, ma questo non mi consolerà mai, penso. Ora però andiamocene di qui. Avremo tempo di riparlarne: questo ricordo non ci abbandonerà mai più».

Ci allontanammo continuando a stringerci, per consolarci e farci forza a vicenda. Eravamo allucinati, protagonisti di una vita parallela che non riuscivano a rientrare nella propria.

Gettai la pistola vicino al primo uomo che avevo abbattuto, dopo aver pulito le mie impronte: avevo già in mente un piano per uscire da quella tragica storia senza esserne troppo coinvolto.

«Sai cosa faremo? Prenderemo il furgone e andremo alla prima stazione dei carabinieri che troviamo. Diremo che siamo scappati approfittando di un momento di assenza dei nostri carcerieri. Cosa vera, tra l’altro. Ma della strage non parliamo. Noi non ne sappiamo nulla».

«Ma come è possibile? Prima o poi troveranno i corpi...»

«Non è un problema nostro, indagheranno, penseranno a un regolamento di conti tra i sequestratori... o qualcosa del genere... Chi può pensare che abbiamo fatto fuori noi tutta quella gente...»

«Ma come? Mi hai salvato, hai eliminato dei terroristi, non vuoi prenderti il merito di questa impresa? Puoi diventare famoso…»

«No… tu non mi conosci. Questo tipo di notorietà non mi interessa. Io sono timoroso, riservato... Ma c’è una cosa più importante. Quello era solo un commando, probabilmente ci sono in giro altri fanatici nazionalisti dell’Azerbaigian: non vorrei che a qualcuno venisse in mente di vendicarsi. Forse a me non sanno dove trovarmi ma a te ti trovano di sicuro...»

Veronica rabbrividì e si strinse di più a me.

«Credimi», aggiunsi, «è meglio così. Dopo qualche giorno di inevitabili interviste, fotografie, pettegolezzi, nessuno parlerà più di questa storia e tu potrai stare tranquilla.»

 

 

Tre mesi dopo.

Il monitor del computer rischiarava un angolo dello studio, lasciando in una leggera penombra i dorsi multicolore dei libri che si affollavano lungo le pareti. I numerosi quadri erano grandi occhiaie vuote, in attesa di un raggio di luce che le facesse vivere.

«... quest’opera dell’umanista Flavio Biondo» battei svogliatamente sulla tastiera «è un trattato di antichità romane in forma di esposizione sistematica degli edifici antichi della città. Biondo vi ricostruisce la topografia della Roma imperiale, narrando con l'aiuto di fonti storiche, letterarie ed epigrafiche, la storia dei monumenti scomparsi o in rovina. L'enciclopedismo erudito è il pregio e insieme il limite di questa archeologia...»

Mi interruppi per l’ennesima volta. Il fastidio nei confronti delle cose che costituivano il mio lavoro tornava a trovarmi sempre più spesso, gli argomenti di studio che mi avevano un tempo affascinato mi sembravano ben poca cosa rispetto al fremito dell’avventura che aveva rapidamente sfiorato la mia vita.

Quasi animata da volontà propria la mano mosse il mouse fino a cliccare sul collegamento a Documenti per poi aprire la cartella Immagini: la sottocartella Veronica costituiva un’attrazione irresistibile. La aprii e cominciai a scorrere le immagini che avevo scelto visitando vari siti o passando allo scanner le foto di alcune riviste: era la mia piccola trasgressione segreta. Mi soffermai su mille particolari che conoscevo a memoria, le curve lisce e splendenti che avevo sfiorato con le dita trepidanti e che ora potevo solo guardare come un maniaco, i capelli scuri e fluenti che avevo accarezzato, il miracolo del seno vellutato ed esuberante nel quale avevo affondato il viso fino a soffocarmi. Un primissimo piano di Veronica occupò d’un tratto tutto lo schermo: era l’immagine che preferivo. Mi immersi nei suoi immensi occhi appassionati, e ancora una volta mi persi in quell’oscurità, tentando invano di raggiungere la luce che brillava in fondo allo sguardo. Questo piccolo effetto ipnotico accendeva nella mia mente un film visto ormai tante volte. Scorrevano lente le scene del nostro sequestro, l’orrore della morte, gli attimi struggenti della passione amorosa. Poi, le interminabili giornate del ritorno alla normalità: gli interrogatori di carabinieri e polizia, le interviste alla stampa, la felicità e le lacrime di mia moglie e dei miei figli... Fortunatamente la vita di un avvenimento mediatico è oggi molto breve: le luci si erano spente in fretta, la gente aveva dimenticato altrettanto in fretta, distratta da altre emozioni.

Spensi il computer e uscii su un piccolo terrazzo dal quale potevo vedere il mare: la sera lo stava scolorendo in un grigio spento. Perché i ricordi non sono mai all’altezza della vita reale? Che differenza c’è in fondo tra un sogno e il ricordo di qualcosa realmente vissuto? La sottile malinconia, la penosa sensazione di una perdita irreparabile erano ormai l’accordo di sottofondo alle giornate che scorrevano insignificanti. «Cercherò di dimenticarti...» avevo detto a Veronica in uno dei nostri ultimi incontri, «ma non sarà facile... D’altra parte viviamo in mondi così distanti, nel tempo e nello spazio... impossibile che si possano incontrare un’altra volta». Lei non mi aveva risposto. Mi aveva regalato uno dei suoi magici sguardi e mi aveva abbracciato con forza.

Il mare era divenuto più scuro. Il cielo conservava ancora una lieve sfumatura dorata dalla parte del tramonto. Sentii squillare il telefono e rientrai per rispondere.

«Sì, pronto?»

«Ciao, sono io...»