Ritorno a Ca' Bellaria, Il mistero della Muta di Raffaello

La strada si inerpicava su per la collina tracciando una linea bianca tra la folta vegetazione di giugno, un intrico lussureggiante di erbe e arbusti di vario genere tra cui squillava a tratti il rosso di alcuni papaveri. La luce calda e diffusa dell’imminente tramonto velava di pulviscolo dorato il verde intenso della campagna.

Federico, abituato al grigiore e al traffico caotico della città, lasciava che gli occhi e la mente si saziassero di questi colori e di questi spazi dilatati, mentre avvertiva sempre più insistente dentro di sé il senso di aspettativa per l’imminente scoperta del luogo in cui, secondo la leggenda di famiglia, il suo trisavolo aveva vissuto una mirabolante avventura.

Ed ecco finalmente la casa, incastonata in una vasta macchia di alberi.

Pochi minuti dopo aveva superato il cancello, parcheggiato la macchina e stava salendo una scaletta che immetteva in un grande spiazzo. Restò abbagliato un attimo dalla bellezza del luogo: il riflesso azzurrino di una grande piscina illuminava la facciata della bella costruzione, semplice ed elegante nei suoi mattoni forbiti e nelle sue pietre di fiume. Il lato sinistro, sporgente, creava un piacevole effetto di movimento e sopra di esso, all’altezza del primo piano, una terrazza si affacciava sulle colline verso Urbino.

Federico si soffermò un attimo a respirare l’aria satura di umori, lanciò uno sguardo soddisfatto alla corona di  alberi che circondava la casa, ammirò la grazia di un cipressetto isolato che allungava la sua ombra sul prato e si decise infine ad entrare.

«Buona sera! Io sono Margherita.» disse una graziosa ragazza, alzandosi da una scrivania antica e andandogli incontro. Gli tese la mano sorridendo e Federico non poté fare a meno di notare la sua bellezza semplice e coinvolgente: era minuta ma ben fatta, con folti capelli scuri, occhi  nerissimi e un sorriso disarmante.

«Buona sera! Sono Federico Bellanti, ho telefonato stamattina per prenotare una camera...»

«Bellanti...» ripeté la ragazza, sembrava un po’ sorpresa. «Lei ha lo stesso cognome degli antichi proprietari di questa casa...»

«Lo so, sono un loro discendente. Mi scusi se non gliel’ho detto subito. Sono venuto apposta a dormire qui.»

«Ah, ma che bella combinazione! Sono molto emozionata: il conte Bellanti Della Torre per noi è una specie di mito.»

«Be’, io non sono un mito. Sono un semplice docente di Storia dell’arte alla Statale di Milano. Dovevo venire alla Galleria Nazionale di Urbino per uno studio che sto facendo e ho pensato di approfittare dell’occasione per vedere finalmente Ca’ Bellaria, di cui ho sentito parlare molto dai miei nonni.»

«Allora, visto che è di famiglia, la farò dormire in una stanza speciale: la stanza di Gianlorenzo e Maddalena, che fortunatamente è libera.»

Dopo aver sbrigato alcune formalità, Margherita  lo condusse su per le scale e lo fece accomodare in una stanza estremamente accurata ed accogliente: tutti i mobili e tutti i particolari, come aveva potuto notare anche nella sala e salendo le scale, erano di grande raffinatezza, come se fossero stati ricercati e scelti uno per uno allo scopo di ottenere un risultato scenografico di gusto squisito. Da buon storico dell’arte Federico non mancò di notare alle pareti alcune opere pittoriche di pregevole fattura.

«Senta, Margherita, è anche possibile cenare qui da voi?»

«No, mi dispiace... noi facciamo solo la colazione. Però se lei è stanco e non ha voglia di andare in cerca di un ristorante le posso preparare un panino, o della piadina, come si usa qui.»

«Magnifico! La piadina andrà benissimo.»

«Allora lei faccia con calma e poi, quando vuole, scenda di sotto al bar e io le preparo qualcosa».

 

 

Lo spuntino si rivelò in realtà una ricca scelta di affettati, formaggi locali saporitissimi, dolci dall’inconfondibile aspetto del “fatto in casa”: su tutto aleggiava lo stuzzicante aroma della piadina e anche la cantina era fornitissima. Federico scelse per sé una bottiglia di Montepulciano d’Abruzzo e la consumò quasi per intero, complice l’atmosfera del locale adibito a bar, reso piacevole ed accogliente come il resto della casa, e la musica che Margherita aveva messo di sottofondo, una gradevole compilation di canzoni di Michael Bublé. Non gli dispiaceva lasciarsi un po’ andare, lasciarsi sommergere dal calore di quella casa, tentare di prendere un minimo di contatto con quel lontano passato, che, a quanto pare, riaffiorava nelle antiche mura, nell’aria, nel paesaggio.

Si alzò un po’ barcollante e si appoggiò al banco del bar:

«Qui ci vuole un bel caffè...»

«Certo», disse Margherita «glielo faccio subito.»

Federico stette un po’ a guardare con ammirazione  la svelta figuretta della ragazza che armeggiava con la macchina del caffè, poi il suo sguardo sembrò perdersi in lontananza, inseguendo qualche ricordo.

«Lo sai che... scusa ti do del tu, sono abituato coi miei studenti... lo sai che  anche il nome Margherita è una bella combinazione?»

«Ah sì? E perché?» chiese la ragazza con un luccichio curioso nello sguardo, mentre posava la tazzina davanti al giovane professore.

«Intanto devo premettere che io sono uno specialista di Raffaello e sono qui proprio per esaminare un suo famoso ritratto, quello della Muta, sul quale ho una teoria che adesso non sto a spiegarti: se ti interessa ne possiamo riparlare...»

«Sì, mi piacerebbe... ma io... cosa c’entro?»

«Non tutti lo sanno ma Margherita era il nome della donna amata da Raffaello. Anzi amata in modo così appassionato che il povero pittore non riusciva a stare lontano da lei. A Palazzo Barberini, a Roma, c'è il ritratto di una giovane donna, conosciuta come La fornarina: è nuda, anche se cerca di coprirsi il seno con un velo trasparente e porta un bracciale con scritto  Raphael urbinas: l’artista ha evidentemente dipinto la donna dal vivo, direttamente con i colori e senza fare un disegno preparatorio. E’ un quadro personale, non fatto per i soliti committenti danarosi, è un amante che dipinge la sua amata. Ma il particolare che ci interessa è un gioiello che la donna porta sui capelli, un pendente con alcune pietre preziose e una perla. Ed è proprio con questa perla che Raffaello lancia ai posteri la sua dichiarazione d’amore: in latino perla si dice, come forse saprai, margarita, ed era uso comune nell’iconografia del tempo lanciare messaggi allusivi  mediante la raffigurazione di alcuni particolari.»

«Che cosa straordinaria!» disse Margherita sinceramente affascinata. «Quindi è come se Raffaello avesse voluto dire al mondo intero: questa è la mia donna e si chiama Margherita...»

«Proprio così. Non solo: la stessa donna  è  raffigurata in un ritratto conservato a Firenze e conosciuto come La velata. A parte la rassomiglianza, anche La velata porta sui capelli lo stesso pendente con la perla. E ci sono altri particolari interessanti: la donna è dipinta in abito nuziale e porta all’anulare sinistro un anello che, come è emerso durante un restauro, qualcuno aveva tentato in seguito di cancellare.»

«E questo cosa significa?» chiese Margherita con gli occhi spalancati, ormai completamente catturata dalla vicenda.

«Significa che Raffaello aveva sposato segretamente la sua innamorata e voleva farlo sapere con un quadro allusivo...»

«Ma che bisogno aveva di sposarsi segretamente?»

«Lui era ufficialmente fidanzato con la nipote prediletta del potentissimo cardinale Bernardo Dovizi detto Bibbiena, grande sostenitore del papa: figuriamoci se Raffaello poteva inimicarsi le alte gerarchie ecclesiastiche!»

«Che storia romantica! E come va a finire?»

«Va a finire male... Raffaello, come sai, muore giovane e quattro mesi dopo la sua morte una vedova di nome Margherita, figlia di un fornaio, viene accolta dalle suore del convento di Santa Apollonia in Trastevere... e anch’io morirò giovane se non vado a dormire!» aggiunse scherzosamente Federico, alzandosi e avviandosi verso la sua camera. «Stamattina mi sono alzato prestissimo.»

«Allora, buona notte!» disse sospirando Margherita, che in realtà sarebbe stata ancora per delle ore a parlare di Raffaello e delle sue peripezie amorose.

 

 

I raggi lucenti di un sole già alto filtravano attraverso le persiane. Federico aveva dormito profondamente e si sentiva del tutto rinvigorito: il lungo viaggio da Milano non aveva lasciato traccia. Si meravigliò del silenzio intatto che regnava nella casa, si guardò intorno e assaporò l’avvolgente atmosfera di quella stanza dai toni discreti. Si ricordò che, attraverso una sala adiacente, si poteva uscire sulla terrazza e gli venne voglia di assaporare subito sulla pelle l’aria giovane del mattino. Aprì la porta e si affacciò alla balaustra, ammirando in lontananza Urbino, acquattata tra le colline, e sforzandosi di distinguere cupole e campanili tra il caldo colore dei tetti.

Ma la sua attenzione fu subito attratta da una figura che si muoveva nel giardino sottostante. Per un attimo restò folgorato da una visione splendida, un po’ incongrua nel paesaggio collinare: una giovane donna, dandogli le spalle, stava pettinando dei lunghi capelli biondi che le arrivavano alla vita. Chinava graziosamente la testa da un lato e col pettine scorreva lentamente quella cascata d’oro, liscia e lucente, dalla radice fino alle punte. Poi ripeteva la stessa operazione dall’altro lato: l’effetto, nel silenzio totale e nella luce limpida cui le ultime ombre stavano lasciando spazio, era quello di assistere nascostamente ad un magico rito pagano. Il corpo, che il vivace costume a due pezzi valorizzava, più che coprire, era flessuoso e slanciato, e riluceva di miriadi di gocce cristalline, evidente ricordo del bagno appena fatto. Federico restò a lungo affascinato a seguire quel fluido movimento, ammirando la perfezione delle membra che si muovevano leggermente per assecondare i gesti. Ma si riprese in fretta, si precipitò nella sua stanza, indossò rapidamente la prima cosa che gli capitò e si gettò giù per le scale: doveva assolutamente conoscere quella meraviglia! Uscì in giardino, si guardò intorno, girò rapidamente intorno alla casa... la visione era scomparsa.

Rientrò in preda ad un senso di leggero malessere e incrociò subito lo sguardo sorridente di Margherita:

«Buon giorno! Ha riposato bene?»

«Sì... sì» rispose distrattamente. «Chi è la ragazza che stava facendo il bagno?»

«Ma... non c’era nessuna ragazza...» disse Margherita leggermente perplessa.

«Forse» insistette Federico «è rientrata nella sua camera...»

«Veramente in questo periodo abbiamo solo due coppie di inglesi, dei signori abbastanza maturi che, tra l’altro, questa mattina sono partiti presto per esplorare i dintorni.»

Federico sentiva su di sé lo sguardo sospettoso di Margherita e non osò insistere:

«Mah... mi sarò sbagliato...» borbottò vagamente. «Ehi! Ma è pronta la colazione?» aggiunse poi ad alta voce, fingendo un buonumore che non provava. «Quest’aria mi ha messo addosso un certo appetito!»

 

 

 

La giornata trascorse tra mille impegni per Federico, che non pensò più alla misteriosa visione del mattino e corse da una  biblioteca  all’altra per controllare alcuni particolari del problema che lo assillava. Andò infine all’appuntamento che aveva preso alcuni giorni prima con la Sovrintendente per i beni artistici delle Marche nel suo ufficio all’interno  del Palazzo Ducale: l’aveva conosciuta precedentemente in alcuni convegni e aveva avuto modo di apprezzarne  la profonda competenza fin da quando era direttrice della Galleria di Palazzo Barberini nella capitale. Ora le andava a sottoporre una tesi piuttosto peregrina, ma contava molto sul prestigio che egli stesso aveva come autore di numerose pubblicazioni sul Cinquecento e sui nuovi metodi di indagine. Era inoltre disposto a usare armi che di solito disdegnava, come il possesso di un certo carisma e, perché no, un fascino a cui le donne di solito non restavano indifferenti: tutto pur di ottenere l’autorizzazione a sottoporre il Ritratto femminile detto La Muta ad un nuovo esame. Egli aveva infatti messo a punto e perfezionato una nuova apparecchiatura per la riflettografia a raggi infrarossi, la tecnica di indagine più efficace nel rivelare i disegni preparatori e le varie stesure di colore. Aveva inoltre ideato un software in grado di digitalizzare le immagini e ricomporle al computer e non vedeva l’ora di poter utilizzare queste nuove tecniche allo scopo di verificare un’intuizione che lo perseguitava da tempo. 

La Sovrintendente lo fissò un attimo con un breve lampo di ironia negli occhi, quando ascoltò la sua bizzarra teoria, ma, inaspettatamente, acconsentì quasi subito. Misero a punto insieme le misure di sicurezza, discussero su alcuni dettagli operativi, poi la donna convocò un paio di collaboratori  e diede rapide ed efficaci disposizioni per la realizzazione pratica dell’impresa. Federico non credeva alla propria buona sorte: si congedò dalla collega con sincera gratitudine e uscì esultante dal Palazzo mescolandosi alla pittoresca folla di turisti e studenti che sciamavano verso Piazza della Repubblica.

 

 

«Buona sera, Margherita!»

«Buona sera, professore, come sono andate le sue ricerche?»

«Un successo insperato: da domani posso cominciare a lavorare sulla Muta!»

«E’ molto importante per lei?»

«Molto. Sai come siamo noi studiosi: ci diamo un mucchio di arie, vogliamo far credere di essere superiori alle cose del mondo, ma siamo vanitosi come prime donne. Se troviamo qualcosa di nuovo, se possiamo documentare qualche nuova interpretazione di un fatto o di un dipinto, non vediamo l’ora di sbatterlo in faccia ai colleghi.»

«E lei cos’ha scoperto? Anzi, no. Me lo dica dopo. Adesso le preparo qualcosa da mangiare.»

«No, non ce n’è bisogno, Margherita. Mi sono fermato in una pizzeria prima di tornare. Adesso vado a fami una doccia poi vengo giù al bar a bere qualcosa. E ti racconto l’incredibile storia della Muta!»

 

 

Si ritrovarono come la sera prima, Federico appollaiato su uno sgabello davanti al banco del bar e Margherita ad ascoltare, trafficando con tazzine e bicchieri.

«Qualcosa da bere, professore?»

«Per quello che devo raccontare ci vuole qualcosa di forte. Hai del whisky torbato?»

«Ho una bottiglia di Lagavullin...»

«Accidenti, ma è perfetto... allora te ne intendi?»

«Mhh... non molto...»

Federico guardò pensieroso il liquido ambrato nel bicchiere dove la ragazza aveva versato una dose alquanto generosa, ne assaggiò un sorso, poi cominciò a raccontare, in tono distaccato, come ripetesse una vecchia lezione:

«Il ritratto della cosiddetta Muta, che ora si trova qui al Palazzo Ducale, risale al periodo fiorentino di Raffaello. Il personaggio raffigurato è di difficile identificazione: sono state formulate parecchie ipotesi, ma tutte prive di fondamento. Però è molto attraente: riservata, elegante, con una notevole caratterizzazione psicologica. Indossa con signorile semplicità la camurra, la veste del tempo, in panno e velluto di diversi colori, e porta alle dita alcuni gioielli, tra cui l’anello con zaffiro, simbolo di castità. Insomma è lo specchio degli ideali di perfezione del Rinascimento, ma anche dei valori di equilibrio e compostezza propri di Raffaello.

Ma non è questo che ci interessa!» disse Federico a voce più alta, rendendosi conto che forse stava annoiando Margherita. Fece una pausa ad effetto, poi riprese:

«L’analisi coi moderni sistemi diagnostici ha rivelato che sotto questa immagine si trova un’altra donna!»

«Un’altra donna?» ripeté Margherita spalancando gli occhi.

«Sì, e che donna! Giovane, bella, con un’ampia scollatura... Di questa scoperta sono state date diverse interpretazioni... ma sai cosa mi sono messo in testa io?»

Altra pausa, altro sorso di whisky, poi Federico si sporse sul banco verso la ragazza, di cui aveva ora catturato tutta l’attenzione:

«Dietro la Muta c’è un altro ritratto della Fornarina!»

«Davvero? Ma come può essere?»

«Le spiegazioni possono essere diverse, da quella più semplice, il banale riutilizzo del supporto, a quella più intrigante: questo ritratto fatto da Raffaello alla propria amata era sconveniente.»

«Come sconveniente?»

«Tieni presente che Raffaello era famoso anche per una forte passione nei confronti del gentil sesso, una passione ben poco spirituale: in alcuni documenti abbiamo dei suoi sonetti amorosi abbastanza sensuali. Il ritratto con la Fornarina discinta mi fa pensare che ne avesse fatti altri, ben più peccaminosi, e che abbia dovuto distruggerli o coprirli, per la solita questione dei suoi rapporti con la Chiesa.»

«E lei come pensa di dimostrarlo?»

«A questo punto ci viene in soccorso il progresso. Esiste oggi un sistema di ripresa delle immagini con una telecamera modificata, sensibile ai raggi infrarossi. La diversa permeabilità delle stesure di colore a questi raggi ci permette di evidenziare una storia dettagliata e completa del dipinto. Con un po’ di fortuna riuscirò a riportare alla luce questo misterioso ritratto fatto alla sua modella preferita dal nostro pittore innamorato... Scusami, forse ti ho annoiato con questi dettagli tecnici...»

«Ma no. Veramente. E’ stato interessantissimo.»

«Magari, appena possibile, ti mostro qualche foto. Ma adesso ti auguro la buona notte: domani mi aspetta una giornata piuttosto faticosa.»

«Buona notte.»

 

 

Si svegliò di soprassalto con un subitaneo pensiero: andare in terrazza. E guardare se c’era qualcuno in piscina.

Ci avrebbe potuto giurare: lei era là. Non si stava pettinando, come il giorno prima, ma stava nuotando pigramente lungo un lato della vasca, con uno stile fluido ed elegante. Scivolava senza far rumore, come se l’acqua fosse il suo elemento naturale, offrendo di tanto in tanto ai raggi radenti del primo sole lucide porzioni del corpo perfetto, che subito scomparivano sotto la superficie. Questa volta non se la sarebbe fatta sfuggire. Corse di sotto più silenziosamente che poté ed uscì, aprendo piano la porta.

La ragazza stava uscendo dall’acqua. Appena lo vide si mise a correre verso il retro della casa ma lui fu più veloce. La raggiunse in pochi passi e la afferrò per un braccio.

«No, la prego, mi lasci. Non facevo niente di male...»

Si girò e lo guardò con due grandi occhi sgranati, di un blu incredibile.

«Scusami. Non volevo spaventarti. Volevo solo vedere chi eri.»

«Lei... non è il proprietario?»

«No...», Federico sorrise per l’evidente equivoco, «ho preso in affitto una camera per qualche giorno. Non m’importa se fai il bagno qui.»

«Anch’io ho una camera in affitto, in un gruppo di case là dietro» disse indicando vagamente la collina. «Non posso permettermi il costo di una stanza a Urbino.»

«Studi all’Università?»

«Più o meno...»

«E i bagni in piscina?»

«Uffa! Fa un gran caldo! Pochi giorni fa, mentre passeggiavo per i campi, ho scoperto questa meraviglia e non ho resistito. Vengo all’alba, quando in casa dormono ancora tutti.»

«Ma forse... basterebbe chiedere: mi sembrano molto gentili.»

«Sì... ma così è più divertente. C’è in più il gusto del proibito...» disse con una divertente espressione allusiva.

Ora si era rilassata e Federico ebbe modo di osservarla più a fondo. Gli occhi erano il particolare che colpiva subito con quel blu intenso e traslucido, ma anche il resto non era male. I lunghi capelli biondi, che aveva già avuto modo di apprezzare, resi compatti dall’acqua, scendevano lungo una spalla e sfioravano lateralmente un seno abbondante, che il ridottissimo due pezzi color pervinca, intonato agli occhi, faticava non poco a tenere a posto. Un seno fuori luogo, pensò, in quel corpo lungo e snello, così lungo che le permetteva di guardarlo alla pari, nonostante i piedi scalzi affondati nell’erba del prato. Federico si trovò a indugiare con lo sguardo lungo le gambe, ancora bagnate e lucide, levigate come quelle di una statua. Quando alzò gli occhi si trovò davanti l’espressione ironica e interrogativa di lei.

«Scusami», disse prontamente, esibendo il suo sorriso migliore per uscire dall’imbarazzo, «stavo pensando che forse le leggende hanno un fondo di verità: in passato, chi ha visto una come te uscire dall’acqua con quelle gambe, quegli occhi, i capelli lunghi... ha giurato che esistevano le sirene...»

«Heilà! Ma qui siamo in pieno tentativo di seduzione latina!» esclamò spiritosamente la ragazza, dimostrando di essere all’altezza del gioco. «Forse un po’ datato, come complimento, ma...»

«Cosa vuoi farci, sono un professore...»

«Allora è meglio che giri al largo...»

«Ehi, no, aspetta. Non so nemmeno come ti chiami.»

«Mi chiamo Irene. Ma ora mi lasci andare, non vorrei che mi sorprendessero.»

«E quando ci rivediamo?»

«Be’... all’alba no?»

E corse via come una creatura dei boschi, con quelle gambe nude, agili e sicure sul verde splendente dell’erba mattutina.

 

 

Ancora una giornata di duro lavoro. Approfittando del giorno di chiusura del Palazzo, la Sovrintendente aveva chiamato del personale specializzato che aveva provveduto a togliere con ogni cautela la cornice del Ritratto di gentildonna, predisponendo il quadro per le riprese. Un eccesso di prudenza le aveva consigliato anche di chiedere la collaborazione del comandante dei carabinieri, che aveva messo a disposizione due dei suoi uomini i quali sorvegliavano gli ingressi della sala. Federico, dal canto suo, aveva personalmente trasportato le sue ingombranti apparecchiature dalla macchina, per le scale, lungo i corridoi: non si fidava di nessuno quando si trattava di mettere in funzione il suo complesso e sofisticato sistema di ripresa secondo il sistema della riflettografia. Un sistema che lui stesso aveva contribuito a perfezionare lavorando fianco a fianco coi migliori tecnici di una famosa multinazionale.

E stava ora inseguendo il momento della verità: decine di riprese con angolazioni diverse, variazioni millimetriche della posizione delle fonti di luce, la raccolta di una mole immensa di materiale e di dati che avrebbe poi richiesto altrettanto lavoro al computer per la ricostruzione definitiva della fantomatica immagine cui stava dando la caccia. Ma Federico non si risparmiava: nonostante l’impegno lo distraesse, il ricordo di Irene, la seducente e misteriosa ragazza della piscina, restava un gradevole sottofondo che lo faceva lavorare di buonumore, gli raddoppiava le forze, affinava le sue capacità, lo rendeva paziente e minuzioso.

Si sorprese talvolta a pensare, con un involontario sorriso, alle parole che si erano scambiati al mattino, a studiare qualcosa di intelligente e simpatico da dire il mattino dopo.

 

 

Ma il mattino dopo lei non c’era.

Si aggirò per il prato scrutando ansiosamente oltre le siepi e gli alberi, fece più volte il giro della casa, sentì crescere dentro un fastidioso senso di malessere e di delusione, senza poter far nulla. Poi alla fine, sentendo che i proprietari e gli altri ospiti cominciavano a dar segno di essersi svegliati, dovette arrendersi. Fece colazione di malavoglia, nonostante le mille tentazioni che Margherita aveva sciorinato sul tavolo del buffet, e si rinchiuse subito nella sua stanza a lavorare al computer.

Ne riemerse solo in tarda mattinata, annunciando sbrigativamente che sarebbe andato a Urbino. «Ci vediamo stasera» borbottò a un’imbarazzata Margherita, senza neanche guardarla.

A Urbino Federico si aggirò un po’ senza meta per i vicoli stretti e tortuosi, lanciando qualche sguardo distratto ai favolosi scorci che si aprivano di tanto in tanto tra le antiche quinte formate dalle case che si arrampicavano sulle salite scoscese.  Mangiò frettolosamente un boccone in piedi in un bar, senza neanche sentire il sapore di ciò che aveva ordinato, poi si lasciò incuriosire da una mostra allestita nelle Sale del Castellare e si rifugiò nella loro atmosfera fresca e discreta, ottenendo almeno un po’ di ristoro dal caldo soffocante che faceva fuori. Al malumore che lo perseguitava dal mattino invece non c’era rimedio.

 

 

Il profilo che ammirava insistentemente uno dei quadri esposti era inconfondibile. La cascata di capelli biondi lungo il corpo slanciato era più abbagliante di qualsiasi opera del più famoso degli artisti. Federico si immobilizzò un attimo per la sorpresa, sentì il sangue pulsare più velocemente: non credeva alla sua fortuna. Riacquistò in un momento tutta la sua vitalità.

«Irene! Ma che incontri si fanno alle mostre!»

La ragazza si girò e lo fissò enigmatica con gli straordinari occhi blu. Federico si sentì mancare: era uno dei visi più attraenti che gli fosse capitato di ammirare, reali o dipinti. Poi Irene sorrise:

«Professore!» disse allegramente, «mi dispiace per stamattina, ma non sono potuta venire...»

«Non importa... cioè, ci sono rimasto malissimo! Avevo aspettato quell’incontro come un bambino a cui hanno promesso di andare a vedere il film col suo eroe preferito!»

«Ma va! Addirittura...» rise lei.

«Comunque adesso che ci siamo incontrati ho riacquistato il buonumore. Come ti sembra questa mostra?»

«Mmh... un po’ noiosa...»

«Hai ragione. L’unico pezzo interessante della mostra... sei tu!»

«Ah! Ancora una delle sue sparate da latin lover... deve avere un bel repertorio...»

«Ma no, davvero, io non sono bravo con le donne. Solo che con te... Vieni, usciamo: se vuoi ti  faccio vedere qualcosa della città che forse non conosci.»

«E’ probabile. Sono un asino: pensi che non ho mai visitato neanche il Palazzo Ducale. Ma mi fa piacere avere una guida come lei!»

Uscirono nel sole accecante del pomeriggio e Irene si allacciò ad una delle  braccia di Federico con la massima naturalezza. Lui tentò di restare indifferente ma la carezza con cui la pelle della ragazza sfiorava il suo braccio, la pressione che il corpo di lei esercitava lievemente sul suo fianco, gli provocavano un’emozione profonda.  Impossibile anche non sbirciare l’improbabile seno che gonfiava il tessuto della maglietta estiva e che accompagnava i movimenti di lei, schiacciandosi a tratti contro di lui.

Federico in seguito ripensò spesso ad ogni singolo istante di quella giornata:  ai disperati tentativi di rendersi simpatico ad ogni costo, alle curiosità storiche e artistiche della città che andò a scovare per stupirla, interessarla, divertirla, ma soprattutto al fascino irresistibile che la ragazza emanava e a cui lui non tentava nemmeno di sfuggire, alle occhiate  curiose di quelli che si giravano a guardarli, un po’ ammirati, un po’ invidiosi.

La cosa che restò più impressa dentro di lui fu un indefinibile ma fortissimo sentimento di intimità che si creò quasi subito, una fusione di pensieri e di istinti che avveniva in un’altra dimensione e che, in questa, lasciava solo un avvolgente riflesso.

Cenarono insieme in un’osteria, il cui nome avevano scovato per caso tra i cartoncini pubblicitari sparpagliati sul banco di un bar. Ridevano forte, bevevano e si guardavano  negli occhi come due innamorati.

«Che strano!» disse lei a un certo punto facendosi seria. «Mi sento come ...legata a te: sembra che ci conosciamo da sempre.»

«Forse una spiegazione c’è», disse Federico con aria misteriosa, «conosci la teoria degli angeli con un’ala sola?»

«Cosa?»

«Sì, hai capito bene. Ci sono degli angeli con un’ala sola che svolazzano come galline zoppe, a meno che non incontrino un altro angelo con un’ala. A quel punto si attirano inesorabilmente, si affiancano e con due ali riescono finalmente a spiccare il volo.»

«Ma... e io che ti stavo a sentire! Questa è un’altra delle tue pagliacciate...»

Federico posò una mano sopra la sua e la fissò con serietà:

«Giuro. La mia vita sentimentale era un casino prima d’incontrarti. Oggi quando mi hai preso a braccetto ho sentito che mi spuntava la mia seconda ala. E forse... è stato così anche per te: mi sbaglio?»

Irene non rispose, lo guardò con i begli occhi che mandavano un intenso bagliore nella penombra del locale poi si sporse sulla sedia, gli cinse la vita con un braccio e posò la testa sulla sua spalla, incurante dei camerieri e degli altri avventori.

Conclusero la cena senza bisogno di dire altro. Prima di salire in macchina Irene  si mise di fronte a lui, posò le braccia sulle sue spalle, sfiorò delicatamente la sua bocca con due  labbra incredibilmente calde.

«Stanotte voglio dormire insieme a te...» disse poi in un sussurro.

Federico faticava a non perdere il controllo, poi la sua concretezza di ricercatore prese il sopravvento.

«Dobbiamo risolvere un problema pratico», disse. Prese il cellulare dal taschino, cercò un numero nella rubrica e chiamò. «Margherita? Sono il professor Bellanti. Senti, hai una camera libera? ....Ah, bene! ...Sì, ho incontrato una mia collega dell’università e le ho proposto di dormire lì alla villa... sono sicuro che le piacerà molto. Allora ci vediamo tra poco. Ciao.»

 

 

Quando ripensava a quella notte rivedeva solo tante immagini staccate che si sovrapponevano senza riuscire a formare una vera sequenza, come se qualcuno avesse fatto a pezzi una pellicola cinematografica. Il piccolo sotterfugio della doppia camera, la porta lasciata socchiusa, l’attesa spasmodica dell’arrivo di Irene, il suo ingresso silenzioso, a piedi scalzi, un’ombra misteriosa tra le ombre, lo splendore del suo seno finalmente rivelato da un riflesso proveniente dalla finestra, l’allacciarsi impaziente dei corpi che si erano cercati per tutto il giorno... e, infine, l’abbagliante luce del piacere, della felicità appagante e totale, che si spegneva lentamente nel buio della notte come la traccia di un meteorite.

 

 

La luce del giorno si versava impietosa nella stanza attraverso le persiane che erano rimaste socchiuse dalla sera prima. Federico aprì gli occhi a fatica, cercando di riemergere da un sonno pesante: la cena, la notte d’amore... sorrise a occhi ancora chiusi ricordando improvvisamente tutto. Guardò di lato cercando istintivamente la sua compagna... sicuramente era tornata nella sua stanza. Oppure... ma sì... «Scommetto che vuole farsi trovare in piscina!» pensò. Fece una pulizia sommaria e andò sul terrazzo: la superficie limpida e intatta dell’acqua gli rimandò il suo sguardo e spense il suo sorriso. Salì nella camera di Irene: la porta era spalancata e il letto già rifatto. Un indefinito ma fastidioso senso di inquietudine cominciò a farsi strada nella sua mente. Scese le scale di corsa.

«Margherita, hai visto la mia collega?»

«Sì, è dovuta partire presto stamattina... pensavo lo sapesse...»

Qualcosa non quadrava... il suo cervello cominciò a lavorare febbrilmente. Margherita lo fissava con aria interrogativa. Corse su per le scale e piombò nella sua stanza: un rapida occhiata gli permise di vedere con sgomento ciò che appena sveglio non aveva notato. Mancavano i suoi appunti! Mancava la sua borsa! Aprì con violenza le ante dell’armadio e non poté trattenere un grido angosciato:

«No! Il mio computer!»

Si sedette lentamente sul letto: una leggera sensazione di vertigine gli procurava una visione sfuocata e fluttuante della realtà. Immagini e pensieri si aggrovigliavano nella sua mente senza riuscire a produrre l’inizio di un ragionamento. Scosse la testa con rabbia per liberarsi del sibilo che lo frastornava:

«Fregato! » disse ad alta voce. «Fregato come un coglione!»

Irene, o come diavolo si chiamava, l’aveva raggirato ben bene. Sedotto e bidonato! Ma chi era veramente? Per conto di chi agiva? Era una donna prezzolata? O era una concorrente? Doveva fare qualcosa... scoprire qualcosa, prima che il suo materiale finisse nelle mani sbagliate. Si alzò e cominciò a prepararsi per uscire, cercando di trasformare la collera in energia positiva, che lo aiutasse ad agire. Che lo aiutasse a non sentire il dolore bruciante della delusione.

 

 

Fece a due a due i gradini che portavano all’ufficio della Sovrintendente: la prima cosa da fare era cercare di sapere chi si era ultimamente interessato alla Muta. Bussò ancora ansimante alla porta ed entrò senza attendere alcun permesso. Restò interdetto sulla soglia: la sua collega era seduta alla scrivania con un viso pallido e impenetrabile. In piedi di fronte a lei, due uomini dell’arma dei carabinieri, un maresciallo e un appuntato, per quel poco che sapeva di gradi.

«E’ lui», disse la donna, rivolta al maresciallo, con voce appena percettibile e abbassando subito lo sguardo.

Ma che diavolo stava succedendo? Federico era sconcertato. Vide il maresciallo avvicinarsi fissandolo intensamente.

«Professor Bellanti?»

«Sì, sono io. Ma si può sapere cosa...»

«Devo darle una brutta notizia... a meno che lei non ne sia già al corrente...»

«Che notizia? Io non so niente...»

«Questa notte è scomparso il ritratto di gentildonna detto La muta.»

Federico si sentì mancare. Si sedette su una sedia mentre tutti i presenti studiavano con attenzione le sue reazioni. La sua testa cominciò a pulsare, mentre ricominciava il pazzesco carosello dei pensieri e degli interrogativi. La Muta... rubata! Incredibile! Ma... c’era un legame con la scomparsa dei suoi appunti? Era stata quella sciagurata? Impossibile, aveva passato tutta la notte con lui! Dunque c’era un’intera banda in azione... Dio mio, che brutta storia!

«Professor Bellanti, devo chiederle di seguirci al nostro Comando», disse con voce ferma il maresciallo.

«Sì... sì... andiamo, ho molte cose da raccontare...»

«Forse non le è ben chiara la situazione», riprese il maresciallo, «abbiamo buoni motivi per ritenere che lei sia il responsabile. O, comunque, sia implicato nel furto.»

Federico scoppiò in una specie di risata convulsa.

«Ma... siete matti! Voi non vi rendete conto! Non sapete cosa significa quel quadro per me! Glielo dica lei», disse rivolgendosi alla Sovrintendente. Ma la donna stava immobile alla scrivania, evitando il suo sguardo.

«Venga professore», disse l’appuntato prendendolo per un braccio, «al Comando potrà spiegarci le sue ragioni. Potrà contattare anche un avvocato di sua fiducia, se vuole.»

Un avvocato... ma in che razza di guaio si era cacciato? Non gli restava che seguire i due carabinieri e sperare che la cosa si chiarisse presto. Se solo quel maledetto ronzio avesse smesso di torturargli le orecchie.

 

 

La stanzetta era spoglia ma abbastanza confortevole: una branda, un tavolo, una sedia, alcuni vecchie riviste che l’appuntato gli aveva gentilmente procurato, in attesa dei libri che gli avevano promesso e che lui aveva chiesto per impedire che il trascorrere del tempo lo facesse impazzire. Robuste inferriate e una solida porta lo separavano dalla realtà esterna. La sensazione di vivere in un incubo aveva ormai lasciato spazio a una rassegnata sopportazione: si era trasferito in una realtà parallela e aveva lasciato la sua vera vita in sospeso, in attesa di riprenderne possesso.

Il suo amico avvocato, Luca Giansanti, si era precipitato da Milano, e aveva fatto trasmettere tempestivamente al giudice l’istanza di libertà provvisoria, ma non gli lasciava molte speranze riguardo a una possibile immediata scarcerazione. Gli aveva spiegato che purtroppo c’erano a suo carico seri e concreti indizi di colpevolezza, il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga da parte sua nonché di ostacolo alle indagini e al recupero del quadro trafugato, la possibilità di collusione con terze persone sicuramente coinvolte nel reato. Federico reagiva con un senso di fastidio a questi dettagli tecnici e finiva col mandare al diavolo anche l’amico, soprattutto quando questi  insisteva nel chiedergli maggiori spiegazioni circa la strana presenza di una donna misteriosa, di cui non si conosceva il nome, che era scomparsa nel nulla e che Federico accusava del furto di fantomatici appunti. La storia che raccontava, insisteva il suo amico, era abbastanza incredibile e non faceva altro accrescere i sospetti nei suoi confronti. Ma lui che poteva farci se quella era la verità, ripeteva esasperato, anzi stava proprio agli inquirenti fare luce sul mistero, scovare quella maledetta truffatrice invece di accanirsi contro di lui.

Si rendeva conto di essere in una drammatica situazione ma era diventato inerte, si lasciava scivolare addosso gli avvenimenti senza reagire, quasi narcotizzato da un’aspettazione fatalistica. Si trattava certo di una forma di difesa: troppo forte era stato il trauma, troppo crudele la scoperta che la donna di cui era divenuto improvvisamente pazzo d’amore era una scaltra ladra, lo aveva avvicinato e fatto invaghire al solo scopo di derubarlo. E sicuramente la manovra era servita anche a preparare un clamoroso furto d’arte. Ma perché coinvolgere anche lui? Quale parte involontaria gli avevano fatto recitare?

Continuava a girare a vuoto intorno a questo interrogativo come una mosca prigioniera in una lampada.

E di notte, nel buio, l’abbagliante immagine di Irene era sempre là, proiettata sul muro come il fotogramma immobile di una pellicola spezzata, con il sorriso ipnotico, gli occhi blu invitanti come le acque di un abisso, il grande seno affiorante tra le onde sinuose dei capelli come le dune di un deserto accecante.

 

 

Aveva perso il conto del tempo: una settimana? due settimane? Che importanza poteva avere... era un uomo annientato, la sua carriera e la sua fama di studioso erano compromesse dal più odioso dei sospetti...

Sentì gli scatti della serratura che veniva aperta e si girò pigramente a guardare: l’avvocato Giansanti entrò con aria esultante, seguito da altre persone che non conosceva. Tutti lo guardavano con simpatia: ma che stava succedendo...

«Federico, sei libero! Avevi ragione tu, naturalmente: non c’entri niente col furto!»

Si alzò di scatto dalla branda e afferrò l’amico per le spalle.

«Luca! Cosa... cosa dici?!» balbettava come un bambino.

«Sì, hai capito bene, è tutto risolto. Il Procuratore della Repubblica è stato eccezionale, si è mosso con rapidità incredibile assecondato dal Comando dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale: hanno già ritrovato il quadro a Locarno, in Svizzera, e stanno dando la caccia ai responsabili.»

Federico ascoltava in preda a una fortissima emozione. Intervenne uno dei presenti, tendendogli la mano:

«Sono il direttore di questa casa di reclusione», disse con cordialità, «sono in attesa di ricevere l’ordine di scarcerazione. Nel frattempo lei può ritirare le sue cose.»

Il suo amico dovette occuparsi di tutto. Federico lo seguiva come un automa.

«Ho recuperato anche quello che avevi lasciato a Villa Ca’ Bellaria e l’ho messo nella tua  macchina, che ho già fatto portare qui nel parcheggio. Forse è meglio che torni a Milano con me: la macchina la recupererai in seguito.»

«Ti ringrazio, ma preferisco guidare. Mi sento bene, davvero. Me ne tornerò piano piano, così avrò il tempo di pensare e digerire questi avvenimenti. La concentrazione sulla guida e un bel CD mi aiuteranno.»

 

 

L’appartamento di Milano lo accolse silenziosamente, dandogli un senso di sicurezza e di recupero della sua dimensione abituale. Spalancò un paio di finestre, diede un’occhiata dall’alto al viale che il ridotto traffico estivo faceva sembrare più spazioso, sorrise a un paio di piante che avevano un disperato bisogno di acqua. E dare l’acqua alle piante fu la prima cosa che fece, piccolo gesto familiare che lo fece sentire ancora di più a suo agio. Appoggiò sul tavolo la posta che aveva ritirato in portineria e la pila di giornali arretrati che l’amico Luca gli aveva procurato: uno sguardo ai titoli gli diede un lieve senso di nausea. Nei primi giorni di quella ignobile vicenda aveva occupato le prime pagine dei giornali: la curiosità morbosa dei lettori era stata abbondantemente nutrita. Avevano scavato senza ritegno nella sua vita esibendolo come un losco personaggio, tutto quello che aveva fatto di buono, la stima di cui godeva, non erano altro che un comodo schermo per nascondere la sua vera natura. Chi era veramente Federico Bellanti? Naturalmente non potevano accusarlo apertamente, ma il solo sospetto era già una mezza colpevolezza.

Poi la storia si  era trasferita nelle pagine interne fin quasi a scomparire e, finalmente, era di nuovo rimbalzata in prima pagina: sui giornali di quello stesso giorno c’era una bella riproduzione a colori della Muta e i particolari del ritrovamento avevano un grande rilievo, così come gli elogi ai carabinieri. Un po’ più defilata la smilza colonnina che lo riabilitava, con una sintetica biografia che finalmente metteva in risalto il suo valore accademico e una vecchia foto che lo ritraeva più giovane.

Si rese conto improvvisamente che stava scorrendo gli articoli con avidità, non tanto per la curiosità di conoscere quello che avevano scritto di lui quanto per l’inconscia ricerca di un nome... ma quel nome non c’era, non c’era da nessuna parte. Si parlava negli ultimi giorni di una banda composta da tre uomini, il cui arresto era dato per imminente, ma non c’erano figure femminili nella vicenda, tanto meno si parlava di una misteriosa Irene. Irene... non aveva smesso un attimo di pensare a lei. Era evidente che non aveva a che fare col furto del quadro: la scomparsa dei suoi appunti e del suo computer erano stati solo un’incredibile coincidenza di tempi e di luoghi. Ma allora chi era Irene? Perché lo aveva derubato? Il risentimento, il dubbio, la storia d’amore duramente interrotta creavano dentro di lui un doloroso groviglio di sentimenti contrastanti.

Abbandonò i giornali e si mise a scartabellare distrattamente la posta, buttando direttamente da parte comunicazioni pubblicitarie, scocciatori, inviti a manifestazioni già scadute. Un tremito fulmineo nelle vene: una lettera spiccava tra le altre, color avorio, con l’indirizzo tracciato da una grafia inconfondibilmente femminile, ma svelta e sicura. Era senza francobollo... quindi era stata recapitata a mano... Si sedette lentamente sulla sua poltrona preferita continuando a fissare la lettera e la aprì con cura usando un tagliacarte.

 

 

“Ciao, Federico. Immagino come ti senti, dopo tutte le disavventure che ti sono capitate. Se vuoi puoi non crederci, ma anch’io mi sono sentita e mi sento tuttora molto male. Ti devo raccontare una storia che ti farà un po’ ridere un po’ arrabbiare, ridere della mia stupidità, arrabbiare per come questa stupidità abbia dato il via a una serie di eventi, tu sai bene quanto drammatici e dolorosi.

Ti ricordi di me? Ludovisi Irene... sì, Irene è il mio vero nome. Possibile che tu mi abbia dimenticato? Feci una scena isterica all’esame finale del biennio di Storia dell’arte: ti avevo detto che mi mancava solo quell’esame,  che avevo la tesi pronta, che avrei perso un anno e avrei dovuto ripagare le tasse... ma tu mi bocciasti lo stesso! Dicesti che non capivo niente di arte e che dovevo cambiare strada. Scoppiai a piangere e corsi via. Nei giorni seguenti e fino a quando non riuscii a laurearmi, seguendo il corso di una tua collega, continuai a pensare a come vendicarmi di una carogna come te... Feci di tutto per essere più sicura di me, più competente, eliminai gli occhiali, lasciai crescere i capelli, riuscii a trasformarmi in una donna che gli uomini guardavano con stima e ammirazione. Intanto seguivo da lontano le tue ricerche, stando ben attenta a non avere a che fare con te. Il mio proposito di vendetta non mi aveva abbandonato: ero cresciuta, avevo un lavoro che mi procurava grandi  soddisfazioni in una casa editrice specializzata in collane d’arte, ma quella vecchia fissazione non mi aveva abbandonata, era come una gemella cattiva che viveva dentro di me.”

Federico interruppe un attimo la lettura. Era sbalordito. Cercò invano di richiamare alla memoria quel vecchio episodio ma le immagini erano molto confuse: il viso di quella studentessa non combaciava affatto con l’Irene che lui aveva conosciuto. O forse... ma sì, il particolare degli occhi! Li aveva notati ma poi l’esito dell’esame aveva preso il sopravvento e non ci aveva più pensato. Riprese a leggere.

“Seguivo le tue ricerche e quando seppi che andavi a Urbino capii dove volevi andare a parare. Era la mia occasione: il  progetto era quello di spiarti, aspettare che tu avessi raccolto il materiale che ti serviva, rubartelo in qualche modo e pubblicare la tua scoperta a nome mio! Grazie alle mie conoscenze mi ero fatta lasciare alcune pagine di una rivista in preparazione: ti avrei battuto sul tempo!”

«No, non è possibile!» esclamò ad alta voce Federico. Strinse i fogli e continuò a leggere.

“Poi accaddero due cose: tu non eri la carogna che ricordavo, eri l’uomo che una donna immagina di incontrare. Anzi, nel giro di poche ore divenisti l’uomo che amavo...  Nello stesso momento in cui ti derubavo mi sentivo la più grande cretina di questo mondo. Avevo già rinunciato alla sciagurata idea della pubblicazione a tradimento e mi stavo già chiedendo come potevo rimediare quando una realtà ben più drammatica travolse la mia squallida messa in scena. Seguii come in un incubo le notizie del tuo arresto, della tua detenzione, piansi per tutto il fango che ti gettavano addosso, per tutto quello che stavi soffrendo e che si andava ad aggiungere alla sofferenza che io ti avevo procurato. Mi maledissi cento volte... ma non serviva a niente. Mi chiedevo come e se potevo aiutarti, se la mia testimonianza potesse servire, ma ero piena di dubbi: pensavo che  raccontare tutto sarebbe solo servito a peggiorare la situazione, non solo, ti avrebbe reso ridicolo. Poi finalmente la bella notizia mi tolse dall’angoscia.

Questa mattina ho consegnato questa lettera al portiere del tuo palazzo, ripetendogli un mucchio di volte che era importante, e ho portato il tuo computer e i tuoi preziosi appunti allo studio del tuo avvocato.

Questo è tutto.

Non so come prenderai questa storia. Sicuramente mi stai odiando, non posso darti torto. Ma ti prego di credere una cosa: a Urbino, a Ca’Bellaria, è stato amore vero. In ricordo di quei momenti prova a perdonarmi.

Un abbraccio. Irene.”

 

 

Il sole radente del mattino sprigionava riflessi iridescenti dalla superficie immobile della piscina. Villa Ca’ Bellaria era bella come non mai nella luce limpida riflessa dal verde intenso delle colline. Irene si tuffò con eleganza sprigionando uno spruzzo di cristalli luminescenti e percorse un tratto in immersione, muovendosi sinuosa e sicura come una splendida creatura marina. I lunghi capelli biondi la seguivano, ora raccogliendosi ora allungandosi all’indietro come la coda di una cometa.

Federico la spiava dalla finestra della sua stanza. Sapeva che l’avrebbe trovata lì, sapeva che la ragazza tornava spesso nella Villa, inseguendo dei ricordi difficili da scacciare. Ricordi che perseguitavano anche lui, che non lo avevano lasciato un attimo, anche quando aveva tenuto la conferenza sulla Muta di Raffaello, anche quando aveva assaporato la soddisfazione del successo, della stima ritrovata. Ma a quel successo mancava qualcosa, ed era lì per rimediare.

Guardò Irene riemergere dall’acqua: Dio, era ancora più bella di quanto la ricordasse. Uscì dalla stanza, scese le scale e si preparò ad incontrarla. Il problema maggiore era controllare il battito cardiaco, che gli risuonava nelle orecchie e nel petto come il gran finale di un concerto.

 

 

 

Avvertenza dell’autore

 

Il racconto mescola situazioni di pura fantasia con elementi reali.

Sono reali, ovviamente, Villa Ca’ Bellaria e Margherita, mentre sono inventati gli altri personaggi. C’è un breve accenno a una Sovrintendente per i beni culturali, che corrisponde al vero. E’ storico tutto ciò che riguarda Raffaello e i quadri di cui si parla, tranne l’ipotesi circa  il secondo ritratto sotto la Muta, un’ipotesi molto fantasiosa... (in realtà ci sono solo tracce di una precedente versione dell’immagine). La Muta fu veramente rubata il 6 febbraio 1975 e ritrovata a Locarno il 23 marzo del 1976.