Doppio nodo

La giudice Annalisa Borghi emerse faticosamente da un sonno pesante, fradicia di sudore, con un sibilo alle orecchie che la isolava dalla stanza buia e il pulsare caldo del sangue che le scuoteva il corpo. Alzò il capo dal cuscino, si guardò intorno, riconobbe il familiare riflesso dei lampioni che filtrava dalla finestra. Cosa diavolo l’aveva svegliata? Il capo le ricadde pesantemente, respirò a fondo. La parte bassa del ventre era in fiamme, ma non era una sensazione spiacevole, anzi era la più sconvolgente eccitazione erotica che avesse mai provato. Si alzò di scatto, mettendosi a sedere sul letto. Una breve risatina incredula le scosse le spalle: era ormai da tanti anni che la sua vita sessuale era stata messa a tacere, dopo un’infelice esperienza matrimoniale e dopo che gli impegni legati alla sua professione avevano preso il sopravvento, saturando ogni attimo della sua esistenza.

Lo strano turbamento non passava. Si alzò, accese la lampada sul comodino, fece qualche passo nella stanza che la lampada liberty rischiarava con una diffusa luce rosata. Cercò di esaminare con distacco le proprie sensazioni. Incredibile! La vagina calda e bagnata reclamava esplicitamente un rapporto sessuale! Ma c’era dell’altro... percepiva nettamente la presenza di un’estranea dentro di sé, una personalità determinata, sfrontata, invadente, che si sovrapponeva a lei, modellava su di lei le sue emozioni, confondendo ragione e sentimenti in un nodo inesplicabile. Si sforzò di essere concreta: sicuramente non riusciva a venir fuori da una situazione onirica, qualche fantasma era riemerso dal fondo dell’inconscio e vi sarebbe di nuovo sprofondato alle prime luci dell’alba.

Andò nel bagno, si sciacquò abbondantemente il viso con l’acqua fresca, ma lo sconvolgimento della sua mente e del suo corpo non accennava a diminuire.

«Ma cosa mi sta succedendo?» pensò ad alta voce, stupita e anche un po’ impaurita per quella eccitazione che non le dava pace e che non riusciva a dominare. Ma l’altra, dentro di lei, intessuta con lei, non aveva paura, anzi le trasmetteva forza, sicurezza. Non temere, va tutto bene, sono una donna... da troppo tempo vivo sacrificata... devo uscire, vedere degli uomini... Ma... siamo in piena notte! E allora? E’ proprio di notte che si fanno gli incontri migliori... Dio mio, cosa sto dicendo? Ma sì... usciamo, devo farmi bella!

Allucinata, forzata da se stessa, pescò in un cassetto della biancheria sexy che non indossava da secoli, infilò delle calze nere a rete, scelse un vestitino striminzito che aveva messo una sera da ragazza e che le lasciava scoperta gran parte delle cosce. Il seno esuberante, che umiliava ogni giorno nascondendolo sotto morbide giacche di linea maschile, schizzò fuori quasi fino alle areole rosa dei capezzoli. Si studiò un attimo allo specchio dell’armadio: era indecente, ma soddisfatta. Incredibile! Completò l’abbigliamento con un paio di stivaletti a punta e andò allo specchio del bagno per truccarsi. Sottolineò pesantemente i profondi occhi castani, nei quali brillava a tratti un bagliore di luce verdastra, coprì generosamente le labbra col rossetto più provocante che trovò, esaminò con occhio critico il risultato e questo le stirò all’insù gli angoli della bocca in un sorriso orgoglioso. Però… mica male la giudice Borghi… se l’avessero vista i suoi colleghi del Tribunale…

Tentò un’ultima resistenza prima di uscire ma il suo demone personale la trascinò fuori alla conquista del mondo sconosciuto della notte.

 

 

Le luci basse del bar e la cappa di fumo che vi aleggiava lasciavano solo intuire le pareti ricoperte di quadri e le scansie stracolme di bottiglie. Le note struggenti di un bandoneon drappeggiavano nel buio la malia di un tango.

Annalisa si arrampicò su uno sgabello davanti al banco: la manovra  spinse  ancora più in alto la gonna già di per sé corta e  i riflessi colorati dell’ambiente fecero improvvisamente risplendere la levigatezza della sua coscia. Se fosse stato giorno nessuno avrebbe avuto dubbi sul colore delle sue mutandine.

«Cosa beve signora?» chiese l’anziano barman dallo sguardo disilluso, degnandola appena di un breve guizzo di curiosità.

«Che caldo fa stasera… dammi un gin tonic con molto ghiaccio.»

Si guardò intorno quietamente, fissando gli uomini presenti ad uno ad uno, senza imbarazzo, con un sorrisetto impudente che non lasciava alcun dubbio sulle sue intenzioni. Sorseggiò piano la sua bevanda, leccandosi le labbra dopo ogni sorso, e continuando a esplorare la sala… possibile che nessuno la abbordasse… forse si era messa troppo in tiro: rischiava di scoraggiare eventuali aspiranti alla compagnia di una notte, forse pensavano che fosse merce troppo cara… Non sapevano invece quale colpo di fortuna era loro capitato: perché quella notte lei la dava gratis…

Il signore di mezza età, un po’ corpulento, che contribuiva a rendere irrespirabile l’aria con il suo mezzo sigaro e che non aveva smesso di fissarla da quando era entrata, si alzò e si issò faticosamente sullo sgabello vicino al suo.

«Non va bene bere da soli, mette tristezza», disse con una voce tutto sommato gradevole, guardandola con due occhi chiari e intelligenti.

«Allora mi faccia compagnia lei… stavo già pensando che non ci sono più gli uomini di una volta e che forse mi toccava tornarmene a casa da sola.»

L’uomo sorrise disegnando intorno agli occhi e alla bocca alcune rughe di espressione che gli diedero un’aria vissuta e cordiale.

«Dammene uno uguale» disse rivolto al cameriere, indicando con un cenno il bicchiere della donna.

Continuavano a studiarsi, lui con espressione indagatrice, lei sorniona, come un gatto che ha adocchiato la sua preda e sa che non gli sfuggirà.

«Lei non è di qui… non l’ho mai vista, se l’avessi vista me la ricorderei…»

«Già… non lo metto in dubbio… E’ vero, vivo da poco in questa città. Ed è la prima volta che esco ad esplorare i bar che tengono aperto fino a tardi.»

«E quando i bar chiudono… che cosa…»

«Me ne vado a letto», tagliò corto lei. Poi gli appoggiò una mano sulla coscia, accarezzandola lentamente, diede alla sua voce una tonalità bassa ed equivoca e aggiunse: «Possibilmente in buona compagnia…»

L’uomo per poco non si strozzò: il tocco di quella mano gli aveva fatto raddrizzare tutti i peli. Posò piano il bicchiere per non versarlo, fissò la sua improvvisata compagna e accennò un’imbarazzata carezza col dorso delle dita: non si aspettava una resa così incondizionata… Si alzò e si avvicinò alla cassa per pagare. Annalisa terminò con calma il suo bicchiere, scivolò giù dallo sgabello con la grazia sinuosa di una ballerina di lap dance e si avviò alla porta, aspettando che il suo accompagnatore gliela aprisse.

Il fresco silenzio di una notte profumata risvegliò per un attimo la coscienza della giudice Borghi, ma l’altra riprese subito il sopravvento, prese sottobraccio l’uomo e lo trascinò verso casa.

 

 

 

Il corridoio del vecchio tribunale si perdeva in una lunga prospettiva. La giudice Annalisa Borghi lo percorse quasi interamente per raggiungere il proprio ufficio, camminando a passi svelti e rigidi, con lo sguardo fisso davanti a sé.

Si sentiva avvampare ogni volta che incrociava qualcuno che la salutava: le sembrava che il suo imbarazzo, il suo senso di colpa, i brucianti ricordi della notte fossero perfettamente visibili dal di fuori.

Si chiuse rapidamente nella sua stanza come in un rifugio sicuro, si sedette alla scrivania e aprì un fascicolo a caso.

Dio mio, che esperienza sconvolgente! Le immagini dell’uomo nudo sotto di lei si accendevano nella sua mente senza preavviso, rivedeva il suo membro grosso e turgido, vedeva sé stessa afferrarlo e baciarlo come una vecchia baldracca…. Chiuse gli occhi e scosse violentemente la testa da un lato e dall’altro, tentando invano di spegnere quelle orrende proiezioni. Ma come era potuto accadere. Si era sempre ritenuta una donna molto equilibrata… Si costrinse ad esaminarsi con obiettività: era sana di mente, questo era sicuro, non solo, il comportamento della notte appena trascorsa non faceva parte della sua personalità, lei si conosceva molto bene. E allora?

Quello che più la tormentava era il limpido ricordo di quello spaventoso sdoppiamento, quella ingombrante presenza dentro di lei, che la plagiava, prendeva il sopravvento, le rubava il corpo per utilizzarlo a suo piacimento. E che grazie a dio al mattino era scomparsa, lasciandole solo uno sconcertante senso di angoscia.

Basta, doveva reagire… aveva un mucchio di lavoro da sbrigare… era sicuramente un fenomeno passeggero, dovuto probabilmente al sovraccarico di lavoro… In giornata avrebbe chiamato il suo medico, che tra l’altro era anche un amico con cui potersi confidare, e gli avrebbe chiesto consiglio.

 

 

 

Era inchiodata al materasso, con gli occhi sbarrati nel buio. Una goccia di sudore le scendeva lentamente dalla fronte lungo la tempia e dietro l’orecchio, come un insetto fastidioso che stesse esplorando il suo viso. Allungò una mano per premere il pulsante che illuminava il quadrante della sveglia: le due! Oh no… anche stanotte! No, non è possibile!

Avvertì il calore che le invadeva piacevolmente tutto il basso ventre e sorrise soddisfatta, suo malgrado: l’altra stava già prendendo il sopravvento. Si sentiva piena di energie e balzò dal letto. Si vestì in fretta e uscì nella strada deserta, con i sensi all’erta come un animale da preda notturno. Evitò due ubriachi che le indirizzarono qualche parola oscena con la voce impastata, girò alla larga da un gruppo di ragazzi sghignazzanti, poi lo vide. Il suo istinto animalesco le gridò dentro immediatamente che quello era il suo uomo: camminava lentamente sotto un porticato, come se stesse pensando, un movimento fluido e sicuro che non temeva la notte. La brace della sigaretta si accendeva a tratti e disegnava un arco nell’aria, subito seguito da una voluta chiara di fumo che aleggiava qualche secondo poi si disperdeva nel buio.

Cominciò a seguirlo. Il ticchettio dei tacchi risuonava sotto la volta del portico e lui si girò a guardarla incuriosito. Fece ancora qualche metro e si girò a guardarla di nuovo, si fermò perplesso e si lasciò raggiungere.

«Ma… sbaglio o lei mi sta seguendo?» disse con un sorriso beffardo.

«Pare proprio di sì…», disse lei ricambiando il sorriso.

«Il mondo va alla rovescia… dovrei essere io a seguirla… Accidenti! Adesso che la vedo da vicino mi accorgo che lei è proprio una gran bellezza…»

«E poi non ha visto quello che nascondo…»

«Mmhhh… ti piace giocare duro eh?»

«Duro… sì, è uno degli aggettivi che preferisco…»

Lui la fissò incredulo, con gli occhi che ridevano:

«Ah, ah! Ma guarda cosa mi capita stanotte: una bella donna, spiritosa e anche un po’ mignotta!»

«Già… solo un po’… solo nell’anima. Non lo faccio di mestiere, non pensare che  ti voglia adescare per soldi.»

«Ma… è incredibile! E io che stavo rimuginando sui miei problemi… invece è il mio giorno fortunato!»

Le passò un braccio intorno alla vita e la attirò a sé premendole il seno contro un torace forte:

«Dì un po’ bellezza, come prosegue questa bella storia?»

Lei rafforzò l’abbraccio stringendosi ancora di più a lui, posò la mano su uno dei suoi glutei e cominciò a massaggiarlo con un morbido movimento circolare, poi gli cercò l’orecchio, vi posò sopra un bacio umido e caldo e disse piano:

«Andiamo a casa mia… ho tante cose da farti vedere…»

 

 

 

«Allora Annalisa, che ti succede? Al telefono mi sei sembrata piuttosto tesa…»

Il dottor Paolo Silvestri fissò l’amica con aria preoccupata, ammiccando con gli occhi chiari e penetranti dietro le spesse lenti da miope. L’impeccabile camice bianco, i capelli brizzolati, le mani sensibili e ben curate lo qualificavano fin da una prima occhiata come il professionista abile e preparato che in effetti era.

«Devo raccontarti una storia incredibile, Paolo… non so neanche da dove incominciare…»

«Be’, comincia dall’inizio: è il modo più facile. Sai che per te posso essere come un confessore.»

Annalisa avvampò anche solo cominciando a raccogliere le idee. Poi si fece coraggio, fece ricorso alla sua pratica professionale e si impose di elencare i fatti con il massimo distacco. Il dottore la ascoltò pazientemente, senza interromperla, prendendo di tanto in tanto qualche appunto scritto, che continuò a studiare anche quando la donna ebbe terminato la sua storia e si arrestò, guardandolo con aria sconfortata.

«Beh… naturalmente non posso dirti niente di preciso. Dovrò farti fare delle analisi… Mi sembra strano che un periodo di forte pressione e un accumularsi di problemi possano aver causato questa reazione in una donna equilibrata come te.

Farei invece per prima cosa un dosaggio ormonale. E poi vediamo se gli esami di routine ci danno qualche indicazione da cui partire. Per pura completezza di indagine ti mando anche da uno psicologo che conosco: sta in un’altra città, quindi potrai contare sull’anonimato più sicuro.»

«D’accordo… però… c’era una cosa che volevo chiederti e che mi assilla. Quello che più mi ha sconvolto in tutta questa storia è stata la netta sensazione di una persona estranea dentro di me. Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre andavo in cerca di una spiegazione, che io sono una trapiantata di fegato e che… lo so che sto dicendo una sciocchezza, ma… è possibile che il mio donatore… o la mia donatrice possano in qualche modo…»

«No! Ti fermo subito, Annalisa!» intervenne il dottor Silvestri con decisione e alzando improvvisamente il tono di voce. «Non metterti in testa strane sciocchezze! Stai per dirmi qualcosa che non ha alcuna evidenza scientifica e che esiste solo nei thriller da quattro soldi. E’ proprio per questo, tra l’altro, che il donatore resta anonimo, per impedire che nel trapiantato insorgano problemi psicologici di accettazione o di rifiuto che potrebbero ostacolare il successo dell’intervento.

Come sai ho seguito personalmente la tua terapia medica post trapianto:  hai potuto usufruire dei più moderni farmaci antirigetto e non vi sono stati problemi di alcun genere. Dunque mettiti bene in testa che sei e sarai sempre una persona con una vita normale. Gli episodi che sei venuta a riferirmi oggi sono del tutto casuali e ne verremo a capo in pochi giorni, credimi.»

 

 

 

Annalisa era ormai al quinto appuntamento con l’estranea. Questa volta non si fece cogliere impreparata, a forza di pensare aveva capito come doveva comportarsi: doveva accettare lo sdoppiamento, mantenere la calma, mantenere il controllo della situazione, non lasciare che l’altra prendesse il sopravvento, studiarla e cercare di capire chi o cosa fosse.

Il suo amico dottore l’aveva convinta fino a un certo punto. Anche lei stava dalla parte della scienza, ma proprio per questo era aperta a qualsiasi ipotesi, credeva che la conoscenza non avesse limiti e che quello che oggi appariva pura fantasia potesse un giorno essere sperimentato e dimostrabile.

Appena sveglia, come sempre, nel cuore della notte, aveva cercato di ascoltare attentamente il suo corpo e le era sembrato quasi di sentire come una presenza viva i nuclei delle cellule estranee che le avevano trapiantato, sentiva fremere i cromosomi al loro interno, vedeva i minuscoli geni al lavoro, migliaia di piccoli infaticabili operai che costruivano la vita. E se qualcuno di loro fosse sfuggito al controllo? Se si fossero coalizzati per riprendere possesso della loro identità? Fantasie, solo fantasie... stava diventando pazza... Ed ecco a smentirla l’incontrollabile smania erotica che ormai conosceva bene, il calore che saliva dal suo sesso come una fiammata, una vampa che le avvolgeva il cervello e la faceva ammattire. Chi sei? Chi sei, maledetta? Per un attimo le sembrò di poterla controllare, vide una bocca sguaiata che rideva, un grosso seno nudo che sobbalzava, la sensazione di sdoppiamento era insopportabile... Dio mio... no! Accese la luce, balzò dal letto e si diresse allo specchio: era lei, si conosceva bene, ma aveva un’aria più sfrontata, quasi volgare, uno sguardo perfido. Sono io, pensò, sono sempre io... ma diversa... Fece un ultimo sforzo per pensare lucidamente: perché di notte? E’ chiaro, perché la ragione abbassa la guardia e la parte peggiore di me impone la sua supremazia... Devo sapere chi sei... oltre al fegato mi hai donato anche la tua libidine sfrenata, ora ho capito... Fu l’ultimo pensiero della sua parte ragionevole, poi le due personalità si ricomposero e anche nello specchio l’immagine divenne più accettabile: Annalisa si guardò con soddisfazione, il suo corpo era piacevole, voluttuoso, fremente di bramosia sessuale, si lanciò un ultimo sguardo lascivo e cominciò a vestirsi.

«E’ ora di mettersi in caccia!» disse ad alta voce. E rise forte, rovesciando la testa all’indietro e scuotendo i capelli come una criniera.

 

 

 

Le scaffalature dell’archivio, zeppe di fascicoli e cartelle su cui la polvere aveva depositato un lieve velo uniforme, si stendevano a perdita d’occhio.

La giudice Annalisa Borghi si muoveva disinvolta in un ambiente che trovava congeniale: indagini e ricerche erano la sua specialità. Le erano bastati solo un paio di giorni per esaminare i giornali delle edizioni immediatamente precedenti la data del suo intervento per rintracciare quella che, con ogni probabilità, era stata la sua donatrice.

Sapeva che i donatori sono generalmente persone che hanno avuto un ictus cerebrale o un trauma cranico, senza importanti lesioni al torace o agli organi addominali. Doveva quindi cercare qualcuno che avesse subito un’emorragia intracranica spontanea da ictus, un trauma cranico conseguente ad incidente stradale, una ferita da arma da fuoco alla testa.

Per controllare la documentazione degli ospedali ci sarebbe voluto un secolo, ma qualcosa le diceva che doveva concentrasi più che altro sulla stampa e in particolare la cronaca nera. E infatti aveva fatto centro. La notte immediatamente precedente quel lontano diciassette febbraio, il giorno in cui era stata convocata per il trapianto, un giorno che non avrebbe mai dimenticato, una giovane donna  dell’apparente età di circa trent’anni era stata trovata nel parcheggio di un’area di servizio con un buco di pallottola in mezzo agli occhi.

Esiste una legislazione molto attenta e severa a proposito delle donazioni per assicurare la morte cerebrale del cadavere. Questa viene valutata per almeno sei ore da una commissione medica, prima di dichiarare la morte cerebrale irreversibile dell’eventuale  donatore e quindi permettere il prelievo degli organi. L’altra condizione è l’espressa volontà del donatore: in questo caso il lato singolare della vicenda, vista la personalità della vittima, la morte violenta e gli indubbi collegamenti con ambienti della malavita,  era che la donna portava tra i documenti una dichiarazione scritta circa la propria volontà di donare gli organi, completa di dati anagrafici e firma.

La giudice Borghi, in lista d’attesa per due anni, era stata individuata come ricevente in base al gruppo sanguigno, aveva ricevuto la comunicazione della disponibilità di un organo compatibile per il trapianto e l’invito a recarsi il più prontamente possibile presso l’unità chirurgica che avrebbe eseguito l’operazione.

Scacciò con un gesto infastidito i ricordi. Ora doveva cercare di conoscere meglio la sua donatrice: la stampa aveva liquidato l’episodio in pochi giorni. La notizia, dopo l’inevitabile interesse destato in un primo momento dalle modalità del delitto e dalla circostanza dell’espianto di organi, era scivolata rapidamente nelle ultime pagine per poi scomparire del tutto. Un’unica foto del cadavere, abbastanza confusa e che non consentiva di farsi un’idea della fisionomia della donna, era apparsa sui giornali il primo giorno. In seguito era apparsa l’immagine altrettanto vaga del viso di una ragazza giovane, ripresa probabilmente dalla vecchia foto di un documento di identità. Le indagini non avevano dato alcun risultato e il caso era stato archiviato.

La donna era stata però coinvolta, tempo addietro, in un’altra indagine che la riguardava marginalmente ed era poi stata rilasciata per non luogo a procedere. Doveva per forza essere rimasta traccia di questo episodio nell’archivio e la giudice Borghi era ben decisa a completare la conoscenza della misteriosa donatrice.

Trovò finalmente il fascicolo che cercava, lo scartabellò incurante della polvere depositatasi negli anni, girò diversi fogli che non la interessavano e di colpo lei apparve.

«Eccoti qua!» disse ad alta voce prendendo in mano una foto.

Era un primo piano di buona qualità, scattato in chissà quale occasione, ma sicuramente molto più aggiornato dell’immagine apparsa sui giornali. Ciò che colpiva con immediatezza erano gli occhi, scuri, dilatati, dallo sguardo intenso e quasi esaltato. La bocca, grande e carnosa, accennava un sorriso provocante. Il viso, largo e senza finezza, era comunque incorniciato e ingentilito da una bella massa di capelli ondulati. Una donna dalla grande carica erotica, pericolosa per sé e per gli altri.

La giudice Borghi la studiò a lungo, sentendo lottare dentro di sé sentimenti contrastanti. La cosa più inquietante era che quell’immagine aveva per lei un’aria familiare…

Cercò di carpirle i suoi segreti semplicemente fissandola. Chi sei veramente? Perché ti hanno ammazzato in quel modo freddo e brutale? Come mai una donna come te si era preoccupata di farsi trovare addosso un documento così civile come la dichiarazione di voler donare gli organi? Cosa… cosa ci fai dentro di me? Perché hai quella irrefrenabile voglia di farti sbattere da tutti i maschi che incontri? Quel corpo che regali senza ritegno è il mio, è il mio! Lo vuoi capire!

 

 

 

“Il giudice per le udienze preliminari, Annalisa Borghi, ha convalidato l'arresto di Thomas Cantoni, il professore quarantenne che la sera di domenica scorsa ha brutalmente stuprato una quindicenne nel parco di viale Tamigi, alla periferia della città. L'udienza di convalida dell'arresto si e' tenuta ieri mattina all'interno dell'ospedale Santa Cecilia, dove l'uomo e' ricoverato per le ferite che secondo l'accusa si sarebbe autoinferto al fine di sviare le indagini.
  All'interrogatorio hanno preso parte il pm Francesco Pisani e gli avvocati difensori Marco Militello e Christian Raineri. L'uomo ha riposto alle domande del giudice ricostruendo i suoi movimenti nella serata in questione e la dinamica dello stupro, non ammettendo però le proprie responsabilità ma affermando di essere stato vittima di uno sdoppiamento di persona: in pratica l’azione delittuosa sarebbe stata commessa da una specie di alter ego che avrebbe agito mentre il suo vero essere si trovava in una specie di trance. Ovviamente la versione non è stata ritenuta attendibile dal magistrato, che ha disposto una stretta sorveglianza dell’imputato e la custodia cautelare in carcere al termine della degenza ospedaliera.”

La giudice Borghi posò il giornale e lo ripiegò pensierosa. Il caso non appariva particolarmente problematico, anzi avevano messo le mani su uno di quei maledetti stupratori e lo avevano assicurato alla giustizia: l’uomo non sarebbe uscito tanto presto di galera e non avrebbe fatto più danni. Però alcuni aspetti della vicenda la lasciavano perplessa. Innanzitutto il colpevole: il Thomas Cantoni, uomo di cultura, molto stimato nell’ambiente universitario, autore di numerosi saggi e ricerche sulla fisica delle particelle. Aveva avuto modo di osservarlo bene durante l’interrogatorio: una persona dai modi gentili e raffinati, dotato di un certo fascino, con quegli occhi chiari ed espressivi, che teneva bassi per la vergogna, e i folti capelli indocili che coprivano un lato della fronte, schiariti qua e là da parecchi fili bianchi. La postura era abbattuta, quasi annientata, in contrasto con le spalle robuste che emergevano dalle lenzuola candide del letto d’ospedale: sembrava che l’uomo fosse oppresso da un dolore insopportabile. Un’immagine insomma che non quadrava con quella del violento aggressore di una ragazza. E poi c’era la ferita, una pugnalata al ventre che per fortuna non aveva procurato lesioni importanti ad organi vitali. Secondo il parere del pm, il professor Cantoni si sarebbe procurato la ferita per gettare i sospetti dello stupro su un terzo attore presente sulla scena del delitto, un ipotetico esecutore dello stupro che si sarebbe poi dileguato. Accortosi che questa menzogna non reggeva il professore l’avrebbe poi abbandonata per ripiegare sulla favola dello sdoppiamento. Ed ecco l’altro aspetto che aveva colpito la giudice Borghi: l’uomo assicurava di avere sempre avuto una vita moralmente irreprensibile, aveva avuto alcune relazioni del tutto normali con colleghe dell’università, relazioni conclusesi senza traumi da ambo le parti. Ma recentemente era perseguitato, così almeno sosteneva, da istinti bestiali, che riusciva a stento a controllare, come se un estraneo dentro di lui, anzi sostituendosi a lui, lo spingesse a comportamenti che lui detestava. Questa orribile persecuzione era sfociata nello stupro e lui non aveva avuto la forza di opporsi. A questo punto della deposizione, la giudice Borghi si era sentita mancare: le parole del professor Cantoni erano risuonate nel suo cervello come profondi e insopportabili rintocchi di una campana mortuaria. Impossibile non riconoscersi in quelle parole, non rivedere in un flash esplosivo le sue scorribande notturne. Aveva dovuto far violenza a se stessa, cacciare le unghie nel palmo della mano per non lasciar trapelare le sue emozioni. Poi il colpo di grazia finale che l’aveva lasciata esausta: il professore aveva precisato che questi sdoppiamenti avvenivano solo di notte. Esattamente come accadeva a lei!

Bussarono con discrezione alla porta.

«Sì, avanti!»

Entrò uno degli uscieri, con in mano un fascicolo.

«Buon giorno, giudice. Un agente della polizia giudiziaria ha portato questo fascicolo per lei da parte del Commissario Zanardi. Ha detto che si tratta di quel supplemento di indagine che lei ha chiesto per il caso Cantoni.»

La giudice Borghi aprì subito con ansia febbrile il fascicolo, rivolgendo un silenzioso cenno di ringraziamento all’usciere. Sfogliò rapidamente alcuni fogli che degnò appena di un occhiata e si soffermò infine su una carta che strinse fino a stropicciarla: le si dilatarono gli occhi e le parole si sovrapposero. Dio mio, no! I suoi sospetti trovavano conferma, una crudele, spaventosa conferma: Thomas Cantoni aveva subito un trapianto d’organo! All’incirca nello stesso periodo in cui a lei avevano sostituito il fegato, al professore, un diabetico insulino-dipendente, avevano fatto un impianto simultaneo di rene e pancreas.

Il commissario Zanardi annotava diligentemente che, in Italia, l'esperienza del trapianto pancreatico era iniziata al San Raffaele di Milano nel 1985, dopo un periodo di alcuni anni di collaborazione con l'Hopital Herriot di Lione, e che da allora erano stati eseguiti numerosi trapianti simultanei di rene e pancreas, con dati di sopravvivenza molto soddisfacenti.

La giudice Borghi si alzò dalla scrivania e cominciò a camminare per la stanza in preda a una sgradevole ansia. Dunque era così, ormai aveva capito come funzionava. Inutile che il suo amico medico la tranquillizzasse: si sbagliava, eccome! Lei certo non poteva sapere cosa o come accadesse: della biologia e fisiologia del corpo umano aveva solo qualche lontano ricordo risalente ai tempi del liceo, ma qualcosa succedeva! A livello molecolare qualcosa restava della persona a cui gli organi erano appartenuti e col trascorrere del tempo, lentamente, queste ombre del passato riprendevano vigore, reclamavano la loro parte di vita, uscivano dal grumo di cellule entro cui erano confinate e dilagavano nell’intero corpo, prendendo possesso della sua parte più nobile, la mente, quando questa, durante il sonno, allentava la guardia.

E ora sapeva di non essere sola: il professor Cantoni era come lei, era una conferma.

Non solo: ora lei sapeva anche che lo stupratore non era lui, che avrebbero condannato un innocente!

Doveva assolutamente parlargli.

 

 

 

«Buona sera, giudice...» L’agente di guardia alla camera del professor Cantoni si alzò prontamente dalla sedia, imbarazzato e confuso per essere stato colto in una posizione un po’ troppo rilassata.

«Buona sera. Come sta il nostro sorvegliato? Tutto regolare?»

«Sì. Nessun problema. Solo il normale va e vieni delle infermiere.»

«Senta... ho bisogno di rivolgere qualche domanda supplementare all’imputato... Mi rendo conto che è una procedura un po’ insolita... ma vorrei parlargli senza i suoi avvocati tra i piedi... Posso contare sulla sua discrezione?»

«Ma certo...» rispose l’agente, nascondendo la sua perplessità. «Mi avevano detto che lei è molto scrupolosa e... vedo che la fama è meritata. Ha bisogno di assistenza?»

«Ma... no: posso fare da sola. Lei resti qui di guardia e mi avverta solo se arriva qualcuno. E... grazie per i complimenti.»

 

 

 

 

Una fioca luce notturna rischiarava appena la stanza. Dietro l’ampio finestrone che occupava tutta la parete gli ultimi chiarori del tramonto lasciavano rapidamente spazio alla sera. Lontano, oltre la cortina scura delle siepi e degli alberi di un vasto parco, la città si stava punteggiando di luci.

«Buona sera… mi scuso per l’intrusione e per l’orario… »

«Giudice Borghi… a cosa devo questa visita?»

La situazione era alquanto bizzarra: formule di cortesia tra un temibile criminale e una rappresentante della legge, lui disorientato, lei turbata, quasi intimidita.

«Volevo… farle ancora qualche domanda. Lei sa che può rifiutarsi e chiedere la presenza del suo avvocato… ma avrei piacere di parlarle da sola. Lei accetta?»

«Cosa vuole che m’importi?» L’uomo disteso sul letto scosse la testa in un gesto sconsolato. «Aspetti, accendo la luce, non ci si vede più niente.» Allungò una mano e accese un neon centrale sul soffitto che inondò e la stanza di una luce forte e fredda.

Strinse un attimo gli occhi per adattarli poi fissò incuriosito la sua inattesa visitatrice.

«E’ molto imbarazzante per me» disse la giudice. «Non so nemmeno da dove cominciare. Vorrei che lei cercasse di non vedere in me la figura istituzionale, sono qui… diciamo a titolo personale… C’è qualcosa nella sua deposizione che mi ha profondamente impressionato e vorrei saperne qualcosa di più.»

Tacque imbarazzata, fissandolo per studiare le sue reazioni. Ma lui restava in attesa, guardandola a sua volta con quel suoi occhi acuti da scienziato, appena appannati dalle recenti vicende.

Lo sguardo di lei scivolò sul corpo immobilizzato, fermandosi sulla fasciatura che avvolgeva i fianchi e sbucava da sotto il lenzuolo.

«Perché si è ferito?» chiese sommessamente.

«Ho già tentato di spiegarlo, ma non mi avete creduto…»

«Provi di nuovo. Penso che questa volta le crederò.»

L’uomo esitò un attimo, poi il suo sguardo si perse lontano e cominciò a raccontare.

«Quella sera, quando sono tornato a casa, dopo aver… violentato quella povera ragazza, ero disperato, l’angoscia mi opprimeva fin quasi a strangolarmi. Odiavo con tutta la mia rabbia quell’essere immondo che era dentro di me, lo odiavo fino al punto di volerlo sopprimere, anche a costo di sopprimere me stesso. Mi sarei sacrificato volentieri pur di togliere quel delinquente dalla faccia della terra. Ma non sono molto bravo: presi dalla cucina il primo coltello che trovai e mi diedi un colpo maldestro che non provocò gravi danni, se non un forte sanguinamento che mi fece perdere conoscenza. Forse sarei riuscito a farla finita comunque, ma i poliziotti mi trovarono poco tempo dopo, messi sulle mie tracce dalla ragazza stessa, che, ovviamente mi aveva riconosciuto: anno scorso le avevo dato delle ripetizioni di matematica e fisica.

Sì… l’avevo trovata graziosa… ma non avrei mai pensato di farle del male, di saltarle addosso come una bestia eccitata… Poi… lui… ha cominciato a perseguitarmi…»

«Chi è questo “lui” che torna sempre fuori nei suoi discorsi come fosse una persona reale. Mi racconti con ordine.» Annalisa Borghi si era seduta accanto al letto, tesa, osservando fissamente il professore come in attesa di qualche rivelazione importante.

«E’ cominciato tutto circa un mese fa. Mi sono svegliato di soprassalto, una notte, avvertivo nettamente dentro di me la presenza di un estraneo, una personalità giovane, vigorosa, con un unico pensiero fisso: le donne. Nella mia mente cominciarono ad affollarsi e a sovrapporsi nitide immagini di donne nude, in pose lascive, enormi tette, culi, cosce allargate con grandi bocche pelose che mi chiamavano… Mi spinse ad uscire. Le prime volte andammo in cerca di prostitute e per un po’ questo risolse il problema. Poi i miei ricordi si confusero coi suoi. Mi tornarono in mente donne che avevo conosciuto e a cui, per convenzione sociale, avevo portato il massimo rispetto, tutt’al più qualche complimento, qualche galanteria. Ma ora sentivo la necessità di andarle a cercare, dovevo per forza possederle… L’ultima è stata la studentessa che… ma… cosa le succede? Si sente bene?»

Il professor Cantoni guardò, improvvisamente allarmato, la giudice Borghi: la donna aveva un tremito in tutto il corpo, aveva afferrato con una mano un capo del lenzuolo e lo stringeva forte, sbiancando le nocche, mentre i suoi occhi assumevano una fissità allucinata.

«No… no…non è niente… poi capirà… Devo farle un’ultima domanda, una domanda importante.» Deglutì vistosamente e sembrò fare uno sforzo enorme per dominarsi.

«Lei è uno scienziato. E’ abituato a porsi dei problemi, a cercare delle risposte… si è chiesto se il trapianto che ha subito può avere un qualche legame con questo suo disturbo?»

«Ma… come ha saputo….»

«Mi risponda!»

«Sì, certo. Questo pensiero mi ha tormentato fin dal primo momento. Ma è un’assurdità. Io non posso accettare…»

«Lasci perdere i ragionamenti! E mi stia a sentire: io sono come lei!»

«Cosa sta dicendo…»

«Ha capito bene. Sono anch’io una trapiantata. E di notte mi sdoppio: divento una baldracca peggio del suo stupratore!» La giudice si alzò, afferrò il professore per le mani e gliele strinse forte. «Senta, noi ci dobbiamo aiutare. Io devo farla uscire di qui, a tutti i costi. Adesso però me ne devo andare: l’agente di guardia alla porta si starà chiedendo cosa succede. Lei si rimetta in forze e abbia fede in me.»

L’uomo la guardò allontanarsi in fretta e per qualche minuto restò a fissare la porta che si era chiusa alle sue spalle. Era frastornato: un groviglio di pensieri si contorceva nella sua mente. Com’era possibile che si fosse verificata quella strana congiuntura di eventi drammatici, coincidenze, persone vittime di casi inverosimili. Chiuse gli occhi.

Però, che donna! Bella, intelligente, volitiva… e aveva promesso di tirarlo fuori da quella situazione. Non restava che aspettare.

 

 

 

La sua gemella cattiva si fece viva puntualmente anche quella notte. Annalisa Borghi l’aspettava rassegnata. Ma quella volta la sua smania erotica era dominata, inaspettatamente i loro pensieri convergevano. Appena sveglia le si delineò subito nella mente l’immagine di Thomas Cantoni, il tipo di uomo che le era sempre piaciuto: l’aspetto signorile del gentiluomo d’altri tempi, il viso affilato e virile, lo sguardo intenso di chi chiede continuamente al mondo di svelare i suoi misteri. Ma certamente, non solo un intellettuale… le braccia muscolose, adagiate senza forze sul letto, lasciavano intendere qualcos’altro. Annalisa, e il suo doppio, immaginarono per un attimo di essere strette da quelle braccia in un amplesso amoroso. Certo sarebbero stati una bella coppia: distinti e irreprensibili di giorno, amanti sfrenati durante la notte. Ma ora non c’era tempo per queste cose… bisognava far uscire l’uomo dall’ospedale, fare in modo che sfuggisse alla morsa della legge, che, in questo caso, tutto avrebbe fatto fuorché giustizia.

Si arrovellò per gran parte della notte. Spuntavano le prime luci dell’alba quando la giudice si addormentò sorridendo: forse aveva trovato la soluzione.

 

 

 

Passò gran parte della giornata all’interno dell’ospedale, in orario di ricevimento, mescolandosi alla folla dei visitatori per non dare nell’occhio. Studiò gli orari delle infermiere, i cambi di turno, finse di perdersi per esplorare il labirinto dei corridoi, scese nel seminterrato con l’ascensore riservato al personale, seguì i percorsi e le abitudini delle donne addette alle pulizie. Nel tardo pomeriggio aveva messo a punto un piano e individuato la persona che poteva aiutarla: una bella donna con la corporatura simile alla sua, dal viso rassegnato ma furbo, forse una moldava o un’ucraina. Portava un camice azzurro, una cuffia che le raccoglieva i capelli biondi e spingeva un voluminoso carrello attrezzato per le pulizie. L’aspettò al termine del suo turno e la interpellò senza troppi preamboli: non aveva molto tempo.

«Buona sera. Mi scusi se la affronto così maleducatamente… ma ho bisogno del suo aiuto.»

«Mio aiuto? Dica…» la donna era perplessa, ma la giudice Borghi contava molto sulla concretezza di queste donne provenienti dall’est, sulla loro disponibilità quando si trattava di guadagnare un po’ di soldi.

«Vuole guadagnare duecento euro in fretta e con poca fatica?»

Gli occhi della donna si fecero attenti, ma velati da una lieve ombra di spavento.

«Scusi, io non faccio niente vietato. Io paura di perdere posto.»

«No, no, non si preoccupi. Lei non rischia niente. Sono io che rischio…»

«Cosa vuole?»

«Voglio solo che lei mi ceda il suo carrello e la sua divisa. Poi li abbandonerò qua di sotto, vicino all’uscita del seminterrato. Se qualcuno se ne accorge potrà sempre dire che glieli hanno rubati.»

«Ma… è pericoloso… se vede caposala… Cosa deve fare?»

«Questo non posso dirglielo. E non si preoccupi della caposala, cercherò di non farmi vedere.» Estrasse due banconote dalla borsetta e le mostrò alla donna per invogliarla. «Allora, li vuole questi soldi o no?»

La donna esitò un attimo, poi afferrò le banconote e le fece scomparire sotto il camice. Poi cominciò a spogliarsi: consegnò la divisa alla giudice Borghi e si allontanò rapidamente. Aprì una porta chiusa a chiave, probabilmente lo spogliatoio delle inservienti, e scomparve senza girarsi.

Annalisa, si cambiò rapidamente. Abbandonò le sue cose in un angolo seminascosto, su una vecchia sedia: le avrebbe recuperate in seguito. Indossò il camice, le ciabatte, fermò i folti capelli scuri con delle forcine e li fece scomparire sotto la cuffia. Indossò un vecchio paio di occhiali da vista fuori moda, che aveva estratto dalla borsetta e che le alterarono un po’ la fisionomia, si costrinse a una postura leggermente curva, stanca, e cominciò a spingere il carrello verso l’ascensore con un’andatura un po’ claudicante: la giudice Borghi non esisteva più.

Lungo il percorso trovò dei grossi bidoni per la spazzatura e vi svuotò il sacco nero posizionato sul carrello: il sacco era piuttosto grande e poteva contenere abbastanza comodamente una persona che vi si fosse accovacciata e rannicchiata dentro. L’idea era proprio questa, semplice e audace, e le era venuta durante la notte, quando, tra le tante possibilità esaminate e scartate, aveva visualizzato il carrello. Era una struttura robusta, con quattro ruote, divisa in due parti: una anteriore, che conteneva un secchio quadrato, una scopa, uno spazzolone, stracci e detersivi, una posteriore, con un grosso cilindro di metallo traforato che conteneva il sacco di robusta plastica nera.

Questo era il piano, che richiedeva rapidità, tempismo e molta fortuna: Annalisa avrebbe finto di essere una delle addette alla pulizia che si era attardata e sarebbe entrata nella camera accanto a quella del professor Cantoni, per non far insospettire l’agente di guardia. Le camere, pur avendo ingressi indipendenti, erano comunicanti, due a due, tramite un unico bagno, cui si poteva accedere da ciascuna stanza tramite una piccola anticamera. Annalisa avrebbe potuto quindi entrare dal professore passando dal bagno, aiutarlo a indossare qualche indumento, farlo entrare nel sacco e uscire sempre dalla stanza accanto. In teoria la guardia non avrebbe avuto niente da ridire. Pochi secondi per arrivare all’ascensore e alla libertà.

 

 

 

La donna delle pulizie avanzava lungo il corridoio, ispezionandolo attentamente, come se avesse paura di aver tralasciato di pulire qualche angolo. Ogni tanto prendeva uno straccio bagnato e si chinava per un ultimo colpo al pavimento di linoleum che comunque appariva già pulitissimo. Trascinava quasi zoppicando il pesante carrello, evidentemente stanca per una lunga giornata di lavoro. Probabilmente stava facendo una specie di controllo, visto che una sua collega era già passata prima.

L’agente di guardia alla porta del professor Cantoni la degnò appena di uno sguardo, era una donna matura e sciatta, senza alcuna attrattiva, e poi anche lui era snervato per il lungo turno di guardia che fortunatamente stava per terminare.

La donna aprì la porta della stanza accanto ed entrò. Ne uscì subito dopo, afferrò la maniglia del carrello e lo spinse dentro. Forse aveva visto che la stanza non era pulita alla perfezione.

L’agente cambiò posizione sulla scomoda sedia e si mise a sonnecchiare.

 

 

 

Annalisa sentiva il sangue rimescolarsi. Era affacciata dalle porte dell’ascensore col cuore in tumulto, guardando da un lato e dall’altro per accertarsi che non fosse in vista qualcuno del personale. Poi aveva spinto fuori il carrello ed era andata con decisione verso l’agente, che fortunatamente non era lo stesso che l’aveva fatta entrare il giorno prima. Sembrava abbastanza disinteressato a lei e quindi era riuscita ad entrare con il suo carrello, senza problemi, nella stanza confinante con quella di Cantoni.

Ora doveva fare in fretta. Entrò come una furia dal professore e lo scosse.

«Professore! Thomas! Sono io… dobbiamo fare in fretta!» disse con voce bassa ma pressante. L’uomo aprì gli occhi e dopo un attimo di incertezza il suo sguardo si illuminò. Annalisa lo scoprì e cominciò a tirarlo giù dal letto.

«Presto, presto! Abbiamo pochi secondi, poi la guardia si insospettirà!»

Gli infilò le ciabatte e lo sorresse. Cantoni era abbastanza stabile, cominciò a collaborare, assecondando la giudice che lo trascinava verso la porta di comunicazione.

«Ce la fa ad entrare qui dentro?» gli disse indicando il sacco della spazzatura e implorandolo con lo sguardo.

«Incredibile!» disse Cantoni tra sé, scuotendo la testa e lanciando un’occhiata di ammirazione ad Annalisa. Poi alzò agilmente una gamba e la infilò nel cestello che reggeva il sacco, quindi vi si appoggiò con entrambe le mani e  si calò dentro, lasciandosi sfuggire un debole grugnito di dolore: la ferita evidentemente aveva protestato.

La giudice Borghi lo spinse senza complimenti verso il basso e gli gettò sul capo un paio di stracci. Aprì quindi la porta della stanza accanto e diede una rapida occhiata al corridoio: nessuno in vista. La guardia continuava a sonnecchiare. Spinse fuori il carrello e si diresse all’ascensore, trattenendo a stento la voglia di correre.

Finora tutto bene, pensò, ma era presto per cantare vittoria.

Uscì nel seminterrato, aiutò Cantoni a uscire dal suo scomodo nascondiglio, si sbarazzò del camice e delle ciabatte, recuperò la sua roba sulla sedia, prese l’uomo per mano  e si incamminò verso l’uscita di servizio, che, come aveva constatato durante le sue esplorazioni del mattino, dava direttamente nel parcheggio.

Il professore la seguiva passivamente, instabile sulle gambe, dolorante, ma senza protestare.

«E i miei vestiti?» chiese ad un tratto.

«Non c’era tempo. Ne compreremo di nuovi. Oppure mi introdurrò nel suo appartamento, anche se è sigillato, e le procurerò qualcosa da mettere.»

Raggiunsero la macchina della giudice e lei lo fece entrare, sempre guardandosi ansiosamente intorno.

Passarono davanti alla guardiola sotto lo sguardo distratto di una custode, che azionò la sbarra senza problemi. E sicuramente senza vedere chi era, poiché nel frattempo si era fatto buio.

 

 

 

«Non immaginavo che lei fosse anche una buona cuoca…»

«Questo lei suona un po’ stonato dopo quello che ho fatto per te, non credi!?»

«Hai ragione… scusami. Ma come puoi comprendere sono ancora parecchio frastornato. Ancora non riesco a capacitarmi di questo improvviso capovolgimento della mia situazione. Che tu faccia tutto questo per me ha dell’incredibile…»

Erano entrati nell’appartamento della giudice Borghi con mille precauzioni. Lei lo aveva aiutato a lavarsi, gli aveva cambiato la fasciatura intorno al torace perché gli sforzi compiuti durante la fuga avevano evidentemente riaperto la ferita appena rimarginata, gli aveva procurato un pigiama pulito del suo ex marito ripescato in fondo a un cassetto. Poi si era messa ai fornelli e aveva improvvisato una cena veloce ma appetitosa.

Ora erano seduti a tavola, rilassati, conversando come se nulla fosse accaduto. Lui la fissava in preda a sentimenti contrastanti, riconoscente, dubbioso, in attesa che lei confermasse a parole quello che lui intuiva ma che non osava pensare.

Annalisa prese il bicchiere di vino che aveva vuotato a metà, lo girò tra le dita osservando il movimento e il riflesso del liquido rosso rubino, come una maga che cerca di leggere in una sfera un futuro difficile da decifrare.

«Anche per me è tutto molto difficile da accettare. Ma, vedi, nel mio lavoro sono spesso costretta a prendere decisioni, decisioni che a volte cambiano la vita di qualcuno. E’ una responsabilità pesante, ma ci si fa l’abitudine. Questa volta la vita che cambia è la mia. E anche la tua. In questi ultimi giorni sono accadute delle cose terribili. Ho dovuto far ricorso a tutte le mie forze, al mio equilibrio… ma a volte ti assicuro che ho sentito la mia mente vacillare, il mondo mi girava intorno come se avessi le vertigini…»

«Nessuno più di me ti può capire» disse il professor Cantoni sommessamente, come parlando a se stesso.

«Credevo di impazzire… poi sei arrivato tu. Gli avvenimenti hanno subito un’accelerazione impressionante. Ho capito di non essere sola, innanzitutto, di essere parte di una sconvolgente realtà scientifica, un dramma che toccava a me, come un’infezione, un’anomalia incurabile. Ma nello stesso tempo tu eri la soluzione: io e te alleati possiamo ignorare questo dramma, annullarlo, imparare a conviverci,»

Parlando si era infervorata. I capelli le si erano mossi intorno al viso animato, gli occhi scuri splendevano come una luce nella notte. Cantoni la trovò bellissima.

«Non so se ho capito bene» disse con aria incerta. «Non oso neanche crederci… la cosa mi sembra troppo bella. Tu vuoi dire che noi potremmo …vivere insieme? Un’apparenza rispettabile durante il giorno e, di notte, quando le nostre nature perverse si scatenano, annullarle mettendole l’una contro l’altra?»

«Hai capito benissimo. Modestamente mi sembra un colpo di genio. Una donna assatanata, affamata di sesso, che non ha bisogno di uscire di casa per soddisfare le proprie voglie perverse: vive a fianco di un potenziale stupratore, un uomo dall’appetito sessuale insaziabile. Ognuno di loro avrebbe a portata di mano una soluzione comoda, senza rischi, perfetta.»

Annalisa allungò una mano sul tavolo e prese quella del professore, la strinse con dolcezza, guardò l’uomo intensamente.

«C’è qualcos’altro…» aggiunse con voce calda e sommessa. «Alla donna quell’uomo piace molto, penso che si potrebbe innamorare perdutamente di lui…»

Thomas Cantoni ricambiò lo sguardo, inutile replicare che anche lui era soggiogato, si vedeva benissimo. Ma qualcosa, nel ragionamento, non lo convinceva.

«D’accordo, tutto quello che hai detto è semplicemente straordinario. Non potrei desiderare di meglio nella vita. Una donna come te è un dono magnifico, non ci sono parole per esprimerlo… Ma, come faremo? Mi cercheranno dappertutto… tu hai il tuo lavoro…»

«Ci ho pensato a lungo. Dobbiamo scomparire, individuare un paese dove possiamo farci una nuova vita. Io potrei fare l’avvocata, tu l’insegnante o il ricercatore…. Abbiamo tutto il tempo di studiare i dettagli. La cosa non mi spaventa, sono fiduciosa, e tu?»

 

 

 

I professor Cantoni spalancò gli occhi di colpo. Ci mise un attimo a riconoscere l’accogliente stanza degli ospiti della giudice Borghi e a rendersi conto della sua condizione. Capì anche, con imbarazzo e apprensione, cosa lo aveva svegliato: l’altro si stava facendo vivo, sentiva una smania ben nota percorrergli il corpo, una vigorosa e inarrestabile erezione premeva contro il lenzuolo. Cercò di lottare, pensò alla ferita appena rimarginata, pensò alla donna meravigliosa che lo stava aiutando, non poteva lasciarsi sopraffare così… ma l’altro lo pressava, gli gridava dentro come un demone in gabbia, reclamava una donna, proiettava nel buio mille immagini che si mescolavano e si dissolvevano, nudi colorati e osceni, donne dalle bocche grandi contorte in un riso sguaiato, donne che gli salivano sopra e lo cavalcavano facendo sobbalzare enormi mammelle… Doveva alzarsi, uscire, andare a sfogare altrove la sua indecente frenesia. Poi una porta che si apriva, una lama di luce che entrava nella stanza, lo distrassero per un attimo.

Lei era là, stagliata nel vano luminoso della porta, un nudo abbagliante e voluttuoso. Teneva  un braccio appoggiato allo stipite e l’altra mano adagiata in una immobile carezza sulla peluria del pube. Riccioli neri sbucavano tra le dita leggermente aperte.

Thomas ebbe appena il tempo di realizzare che la donna efficiente, la giudice severa, aveva fattezze incredibilmente sensuali, posò lo sguardo famelico su due seni gonfi e puntati verso di lui come animali da preda, spostò la sua attenzione sul viso di lei: l’anima licenziosa di chi ne aveva usurpato il corpo si affacciava all’esterno con un sorriso impudico, due occhi dilatati dalla concupiscenza, il colore caldo della bramosia.

Annalisa superò con passi rapidi i pochi metri che li separavano, strappò il lenzuolo dal letto facendolo volare lontano, si sdraiò accanto a lui avviluppandolo in un abbraccio voglioso, con le braccia e con le gambe, come un rigoglioso rampicante.

Sprofondarono insieme nel loro inferno personale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 La giudice Annalisa Borghi emerse faticosamente da un sonno pesante, fradicia di sudore, con un sibilo alle orecchie che la isolava dalla stanza buia e il pulsare caldo del sangue che le scuoteva il corpo. Alzò il capo dal cuscino, si guardò intorno, riconobbe il familiare riflesso dei lampioni che filtrava dalla finestra. Cosa diavolo l’aveva svegliata? Il capo le ricadde pesantemente, respirò a fondo. La parte bassa del ventre era in fiamme, ma non era una sensazione spiacevole, anzi era la più sconvolgente eccitazione erotica che avesse mai provato. Si alzò di scatto, mettendosi a sedere sul letto. Una breve risatina incredula le scosse le spalle: era ormai da tanti anni che la sua vita sessuale era stata messa a tacere, dopo un’infelice esperienza matrimoniale e dopo che gli impegni legati alla sua professione avevano preso il sopravvento, saturando ogni attimo della sua esistenza.

Lo strano turbamento non passava. Si alzò, accese la lampada sul comodino, fece qualche passo nella stanza che la lampada liberty rischiarava con una diffusa luce rosata. Cercò di esaminare con distacco le proprie sensazioni. Incredibile! La vagina calda e bagnata reclamava esplicitamente un rapporto sessuale! Ma c’era dell’altro... percepiva nettamente la presenza di un’estranea dentro di sé, una personalità determinata, sfrontata, invadente, che si sovrapponeva a lei, modellava su di lei le sue emozioni, confondendo ragione e sentimenti in un nodo inesplicabile. Si sforzò di essere concreta: sicuramente non riusciva a venir fuori da una situazione onirica, qualche fantasma era riemerso dal fondo dell’inconscio e vi sarebbe di nuovo sprofondato alle prime luci dell’alba.

Andò nel bagno, si sciacquò abbondantemente il viso con l’acqua fresca, ma lo sconvolgimento della sua mente e del suo corpo non accennava a diminuire.

«Ma cosa mi sta succedendo?» pensò ad alta voce, stupita e anche un po’ impaurita per quella eccitazione che non le dava pace e che non riusciva a dominare. Ma l’altra, dentro di lei, intessuta con lei, non aveva paura, anzi le trasmetteva forza, sicurezza. Non temere, va tutto bene, sono una donna... da troppo tempo vivo sacrificata... devo uscire, vedere degli uomini... Ma... siamo in piena notte! E allora? E’ proprio di notte che si fanno gli incontri migliori... Dio mio, cosa sto dicendo? Ma sì... usciamo, devo farmi bella!

Allucinata, forzata da se stessa, pescò in un cassetto della biancheria sexy che non indossava da secoli, infilò delle calze nere a rete, scelse un vestitino striminzito che aveva messo una sera da ragazza e che le lasciava scoperta gran parte delle cosce. Il seno esuberante, che umiliava ogni giorno nascondendolo sotto morbide giacche di linea maschile, schizzò fuori quasi fino alle areole rosa dei capezzoli. Si studiò un attimo allo specchio dell’armadio: era indecente, ma soddisfatta. Incredibile! Completò l’abbigliamento con un paio di stivaletti a punta e andò allo specchio del bagno per truccarsi. Sottolineò pesantemente i profondi occhi castani, nei quali brillava a tratti un bagliore di luce verdastra, coprì generosamente le labbra col rossetto più provocante che trovò, esaminò con occhio critico il risultato e questo le stirò all’insù gli angoli della bocca in un sorriso orgoglioso. Però… mica male la giudice Borghi… se l’avessero vista i suoi colleghi del Tribunale…

Tentò un’ultima resistenza prima di uscire ma il suo demone personale la trascinò fuori alla conquista del mondo sconosciuto della notte.

 

 

Le luci basse del bar e la cappa di fumo che vi aleggiava lasciavano solo intuire le pareti ricoperte di quadri e le scansie stracolme di bottiglie. Le note struggenti di un bandoneon drappeggiavano nel buio la malia di un tango.

Annalisa si arrampicò su uno sgabello davanti al banco: la manovra  spinse  ancora più in alto la gonna già di per sé corta e  i riflessi colorati dell’ambiente fecero improvvisamente risplendere la levigatezza della sua coscia. Se fosse stato giorno nessuno avrebbe avuto dubbi sul colore delle sue mutandine.

«Cosa beve signora?» chiese l’anziano barman dallo sguardo disilluso, degnandola appena di un breve guizzo di curiosità.

«Che caldo fa stasera… dammi un gin tonic con molto ghiaccio.»

Si guardò intorno quietamente, fissando gli uomini presenti ad uno ad uno, senza imbarazzo, con un sorrisetto impudente che non lasciava alcun dubbio sulle sue intenzioni. Sorseggiò piano la sua bevanda, leccandosi le labbra dopo ogni sorso, e continuando a esplorare la sala… possibile che nessuno la abbordasse… forse si era messa troppo in tiro: rischiava di scoraggiare eventuali aspiranti alla compagnia di una notte, forse pensavano che fosse merce troppo cara… Non sapevano invece quale colpo di fortuna era loro capitato: perché quella notte lei la dava gratis…

Il signore di mezza età, un po’ corpulento, che contribuiva a rendere irrespirabile l’aria con il suo mezzo sigaro e che non aveva smesso di fissarla da quando era entrata, si alzò e si issò faticosamente sullo sgabello vicino al suo.

«Non va bene bere da soli, mette tristezza», disse con una voce tutto sommato gradevole, guardandola con due occhi chiari e intelligenti.

«Allora mi faccia compagnia lei… stavo già pensando che non ci sono più gli uomini di una volta e che forse mi toccava tornarmene a casa da sola.»

L’uomo sorrise disegnando intorno agli occhi e alla bocca alcune rughe di espressione che gli diedero un’aria vissuta e cordiale.

«Dammene uno uguale» disse rivolto al cameriere, indicando con un cenno il bicchiere della donna.

Continuavano a studiarsi, lui con espressione indagatrice, lei sorniona, come un gatto che ha adocchiato la sua preda e sa che non gli sfuggirà.

«Lei non è di qui… non l’ho mai vista, se l’avessi vista me la ricorderei…»

«Già… non lo metto in dubbio… E’ vero, vivo da poco in questa città. Ed è la prima volta che esco ad esplorare i bar che tengono aperto fino a tardi.»

«E quando i bar chiudono… che cosa…»

«Me ne vado a letto», tagliò corto lei. Poi gli appoggiò una mano sulla coscia, accarezzandola lentamente, diede alla sua voce una tonalità bassa ed equivoca e aggiunse: «Possibilmente in buona compagnia…»

L’uomo per poco non si strozzò: il tocco di quella mano gli aveva fatto raddrizzare tutti i peli. Posò piano il bicchiere per non versarlo, fissò la sua improvvisata compagna e accennò un’imbarazzata carezza col dorso delle dita: non si aspettava una resa così incondizionata… Si alzò e si avvicinò alla cassa per pagare. Annalisa terminò con calma il suo bicchiere, scivolò giù dallo sgabello con la grazia sinuosa di una ballerina di lap dance e si avviò alla porta, aspettando che il suo accompagnatore gliela aprisse.

Il fresco silenzio di una notte profumata risvegliò per un attimo la coscienza della giudice Borghi, ma l’altra riprese subito il sopravvento, prese sottobraccio l’uomo e lo trascinò verso casa.

 

 

 

Il corridoio del vecchio tribunale si perdeva in una lunga prospettiva. La giudice Annalisa Borghi lo percorse quasi interamente per raggiungere il proprio ufficio, camminando a passi svelti e rigidi, con lo sguardo fisso davanti a sé.

Si sentiva avvampare ogni volta che incrociava qualcuno che la salutava: le sembrava che il suo imbarazzo, il suo senso di colpa, i brucianti ricordi della notte fossero perfettamente visibili dal di fuori.

Si chiuse rapidamente nella sua stanza come in un rifugio sicuro, si sedette alla scrivania e aprì un fascicolo a caso.

Dio mio, che esperienza sconvolgente! Le immagini dell’uomo nudo sotto di lei si accendevano nella sua mente senza preavviso, rivedeva il suo membro grosso e turgido, vedeva sé stessa afferrarlo e baciarlo come una vecchia baldracca…. Chiuse gli occhi e scosse violentemente la testa da un lato e dall’altro, tentando invano di spegnere quelle orrende proiezioni. Ma come era potuto accadere. Si era sempre ritenuta una donna molto equilibrata… Si costrinse ad esaminarsi con obiettività: era sana di mente, questo era sicuro, non solo, il comportamento della notte appena trascorsa non faceva parte della sua personalità, lei si conosceva molto bene. E allora?

Quello che più la tormentava era il limpido ricordo di quello spaventoso sdoppiamento, quella ingombrante presenza dentro di lei, che la plagiava, prendeva il sopravvento, le rubava il corpo per utilizzarlo a suo piacimento. E che grazie a dio al mattino era scomparsa, lasciandole solo uno sconcertante senso di angoscia.

Basta, doveva reagire… aveva un mucchio di lavoro da sbrigare… era sicuramente un fenomeno passeggero, dovuto probabilmente al sovraccarico di lavoro… In giornata avrebbe chiamato il suo medico, che tra l’altro era anche un amico con cui potersi confidare, e gli avrebbe chiesto consiglio.

 

 

 

Era inchiodata al materasso, con gli occhi sbarrati nel buio. Una goccia di sudore le scendeva lentamente dalla fronte lungo la tempia e dietro l’orecchio, come un insetto fastidioso che stesse esplorando il suo viso. Allungò una mano per premere il pulsante che illuminava il quadrante della sveglia: le due! Oh no… anche stanotte! No, non è possibile!

Avvertì il calore che le invadeva piacevolmente tutto il basso ventre e sorrise soddisfatta, suo malgrado: l’altra stava già prendendo il sopravvento. Si sentiva piena di energie e balzò dal letto. Si vestì in fretta e uscì nella strada deserta, con i sensi all’erta come un animale da preda notturno. Evitò due ubriachi che le indirizzarono qualche parola oscena con la voce impastata, girò alla larga da un gruppo di ragazzi sghignazzanti, poi lo vide. Il suo istinto animalesco le gridò dentro immediatamente che quello era il suo uomo: camminava lentamente sotto un porticato, come se stesse pensando, un movimento fluido e sicuro che non temeva la notte. La brace della sigaretta si accendeva a tratti e disegnava un arco nell’aria, subito seguito da una voluta chiara di fumo che aleggiava qualche secondo poi si disperdeva nel buio.

Cominciò a seguirlo. Il ticchettio dei tacchi risuonava sotto la volta del portico e lui si girò a guardarla incuriosito. Fece ancora qualche metro e si girò a guardarla di nuovo, si fermò perplesso e si lasciò raggiungere.

«Ma… sbaglio o lei mi sta seguendo?» disse con un sorriso beffardo.

«Pare proprio di sì…», disse lei ricambiando il sorriso.

«Il mondo va alla rovescia… dovrei essere io a seguirla… Accidenti! Adesso che la vedo da vicino mi accorgo che lei è proprio una gran bellezza…»

«E poi non ha visto quello che nascondo…»

«Mmhhh… ti piace giocare duro eh?»

«Duro… sì, è uno degli aggettivi che preferisco…»

Lui la fissò incredulo, con gli occhi che ridevano:

«Ah, ah! Ma guarda cosa mi capita stanotte: una bella donna, spiritosa e anche un po’ mignotta!»

«Già… solo un po’… solo nell’anima. Non lo faccio di mestiere, non pensare che  ti voglia adescare per soldi.»

«Ma… è incredibile! E io che stavo rimuginando sui miei problemi… invece è il mio giorno fortunato!»

Le passò un braccio intorno alla vita e la attirò a sé premendole il seno contro un torace forte:

«Dì un po’ bellezza, come prosegue questa bella storia?»

Lei rafforzò l’abbraccio stringendosi ancora di più a lui, posò la mano su uno dei suoi glutei e cominciò a massaggiarlo con un morbido movimento circolare, poi gli cercò l’orecchio, vi posò sopra un bacio umido e caldo e disse piano:

«Andiamo a casa mia… ho tante cose da farti vedere…»

 

 

 

«Allora Annalisa, che ti succede? Al telefono mi sei sembrata piuttosto tesa…»

Il dottor Paolo Silvestri fissò l’amica con aria preoccupata, ammiccando con gli occhi chiari e penetranti dietro le spesse lenti da miope. L’impeccabile camice bianco, i capelli brizzolati, le mani sensibili e ben curate lo qualificavano fin da una prima occhiata come il professionista abile e preparato che in effetti era.

«Devo raccontarti una storia incredibile, Paolo… non so neanche da dove incominciare…»

«Be’, comincia dall’inizio: è il modo più facile. Sai che per te posso essere come un confessore.»

Annalisa avvampò anche solo cominciando a raccogliere le idee. Poi si fece coraggio, fece ricorso alla sua pratica professionale e si impose di elencare i fatti con il massimo distacco. Il dottore la ascoltò pazientemente, senza interromperla, prendendo di tanto in tanto qualche appunto scritto, che continuò a studiare anche quando la donna ebbe terminato la sua storia e si arrestò, guardandolo con aria sconfortata.

«Beh… naturalmente non posso dirti niente di preciso. Dovrò farti fare delle analisi… Mi sembra strano che un periodo di forte pressione e un accumularsi di problemi possano aver causato questa reazione in una donna equilibrata come te.

Farei invece per prima cosa un dosaggio ormonale. E poi vediamo se gli esami di routine ci danno qualche indicazione da cui partire. Per pura completezza di indagine ti mando anche da uno psicologo che conosco: sta in un’altra città, quindi potrai contare sull’anonimato più sicuro.»

«D’accordo… però… c’era una cosa che volevo chiederti e che mi assilla. Quello che più mi ha sconvolto in tutta questa storia è stata la netta sensazione di una persona estranea dentro di me. Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre andavo in cerca di una spiegazione, che io sono una trapiantata di fegato e che… lo so che sto dicendo una sciocchezza, ma… è possibile che il mio donatore… o la mia donatrice possano in qualche modo…»

«No! Ti fermo subito, Annalisa!» intervenne il dottor Silvestri con decisione e alzando improvvisamente il tono di voce. «Non metterti in testa strane sciocchezze! Stai per dirmi qualcosa che non ha alcuna evidenza scientifica e che esiste solo nei thriller da quattro soldi. E’ proprio per questo, tra l’altro, che il donatore resta anonimo, per impedire che nel trapiantato insorgano problemi psicologici di accettazione o di rifiuto che potrebbero ostacolare il successo dell’intervento.

Come sai ho seguito personalmente la tua terapia medica post trapianto:  hai potuto usufruire dei più moderni farmaci antirigetto e non vi sono stati problemi di alcun genere. Dunque mettiti bene in testa che sei e sarai sempre una persona con una vita normale. Gli episodi che sei venuta a riferirmi oggi sono del tutto casuali e ne verremo a capo in pochi giorni, credimi.»

 

 

 

Annalisa era ormai al quinto appuntamento con l’estranea. Questa volta non si fece cogliere impreparata, a forza di pensare aveva capito come doveva comportarsi: doveva accettare lo sdoppiamento, mantenere la calma, mantenere il controllo della situazione, non lasciare che l’altra prendesse il sopravvento, studiarla e cercare di capire chi o cosa fosse.

Il suo amico dottore l’aveva convinta fino a un certo punto. Anche lei stava dalla parte della scienza, ma proprio per questo era aperta a qualsiasi ipotesi, credeva che la conoscenza non avesse limiti e che quello che oggi appariva pura fantasia potesse un giorno essere sperimentato e dimostrabile.

Appena sveglia, come sempre, nel cuore della notte, aveva cercato di ascoltare attentamente il suo corpo e le era sembrato quasi di sentire come una presenza viva i nuclei delle cellule estranee che le avevano trapiantato, sentiva fremere i cromosomi al loro interno, vedeva i minuscoli geni al lavoro, migliaia di piccoli infaticabili operai che costruivano la vita. E se qualcuno di loro fosse sfuggito al controllo? Se si fossero coalizzati per riprendere possesso della loro identità? Fantasie, solo fantasie... stava diventando pazza... Ed ecco a smentirla l’incontrollabile smania erotica che ormai conosceva bene, il calore che saliva dal suo sesso come una fiammata, una vampa che le avvolgeva il cervello e la faceva ammattire. Chi sei? Chi sei, maledetta? Per un attimo le sembrò di poterla controllare, vide una bocca sguaiata che rideva, un grosso seno nudo che sobbalzava, la sensazione di sdoppiamento era insopportabile... Dio mio... no! Accese la luce, balzò dal letto e si diresse allo specchio: era lei, si conosceva bene, ma aveva un’aria più sfrontata, quasi volgare, uno sguardo perfido. Sono io, pensò, sono sempre io... ma diversa... Fece un ultimo sforzo per pensare lucidamente: perché di notte? E’ chiaro, perché la ragione abbassa la guardia e la parte peggiore di me impone la sua supremazia... Devo sapere chi sei... oltre al fegato mi hai donato anche la tua libidine sfrenata, ora ho capito... Fu l’ultimo pensiero della sua parte ragionevole, poi le due personalità si ricomposero e anche nello specchio l’immagine divenne più accettabile: Annalisa si guardò con soddisfazione, il suo corpo era piacevole, voluttuoso, fremente di bramosia sessuale, si lanciò un ultimo sguardo lascivo e cominciò a vestirsi.

«E’ ora di mettersi in caccia!» disse ad alta voce. E rise forte, rovesciando la testa all’indietro e scuotendo i capelli come una criniera.

 

 

 

Le scaffalature dell’archivio, zeppe di fascicoli e cartelle su cui la polvere aveva depositato un lieve velo uniforme, si stendevano a perdita d’occhio.

La giudice Annalisa Borghi si muoveva disinvolta in un ambiente che trovava congeniale: indagini e ricerche erano la sua specialità. Le erano bastati solo un paio di giorni per esaminare i giornali delle edizioni immediatamente precedenti la data del suo intervento per rintracciare quella che, con ogni probabilità, era stata la sua donatrice.

Sapeva che i donatori sono generalmente persone che hanno avuto un ictus cerebrale o un trauma cranico, senza importanti lesioni al torace o agli organi addominali. Doveva quindi cercare qualcuno che avesse subito un’emorragia intracranica spontanea da ictus, un trauma cranico conseguente ad incidente stradale, una ferita da arma da fuoco alla testa.

Per controllare la documentazione degli ospedali ci sarebbe voluto un secolo, ma qualcosa le diceva che doveva concentrasi più che altro sulla stampa e in particolare la cronaca nera. E infatti aveva fatto centro. La notte immediatamente precedente quel lontano diciassette febbraio, il giorno in cui era stata convocata per il trapianto, un giorno che non avrebbe mai dimenticato, una giovane donna  dell’apparente età di circa trent’anni era stata trovata nel parcheggio di un’area di servizio con un buco di pallottola in mezzo agli occhi.

Esiste una legislazione molto attenta e severa a proposito delle donazioni per assicurare la morte cerebrale del cadavere. Questa viene valutata per almeno sei ore da una commissione medica, prima di dichiarare la morte cerebrale irreversibile dell’eventuale  donatore e quindi permettere il prelievo degli organi. L’altra condizione è l’espressa volontà del donatore: in questo caso il lato singolare della vicenda, vista la personalità della vittima, la morte violenta e gli indubbi collegamenti con ambienti della malavita,  era che la donna portava tra i documenti una dichiarazione scritta circa la propria volontà di donare gli organi, completa di dati anagrafici e firma.

La giudice Borghi, in lista d’attesa per due anni, era stata individuata come ricevente in base al gruppo sanguigno, aveva ricevuto la comunicazione della disponibilità di un organo compatibile per il trapianto e l’invito a recarsi il più prontamente possibile presso l’unità chirurgica che avrebbe eseguito l’operazione.

Scacciò con un gesto infastidito i ricordi. Ora doveva cercare di conoscere meglio la sua donatrice: la stampa aveva liquidato l’episodio in pochi giorni. La notizia, dopo l’inevitabile interesse destato in un primo momento dalle modalità del delitto e dalla circostanza dell’espianto di organi, era scivolata rapidamente nelle ultime pagine per poi scomparire del tutto. Un’unica foto del cadavere, abbastanza confusa e che non consentiva di farsi un’idea della fisionomia della donna, era apparsa sui giornali il primo giorno. In seguito era apparsa l’immagine altrettanto vaga del viso di una ragazza giovane, ripresa probabilmente dalla vecchia foto di un documento di identità. Le indagini non avevano dato alcun risultato e il caso era stato archiviato.

La donna era stata però coinvolta, tempo addietro, in un’altra indagine che la riguardava marginalmente ed era poi stata rilasciata per non luogo a procedere. Doveva per forza essere rimasta traccia di questo episodio nell’archivio e la giudice Borghi era ben decisa a completare la conoscenza della misteriosa donatrice.

Trovò finalmente il fascicolo che cercava, lo scartabellò incurante della polvere depositatasi negli anni, girò diversi fogli che non la interessavano e di colpo lei apparve.

«Eccoti qua!» disse ad alta voce prendendo in mano una foto.

Era un primo piano di buona qualità, scattato in chissà quale occasione, ma sicuramente molto più aggiornato dell’immagine apparsa sui giornali. Ciò che colpiva con immediatezza erano gli occhi, scuri, dilatati, dallo sguardo intenso e quasi esaltato. La bocca, grande e carnosa, accennava un sorriso provocante. Il viso, largo e senza finezza, era comunque incorniciato e ingentilito da una bella massa di capelli ondulati. Una donna dalla grande carica erotica, pericolosa per sé e per gli altri.

La giudice Borghi la studiò a lungo, sentendo lottare dentro di sé sentimenti contrastanti. La cosa più inquietante era che quell’immagine aveva per lei un’aria familiare…

Cercò di carpirle i suoi segreti semplicemente fissandola. Chi sei veramente? Perché ti hanno ammazzato in quel modo freddo e brutale? Come mai una donna come te si era preoccupata di farsi trovare addosso un documento così civile come la dichiarazione di voler donare gli organi? Cosa… cosa ci fai dentro di me? Perché hai quella irrefrenabile voglia di farti sbattere da tutti i maschi che incontri? Quel corpo che regali senza ritegno è il mio, è il mio! Lo vuoi capire!

 

 

 

“Il giudice per le udienze preliminari, Annalisa Borghi, ha convalidato l'arresto di Thomas Cantoni, il professore quarantenne che la sera di domenica scorsa ha brutalmente stuprato una quindicenne nel parco di viale Tamigi, alla periferia della città. L'udienza di convalida dell'arresto si e' tenuta ieri mattina all'interno dell'ospedale Santa Cecilia, dove l'uomo e' ricoverato per le ferite che secondo l'accusa si sarebbe autoinferto al fine di sviare le indagini.
  All'interrogatorio hanno preso parte il pm Francesco Pisani e gli avvocati difensori Marco Militello e Christian Raineri. L'uomo ha riposto alle domande del giudice ricostruendo i suoi movimenti nella serata in questione e la dinamica dello stupro, non ammettendo però le proprie responsabilità ma affermando di essere stato vittima di uno sdoppiamento di persona: in pratica l’azione delittuosa sarebbe stata commessa da una specie di alter ego che avrebbe agito mentre il suo vero essere si trovava in una specie di trance. Ovviamente la versione non è stata ritenuta attendibile dal magistrato, che ha disposto una stretta sorveglianza dell’imputato e la custodia cautelare in carcere al termine della degenza ospedaliera.”

La giudice Borghi posò il giornale e lo ripiegò pensierosa. Il caso non appariva particolarmente problematico, anzi avevano messo le mani su uno di quei maledetti stupratori e lo avevano assicurato alla giustizia: l’uomo non sarebbe uscito tanto presto di galera e non avrebbe fatto più danni. Però alcuni aspetti della vicenda la lasciavano perplessa. Innanzitutto il colpevole: il Thomas Cantoni, uomo di cultura, molto stimato nell’ambiente universitario, autore di numerosi saggi e ricerche sulla fisica delle particelle. Aveva avuto modo di osservarlo bene durante l’interrogatorio: una persona dai modi gentili e raffinati, dotato di un certo fascino, con quegli occhi chiari ed espressivi, che teneva bassi per la vergogna, e i folti capelli indocili che coprivano un lato della fronte, schiariti qua e là da parecchi fili bianchi. La postura era abbattuta, quasi annientata, in contrasto con le spalle robuste che emergevano dalle lenzuola candide del letto d’ospedale: sembrava che l’uomo fosse oppresso da un dolore insopportabile. Un’immagine insomma che non quadrava con quella del violento aggressore di una ragazza. E poi c’era la ferita, una pugnalata al ventre che per fortuna non aveva procurato lesioni importanti ad organi vitali. Secondo il parere del pm, il professor Cantoni si sarebbe procurato la ferita per gettare i sospetti dello stupro su un terzo attore presente sulla scena del delitto, un ipotetico esecutore dello stupro che si sarebbe poi dileguato. Accortosi che questa menzogna non reggeva il professore l’avrebbe poi abbandonata per ripiegare sulla favola dello sdoppiamento. Ed ecco l’altro aspetto che aveva colpito la giudice Borghi: l’uomo assicurava di avere sempre avuto una vita moralmente irreprensibile, aveva avuto alcune relazioni del tutto normali con colleghe dell’università, relazioni conclusesi senza traumi da ambo le parti. Ma recentemente era perseguitato, così almeno sosteneva, da istinti bestiali, che riusciva a stento a controllare, come se un estraneo dentro di lui, anzi sostituendosi a lui, lo spingesse a comportamenti che lui detestava. Questa orribile persecuzione era sfociata nello stupro e lui non aveva avuto la forza di opporsi. A questo punto della deposizione, la giudice Borghi si era sentita mancare: le parole del professor Cantoni erano risuonate nel suo cervello come profondi e insopportabili rintocchi di una campana mortuaria. Impossibile non riconoscersi in quelle parole, non rivedere in un flash esplosivo le sue scorribande notturne. Aveva dovuto far violenza a se stessa, cacciare le unghie nel palmo della mano per non lasciar trapelare le sue emozioni. Poi il colpo di grazia finale che l’aveva lasciata esausta: il professore aveva precisato che questi sdoppiamenti avvenivano solo di notte. Esattamente come accadeva a lei!

Bussarono con discrezione alla porta.

«Sì, avanti!»

Entrò uno degli uscieri, con in mano un fascicolo.

«Buon giorno, giudice. Un agente della polizia giudiziaria ha portato questo fascicolo per lei da parte del Commissario Zanardi. Ha detto che si tratta di quel supplemento di indagine che lei ha chiesto per il caso Cantoni.»

La giudice Borghi aprì subito con ansia febbrile il fascicolo, rivolgendo un silenzioso cenno di ringraziamento all’usciere. Sfogliò rapidamente alcuni fogli che degnò appena di un occhiata e si soffermò infine su una carta che strinse fino a stropicciarla: le si dilatarono gli occhi e le parole si sovrapposero. Dio mio, no! I suoi sospetti trovavano conferma, una crudele, spaventosa conferma: Thomas Cantoni aveva subito un trapianto d’organo! All’incirca nello stesso periodo in cui a lei avevano sostituito il fegato, al professore, un diabetico insulino-dipendente, avevano fatto un impianto simultaneo di rene e pancreas.

Il commissario Zanardi annotava diligentemente che, in Italia, l'esperienza del trapianto pancreatico era iniziata al San Raffaele di Milano nel 1985, dopo un periodo di alcuni anni di collaborazione con l'Hopital Herriot di Lione, e che da allora erano stati eseguiti numerosi trapianti simultanei di rene e pancreas, con dati di sopravvivenza molto soddisfacenti.

La giudice Borghi si alzò dalla scrivania e cominciò a camminare per la stanza in preda a una sgradevole ansia. Dunque era così, ormai aveva capito come funzionava. Inutile che il suo amico medico la tranquillizzasse: si sbagliava, eccome! Lei certo non poteva sapere cosa o come accadesse: della biologia e fisiologia del corpo umano aveva solo qualche lontano ricordo risalente ai tempi del liceo, ma qualcosa succedeva! A livello molecolare qualcosa restava della persona a cui gli organi erano appartenuti e col trascorrere del tempo, lentamente, queste ombre del passato riprendevano vigore, reclamavano la loro parte di vita, uscivano dal grumo di cellule entro cui erano confinate e dilagavano nell’intero corpo, prendendo possesso della sua parte più nobile, la mente, quando questa, durante il sonno, allentava la guardia.

E ora sapeva di non essere sola: il professor Cantoni era come lei, era una conferma.

Non solo: ora lei sapeva anche che lo stupratore non era lui, che avrebbero condannato un innocente!

Doveva assolutamente parlargli.

 

 

 

«Buona sera, giudice...» L’agente di guardia alla camera del professor Cantoni si alzò prontamente dalla sedia, imbarazzato e confuso per essere stato colto in una posizione un po’ troppo rilassata.

«Buona sera. Come sta il nostro sorvegliato? Tutto regolare?»

«Sì. Nessun problema. Solo il normale va e vieni delle infermiere.»

«Senta... ho bisogno di rivolgere qualche domanda supplementare all’imputato... Mi rendo conto che è una procedura un po’ insolita... ma vorrei parlargli senza i suoi avvocati tra i piedi... Posso contare sulla sua discrezione?»

«Ma certo...» rispose l’agente, nascondendo la sua perplessità. «Mi avevano detto che lei è molto scrupolosa e... vedo che la fama è meritata. Ha bisogno di assistenza?»

«Ma... no: posso fare da sola. Lei resti qui di guardia e mi avverta solo se arriva qualcuno. E... grazie per i complimenti.»

 

 

 

 

Una fioca luce notturna rischiarava appena la stanza. Dietro l’ampio finestrone che occupava tutta la parete gli ultimi chiarori del tramonto lasciavano rapidamente spazio alla sera. Lontano, oltre la cortina scura delle siepi e degli alberi di un vasto parco, la città si stava punteggiando di luci.

«Buona sera… mi scuso per l’intrusione e per l’orario… »

«Giudice Borghi… a cosa devo questa visita?»

La situazione era alquanto bizzarra: formule di cortesia tra un temibile criminale e una rappresentante della legge, lui disorientato, lei turbata, quasi intimidita.

«Volevo… farle ancora qualche domanda. Lei sa che può rifiutarsi e chiedere la presenza del suo avvocato… ma avrei piacere di parlarle da sola. Lei accetta?»

«Cosa vuole che m’importi?» L’uomo disteso sul letto scosse la testa in un gesto sconsolato. «Aspetti, accendo la luce, non ci si vede più niente.» Allungò una mano e accese un neon centrale sul soffitto che inondò e la stanza di una luce forte e fredda.

Strinse un attimo gli occhi per adattarli poi fissò incuriosito la sua inattesa visitatrice.

«E’ molto imbarazzante per me» disse la giudice. «Non so nemmeno da dove cominciare. Vorrei che lei cercasse di non vedere in me la figura istituzionale, sono qui… diciamo a titolo personale… C’è qualcosa nella sua deposizione che mi ha profondamente impressionato e vorrei saperne qualcosa di più.»

Tacque imbarazzata, fissandolo per studiare le sue reazioni. Ma lui restava in attesa, guardandola a sua volta con quel suoi occhi acuti da scienziato, appena appannati dalle recenti vicende.

Lo sguardo di lei scivolò sul corpo immobilizzato, fermandosi sulla fasciatura che avvolgeva i fianchi e sbucava da sotto il lenzuolo.

«Perché si è ferito?» chiese sommessamente.

«Ho già tentato di spiegarlo, ma non mi avete creduto…»

«Provi di nuovo. Penso che questa volta le crederò.»

L’uomo esitò un attimo, poi il suo sguardo si perse lontano e cominciò a raccontare.

«Quella sera, quando sono tornato a casa, dopo aver… violentato quella povera ragazza, ero disperato, l’angoscia mi opprimeva fin quasi a strangolarmi. Odiavo con tutta la mia rabbia quell’essere immondo che era dentro di me, lo odiavo fino al punto di volerlo sopprimere, anche a costo di sopprimere me stesso. Mi sarei sacrificato volentieri pur di togliere quel delinquente dalla faccia della terra. Ma non sono molto bravo: presi dalla cucina il primo coltello che trovai e mi diedi un colpo maldestro che non provocò gravi danni, se non un forte sanguinamento che mi fece perdere conoscenza. Forse sarei riuscito a farla finita comunque, ma i poliziotti mi trovarono poco tempo dopo, messi sulle mie tracce dalla ragazza stessa, che, ovviamente mi aveva riconosciuto: anno scorso le avevo dato delle ripetizioni di matematica e fisica.

Sì… l’avevo trovata graziosa… ma non avrei mai pensato di farle del male, di saltarle addosso come una bestia eccitata… Poi… lui… ha cominciato a perseguitarmi…»

«Chi è questo “lui” che torna sempre fuori nei suoi discorsi come fosse una persona reale. Mi racconti con ordine.» Annalisa Borghi si era seduta accanto al letto, tesa, osservando fissamente il professore come in attesa di qualche rivelazione importante.

«E’ cominciato tutto circa un mese fa. Mi sono svegliato di soprassalto, una notte, avvertivo nettamente dentro di me la presenza di un estraneo, una personalità giovane, vigorosa, con un unico pensiero fisso: le donne. Nella mia mente cominciarono ad affollarsi e a sovrapporsi nitide immagini di donne nude, in pose lascive, enormi tette, culi, cosce allargate con grandi bocche pelose che mi chiamavano… Mi spinse ad uscire. Le prime volte andammo in cerca di prostitute e per un po’ questo risolse il problema. Poi i miei ricordi si confusero coi suoi. Mi tornarono in mente donne che avevo conosciuto e a cui, per convenzione sociale, avevo portato il massimo rispetto, tutt’al più qualche complimento, qualche galanteria. Ma ora sentivo la necessità di andarle a cercare, dovevo per forza possederle… L’ultima è stata la studentessa che… ma… cosa le succede? Si sente bene?»

Il professor Cantoni guardò, improvvisamente allarmato, la giudice Borghi: la donna aveva un tremito in tutto il corpo, aveva afferrato con una mano un capo del lenzuolo e lo stringeva forte, sbiancando le nocche, mentre i suoi occhi assumevano una fissità allucinata.

«No… no…non è niente… poi capirà… Devo farle un’ultima domanda, una domanda importante.» Deglutì vistosamente e sembrò fare uno sforzo enorme per dominarsi.

«Lei è uno scienziato. E’ abituato a porsi dei problemi, a cercare delle risposte… si è chiesto se il trapianto che ha subito può avere un qualche legame con questo suo disturbo?»

«Ma… come ha saputo….»

«Mi risponda!»

«Sì, certo. Questo pensiero mi ha tormentato fin dal primo momento. Ma è un’assurdità. Io non posso accettare…»

«Lasci perdere i ragionamenti! E mi stia a sentire: io sono come lei!»

«Cosa sta dicendo…»

«Ha capito bene. Sono anch’io una trapiantata. E di notte mi sdoppio: divento una baldracca peggio del suo stupratore!» La giudice si alzò, afferrò il professore per le mani e gliele strinse forte. «Senta, noi ci dobbiamo aiutare. Io devo farla uscire di qui, a tutti i costi. Adesso però me ne devo andare: l’agente di guardia alla porta si starà chiedendo cosa succede. Lei si rimetta in forze e abbia fede in me.»

L’uomo la guardò allontanarsi in fretta e per qualche minuto restò a fissare la porta che si era chiusa alle sue spalle. Era frastornato: un groviglio di pensieri si contorceva nella sua mente. Com’era possibile che si fosse verificata quella strana congiuntura di eventi drammatici, coincidenze, persone vittime di casi inverosimili. Chiuse gli occhi.

Però, che donna! Bella, intelligente, volitiva… e aveva promesso di tirarlo fuori da quella situazione. Non restava che aspettare.

 

 

 

La sua gemella cattiva si fece viva puntualmente anche quella notte. Annalisa Borghi l’aspettava rassegnata. Ma quella volta la sua smania erotica era dominata, inaspettatamente i loro pensieri convergevano. Appena sveglia le si delineò subito nella mente l’immagine di Thomas Cantoni, il tipo di uomo che le era sempre piaciuto: l’aspetto signorile del gentiluomo d’altri tempi, il viso affilato e virile, lo sguardo intenso di chi chiede continuamente al mondo di svelare i suoi misteri. Ma certamente, non solo un intellettuale… le braccia muscolose, adagiate senza forze sul letto, lasciavano intendere qualcos’altro. Annalisa, e il suo doppio, immaginarono per un attimo di essere strette da quelle braccia in un amplesso amoroso. Certo sarebbero stati una bella coppia: distinti e irreprensibili di giorno, amanti sfrenati durante la notte. Ma ora non c’era tempo per queste cose… bisognava far uscire l’uomo dall’ospedale, fare in modo che sfuggisse alla morsa della legge, che, in questo caso, tutto avrebbe fatto fuorché giustizia.

Si arrovellò per gran parte della notte. Spuntavano le prime luci dell’alba quando la giudice si addormentò sorridendo: forse aveva trovato la soluzione.

 

 

 

Passò gran parte della giornata all’interno dell’ospedale, in orario di ricevimento, mescolandosi alla folla dei visitatori per non dare nell’occhio. Studiò gli orari delle infermiere, i cambi di turno, finse di perdersi per esplorare il labirinto dei corridoi, scese nel seminterrato con l’ascensore riservato al personale, seguì i percorsi e le abitudini delle donne addette alle pulizie. Nel tardo pomeriggio aveva messo a punto un piano e individuato la persona che poteva aiutarla: una bella donna con la corporatura simile alla sua, dal viso rassegnato ma furbo, forse una moldava o un’ucraina. Portava un camice azzurro, una cuffia che le raccoglieva i capelli biondi e spingeva un voluminoso carrello attrezzato per le pulizie. L’aspettò al termine del suo turno e la interpellò senza troppi preamboli: non aveva molto tempo.

«Buona sera. Mi scusi se la affronto così maleducatamente… ma ho bisogno del suo aiuto.»

«Mio aiuto? Dica…» la donna era perplessa, ma la giudice Borghi contava molto sulla concretezza di queste donne provenienti dall’est, sulla loro disponibilità quando si trattava di guadagnare un po’ di soldi.

«Vuole guadagnare duecento euro in fretta e con poca fatica?»

Gli occhi della donna si fecero attenti, ma velati da una lieve ombra di spavento.

«Scusi, io non faccio niente vietato. Io paura di perdere posto.»

«No, no, non si preoccupi. Lei non rischia niente. Sono io che rischio…»

«Cosa vuole?»

«Voglio solo che lei mi ceda il suo carrello e la sua divisa. Poi li abbandonerò qua di sotto, vicino all’uscita del seminterrato. Se qualcuno se ne accorge potrà sempre dire che glieli hanno rubati.»

«Ma… è pericoloso… se vede caposala… Cosa deve fare?»

«Questo non posso dirglielo. E non si preoccupi della caposala, cercherò di non farmi vedere.» Estrasse due banconote dalla borsetta e le mostrò alla donna per invogliarla. «Allora, li vuole questi soldi o no?»

La donna esitò un attimo, poi afferrò le banconote e le fece scomparire sotto il camice. Poi cominciò a spogliarsi: consegnò la divisa alla giudice Borghi e si allontanò rapidamente. Aprì una porta chiusa a chiave, probabilmente lo spogliatoio delle inservienti, e scomparve senza girarsi.

Annalisa, si cambiò rapidamente. Abbandonò le sue cose in un angolo seminascosto, su una vecchia sedia: le avrebbe recuperate in seguito. Indossò il camice, le ciabatte, fermò i folti capelli scuri con delle forcine e li fece scomparire sotto la cuffia. Indossò un vecchio paio di occhiali da vista fuori moda, che aveva estratto dalla borsetta e che le alterarono un po’ la fisionomia, si costrinse a una postura leggermente curva, stanca, e cominciò a spingere il carrello verso l’ascensore con un’andatura un po’ claudicante: la giudice Borghi non esisteva più.

Lungo il percorso trovò dei grossi bidoni per la spazzatura e vi svuotò il sacco nero posizionato sul carrello: il sacco era piuttosto grande e poteva contenere abbastanza comodamente una persona che vi si fosse accovacciata e rannicchiata dentro. L’idea era proprio questa, semplice e audace, e le era venuta durante la notte, quando, tra le tante possibilità esaminate e scartate, aveva visualizzato il carrello. Era una struttura robusta, con quattro ruote, divisa in due parti: una anteriore, che conteneva un secchio quadrato, una scopa, uno spazzolone, stracci e detersivi, una posteriore, con un grosso cilindro di metallo traforato che conteneva il sacco di robusta plastica nera.

Questo era il piano, che richiedeva rapidità, tempismo e molta fortuna: Annalisa avrebbe finto di essere una delle addette alla pulizia che si era attardata e sarebbe entrata nella camera accanto a quella del professor Cantoni, per non far insospettire l’agente di guardia. Le camere, pur avendo ingressi indipendenti, erano comunicanti, due a due, tramite un unico bagno, cui si poteva accedere da ciascuna stanza tramite una piccola anticamera. Annalisa avrebbe potuto quindi entrare dal professore passando dal bagno, aiutarlo a indossare qualche indumento, farlo entrare nel sacco e uscire sempre dalla stanza accanto. In teoria la guardia non avrebbe avuto niente da ridire. Pochi secondi per arrivare all’ascensore e alla libertà.

 

 

 

La donna delle pulizie avanzava lungo il corridoio, ispezionandolo attentamente, come se avesse paura di aver tralasciato di pulire qualche angolo. Ogni tanto prendeva uno straccio bagnato e si chinava per un ultimo colpo al pavimento di linoleum che comunque appariva già pulitissimo. Trascinava quasi zoppicando il pesante carrello, evidentemente stanca per una lunga giornata di lavoro. Probabilmente stava facendo una specie di controllo, visto che una sua collega era già passata prima.

L’agente di guardia alla porta del professor Cantoni la degnò appena di uno sguardo, era una donna matura e sciatta, senza alcuna attrattiva, e poi anche lui era snervato per il lungo turno di guardia che fortunatamente stava per terminare.

La donna aprì la porta della stanza accanto ed entrò. Ne uscì subito dopo, afferrò la maniglia del carrello e lo spinse dentro. Forse aveva visto che la stanza non era pulita alla perfezione.

L’agente cambiò posizione sulla scomoda sedia e si mise a sonnecchiare.

 

 

 

Annalisa sentiva il sangue rimescolarsi. Era affacciata dalle porte dell’ascensore col cuore in tumulto, guardando da un lato e dall’altro per accertarsi che non fosse in vista qualcuno del personale. Poi aveva spinto fuori il carrello ed era andata con decisione verso l’agente, che fortunatamente non era lo stesso che l’aveva fatta entrare il giorno prima. Sembrava abbastanza disinteressato a lei e quindi era riuscita ad entrare con il suo carrello, senza problemi, nella stanza confinante con quella di Cantoni.

Ora doveva fare in fretta. Entrò come una furia dal professore e lo scosse.

«Professore! Thomas! Sono io… dobbiamo fare in fretta!» disse con voce bassa ma pressante. L’uomo aprì gli occhi e dopo un attimo di incertezza il suo sguardo si illuminò. Annalisa lo scoprì e cominciò a tirarlo giù dal letto.

«Presto, presto! Abbiamo pochi secondi, poi la guardia si insospettirà!»

Gli infilò le ciabatte e lo sorresse. Cantoni era abbastanza stabile, cominciò a collaborare, assecondando la giudice che lo trascinava verso la porta di comunicazione.

«Ce la fa ad entrare qui dentro?» gli disse indicando il sacco della spazzatura e implorandolo con lo sguardo.

«Incredibile!» disse Cantoni tra sé, scuotendo la testa e lanciando un’occhiata di ammirazione ad Annalisa. Poi alzò agilmente una gamba e la infilò nel cestello che reggeva il sacco, quindi vi si appoggiò con entrambe le mani e  si calò dentro, lasciandosi sfuggire un debole grugnito di dolore: la ferita evidentemente aveva protestato.

La giudice Borghi lo spinse senza complimenti verso il basso e gli gettò sul capo un paio di stracci. Aprì quindi la porta della stanza accanto e diede una rapida occhiata al corridoio: nessuno in vista. La guardia continuava a sonnecchiare. Spinse fuori il carrello e si diresse all’ascensore, trattenendo a stento la voglia di correre.

Finora tutto bene, pensò, ma era presto per cantare vittoria.

Uscì nel seminterrato, aiutò Cantoni a uscire dal suo scomodo nascondiglio, si sbarazzò del camice e delle ciabatte, recuperò la sua roba sulla sedia, prese l’uomo per mano  e si incamminò verso l’uscita di servizio, che, come aveva constatato durante le sue esplorazioni del mattino, dava direttamente nel parcheggio.

Il professore la seguiva passivamente, instabile sulle gambe, dolorante, ma senza protestare.

«E i miei vestiti?» chiese ad un tratto.

«Non c’era tempo. Ne compreremo di nuovi. Oppure mi introdurrò nel suo appartamento, anche se è sigillato, e le procurerò qualcosa da mettere.»

Raggiunsero la macchina della giudice e lei lo fece entrare, sempre guardandosi ansiosamente intorno.

Passarono davanti alla guardiola sotto lo sguardo distratto di una custode, che azionò la sbarra senza problemi. E sicuramente senza vedere chi era, poiché nel frattempo si era fatto buio.

 

 

 

«Non immaginavo che lei fosse anche una buona cuoca…»

«Questo lei suona un po’ stonato dopo quello che ho fatto per te, non credi!?»

«Hai ragione… scusami. Ma come puoi comprendere sono ancora parecchio frastornato. Ancora non riesco a capacitarmi di questo improvviso capovolgimento della mia situazione. Che tu faccia tutto questo per me ha dell’incredibile…»

Erano entrati nell’appartamento della giudice Borghi con mille precauzioni. Lei lo aveva aiutato a lavarsi, gli aveva cambiato la fasciatura intorno al torace perché gli sforzi compiuti durante la fuga avevano evidentemente riaperto la ferita appena rimarginata, gli aveva procurato un pigiama pulito del suo ex marito ripescato in fondo a un cassetto. Poi si era messa ai fornelli e aveva improvvisato una cena veloce ma appetitosa.

Ora erano seduti a tavola, rilassati, conversando come se nulla fosse accaduto. Lui la fissava in preda a sentimenti contrastanti, riconoscente, dubbioso, in attesa che lei confermasse a parole quello che lui intuiva ma che non osava pensare.

Annalisa prese il bicchiere di vino che aveva vuotato a metà, lo girò tra le dita osservando il movimento e il riflesso del liquido rosso rubino, come una maga che cerca di leggere in una sfera un futuro difficile da decifrare.

«Anche per me è tutto molto difficile da accettare. Ma, vedi, nel mio lavoro sono spesso costretta a prendere decisioni, decisioni che a volte cambiano la vita di qualcuno. E’ una responsabilità pesante, ma ci si fa l’abitudine. Questa volta la vita che cambia è la mia. E anche la tua. In questi ultimi giorni sono accadute delle cose terribili. Ho dovuto far ricorso a tutte le mie forze, al mio equilibrio… ma a volte ti assicuro che ho sentito la mia mente vacillare, il mondo mi girava intorno come se avessi le vertigini…»

«Nessuno più di me ti può capire» disse il professor Cantoni sommessamente, come parlando a se stesso.

«Credevo di impazzire… poi sei arrivato tu. Gli avvenimenti hanno subito un’accelerazione impressionante. Ho capito di non essere sola, innanzitutto, di essere parte di una sconvolgente realtà scientifica, un dramma che toccava a me, come un’infezione, un’anomalia incurabile. Ma nello stesso tempo tu eri la soluzione: io e te alleati possiamo ignorare questo dramma, annullarlo, imparare a conviverci,»

Parlando si era infervorata. I capelli le si erano mossi intorno al viso animato, gli occhi scuri splendevano come una luce nella notte. Cantoni la trovò bellissima.

«Non so se ho capito bene» disse con aria incerta. «Non oso neanche crederci… la cosa mi sembra troppo bella. Tu vuoi dire che noi potremmo …vivere insieme? Un’apparenza rispettabile durante il giorno e, di notte, quando le nostre nature perverse si scatenano, annullarle mettendole l’una contro l’altra?»

«Hai capito benissimo. Modestamente mi sembra un colpo di genio. Una donna assatanata, affamata di sesso, che non ha bisogno di uscire di casa per soddisfare le proprie voglie perverse: vive a fianco di un potenziale stupratore, un uomo dall’appetito sessuale insaziabile. Ognuno di loro avrebbe a portata di mano una soluzione comoda, senza rischi, perfetta.»

Annalisa allungò una mano sul tavolo e prese quella del professore, la strinse con dolcezza, guardò l’uomo intensamente.

«C’è qualcos’altro…» aggiunse con voce calda e sommessa. «Alla donna quell’uomo piace molto, penso che si potrebbe innamorare perdutamente di lui…»

Thomas Cantoni ricambiò lo sguardo, inutile replicare che anche lui era soggiogato, si vedeva benissimo. Ma qualcosa, nel ragionamento, non lo convinceva.

«D’accordo, tutto quello che hai detto è semplicemente straordinario. Non potrei desiderare di meglio nella vita. Una donna come te è un dono magnifico, non ci sono parole per esprimerlo… Ma, come faremo? Mi cercheranno dappertutto… tu hai il tuo lavoro…»

«Ci ho pensato a lungo. Dobbiamo scomparire, individuare un paese dove possiamo farci una nuova vita. Io potrei fare l’avvocata, tu l’insegnante o il ricercatore…. Abbiamo tutto il tempo di studiare i dettagli. La cosa non mi spaventa, sono fiduciosa, e tu?»

 

 

 

I professor Cantoni spalancò gli occhi di colpo. Ci mise un attimo a riconoscere l’accogliente stanza degli ospiti della giudice Borghi e a rendersi conto della sua condizione. Capì anche, con imbarazzo e apprensione, cosa lo aveva svegliato: l’altro si stava facendo vivo, sentiva una smania ben nota percorrergli il corpo, una vigorosa e inarrestabile erezione premeva contro il lenzuolo. Cercò di lottare, pensò alla ferita appena rimarginata, pensò alla donna meravigliosa che lo stava aiutando, non poteva lasciarsi sopraffare così… ma l’altro lo pressava, gli gridava dentro come un demone in gabbia, reclamava una donna, proiettava nel buio mille immagini che si mescolavano e si dissolvevano, nudi colorati e osceni, donne dalle bocche grandi contorte in un riso sguaiato, donne che gli salivano sopra e lo cavalcavano facendo sobbalzare enormi mammelle… Doveva alzarsi, uscire, andare a sfogare altrove la sua indecente frenesia. Poi una porta che si apriva, una lama di luce che entrava nella stanza, lo distrassero per un attimo.

Lei era là, stagliata nel vano luminoso della porta, un nudo abbagliante e voluttuoso. Teneva  un braccio appoggiato allo stipite e l’altra mano adagiata in una immobile carezza sulla peluria del pube. Riccioli neri sbucavano tra le dita leggermente aperte.

Thomas ebbe appena il tempo di realizzare che la donna efficiente, la giudice severa, aveva fattezze incredibilmente sensuali, posò lo sguardo famelico su due seni gonfi e puntati verso di lui come animali da preda, spostò la sua attenzione sul viso di lei: l’anima licenziosa di chi ne aveva usurpato il corpo si affacciava all’esterno con un sorriso impudico, due occhi dilatati dalla concupiscenza, il colore caldo della bramosia.

Annalisa superò con passi rapidi i pochi metri che li separavano, strappò il lenzuolo dal letto facendolo volare lontano, si sdraiò accanto a lui avviluppandolo in un abbraccio voglioso, con le braccia e con le gambe, come un rigoglioso rampicante.

Sprofondarono insieme nel loro inferno personale.