La tomba etrusca

A mezzanotte il professor Federico Morresi si era avviato silenziosamente lungo l’antico, ripido sentiero che, sebbene inselvatichito, era ancora riconoscibile e conduceva, usciti da Porta Romana, verso un poggio ricoperto da una vegetazione scura e intricata. Arrancava col passo lento ma sicuro di chi conosce la montagna, appesantito da una voluminosa sacca, gettata a bandoliera sulle spalle forti e squadrate. Reggeva con la mano una grossa torcia schermata, il cui raggio, diretto verso il basso, faceva a tratti balenare la lama di un coltellaccio tuttofare, fissato alla gamba. Il giubbotto e i pantaloni, di pesante tessuto color kaki e con numerose tasche, lo rendevano parte della vegetazione circostante, effetto accentuato dall’informe cappello che teneva leggermente di traverso e ben calcato sugli occhi.
Era una splendida notte chiara e asciutta: in cielo un brulichio di stelle ammiccanti approfittava del novilunio per inondare di una luce fredda e sfolgorante la volta celeste, come un pugno di diamanti gettato su un velluto nero. Lontano, ai piedi della collina su cui sorgeva Saturnia, era chiaramente visibile la spessa nuvola di vapore chiaro che si levava dalla calda acqua sulfurea delle cascate del Gorello, vicino al vecchio mulino.
Il professore sostò un attimo per ammirare, ogni volta attonito come un bambino, lo spettacolo della notte e lasciare che si calmasse un po’ il respiro, accelerato, più che dalla difficoltà del cammino, dall’ansia per la conclusione imminente di quella che sarebbe stata una delle più emozionanti scoperte dell’archeologia, la “sua” scoperta. Aveva lavorato giorno e notte, patendo il sonno e la fatica, per sviare la curiosità della gente e soprattutto quella degli astiosi colleghi del mondo accademico, pronti a deriderti o sbranarti al minimo errore ma altrettanto pronti a derubarti, come ladri di strada, di un’eventuale idea vincente, l’idea capace di procurare l’ambita fama e anche un po’ di spregevole denaro. Si era improvvisato novella Penelope: di giorno, con l’aiuto dei suoi studenti, fingeva di lavorare ad un’ipotesi ormai abbandonata da tutti, l’esistenza di alcune tombe scavate in monoliti di travertino di cui dava notizia uno dei primi studiosi della civiltà etrusca, l’archeologo inglese Dennis, che era giunto in quei paraggi nel 1834 insieme al giovane compagno di viaggio Samuel Ainsley. Di notte, completamente solo, acquattato nel buio come un animale predatore, sporco e maleodorante di terra smossa, con le unghie spezzate e sanguinanti, portava avanti la sua personale, caparbia ricerca, una guerra logorante, fatta di entusiasmanti successi e avvilenti sconfitte, combattuta nel silenzio delle biblioteche e dei musei, estenuando la vista e la mente su testi storici ed epigrafi, scavando nel tufo… Ma ora la conclusione dell’intera vicenda e il successo erano a portata di mano: il giorno dopo avrebbe chiesto ai carabinieri di recintare e sorvegliare la zona e avrebbe finalmente potuto comunicare alle agenzie di stampa che il Professor Federico Morresi aveva scoperto una tomba etrusca ancora incredibilmente inviolata, che si trattava della tomba di Thana, figlia di Velthur, ricco commerciante di Graviscae, antico porto di Tarquinia, e che, ghiotta notizia da dare in pasto al grosso pubblico, la tomba custodiva intatto uno dei più grandi tesori mai portati alla luce. Questo naturalmente era tutto da verificare, ma Morresi non aveva dubbi in proposito. Per anni aveva seguito nei documenti greci e romani e nelle iscrizioni funerarie etrusche le debolissime tracce che conducevano all’esistenza di Thana, aveva pazientemente raccolto, esaminando attentamente reperti di ogni genere, i mille piccoli pezzi che, messi insieme, facevano emergere da un oscuro passato l’abbagliante ritratto di una donna straordinaria, morta in giovane età e che, contrariamente alla tradizione, aveva voluto essere sepolta da sola.
Figlia del famoso Velthur, divenuto potentissimo a Tarquinia nel VI secolo a.C. grazie ai suoi fortunati traffici con i Cartaginesi, Thana doveva essere una delle donne più evolute del suo tempo. Ribelle e capricciosa, amava banchettare e cacciare insieme agli uomini, assistere a gare di lotta e spettacoli mimici, esibirsi nella danza e suonare il flauto doppio. Ma l’aspetto di maggior interesse era il suo amore per l’arte e per l’oreficeria, in cui gli etruschi erano abili e indiscussi maestri: questo lasciava ben sperare nel ritrovamento di uno sfarzoso corredo funebre, dal momento che quel popolo riteneva che la vita continuasse dopo la morte e che il defunto avesse quindi la necessità di ritrovare tutti i propri oggetti nello stesso punto in cui giacevano le spoglie. Morresi era certo che avrebbe trovato in grande quantità le caratteristiche fibule ad arco che svolgevano la funzione dei bottoni, gli specchi di bronzo dal dorso finemente inciso e poi orecchini, bracciali, collane, tutto in oro e tutto sapientemente decorato a filigrana e a granulazione, con l’incredibile sensibilità per gli accostamenti cromatici tra oro e pietre preziose per cui i gioiellieri etruschi andavano famosi. Un valore immenso.

 

Il professore scostò gli arbusti e i rami che aveva ammassato in grande quantità davanti all’ingresso per occultarlo e avanzò con cautela nel corridoio che già da alcuni giorni aveva liberato dal pietrisco e dai detriti accumulatisi nei secoli. Le pareti, perfettamente perpendicolari, erano scavate nella roccia viva e si addentravano nella montagna per finire apparentemente contro una parete più solida: in realtà, sulla sinistra, era dissimulato abilmente, dietro una lastra di pietra, l’ingresso di un’altra galleria, che immetteva presumibilmente nella camera quadrata dove erano custoditi il sarcofago e il corredo funerario. Morresi posò a terra la lampada, si tolse la sacca dalle spalle e posò anche questa a terra: ne trasse una grossa leva, che infilò in una fessura tra la roccia e il lastrone di pietra e cominciò a far forza. Nei giorni precedenti, i più spossanti, aveva lungamente lavorato intorno alla pietra per isolarla, e la notte prima era riuscito a spostarla di qualche centimetro: ora non avrebbe dovuto più incontrare eccessiva resistenza. La pietra cadde infatti facilmente. Troppo facilmente? Morresi restò un attimo perplesso, poi un’esaltante euforia si impadronì di lui e cancellò ogni dubbio. Raccolse la torcia ed entrò nel nuovo corridoio. Si muoveva con lentezza, illuminando alternativamente il suolo davanti a sé, le pareti, la volta. Avanzava trasognato verso un portale basso e massiccio che si intravedeva sul fondo e che immetteva in un altro ambiente. Si fermò di colpo: i suoi piedi avevano urtato qualcosa. Diresse il raggio della torcia verso il basso e illuminò i frantumi colorati di quella che doveva essere una coppa di ceramica a figure rosse su sfondo nero. Un atroce sospetto lo raggelò: quei cocci avevano tutta l’aria di un reperto caduto a un ladro che se ne andava in fretta. Dio! No! La tomba era stata violata! Ma com’era possibile? Corse avanti senza più cautela ed entrò nella camera funeraria tenendo alta la torcia e illuminando rapidamente ogni angolo: cadde in ginocchio annientato, come una marionetta alla fine dello spettacolo. Pur nel cupo silenzio delle viscere della montagna un sibilo continuo e fragoroso sembrava penetrargli nella testa, mentre con gli occhi spalancati guardava incredulo la scena che gli si presentava, incapace di muoversi o di ragionare sotto l’urto insopportabile di sentimenti contrastanti. In una parte della sua mente bruciavano la delusione e la rabbia per le inconfondibili tracce di una razzia brutale: il coperchio del sarcofago buttato per terra, coppe e vasi di ceramica, in parte frantumati, abbandonati ovunque, forse perché ritenuti di minor valore o, più verosimilmente, perché più difficili da collocare nell’infame mercato sommerso dei tombaroli.  E la totale assenza di gioielli e altri oggetti preziosi, neanche il minimo luccichio tra i cocci tristemente sparsi a terra. In un’altra parte della coscienza l’incontenibile esultanza per il successo dell’impresa, l’orgoglio di avercela fatta, di essere sempre stato nel giusto, contro tutti, l’emozione incomparabile di essere il contatto finale, il destinatario di quella manciata di vita etrusca lanciata oltre la morte e affidata alla memoria dei millenni.
Si alzò barcollando, cercando di riacquistare la padronanza di se stesso. Con la manica della camicia ripulì alla meglio il viso, dove la polvere e il sudore erano stati rigati da alcune lacrime… Si avvicinò al coperchio del sarcofago, che fortunatamente non si era spaccato o scheggiato cadendo a terra: sopra, secondo l’uso etrusco, era scolpita la figura della defunta nella classica posa della banchettante. Lo sconosciuto artista, sicuramente ispirato dalla non comune bellezza della modella e dalla sua giovane età, aveva chiesto l’impossibile alla propria abilità di caratterizzazione e aveva saputo animare il prezioso marmo che la ricca famiglia si era potuta permettere come materiale per il sarcofago. Morresi si chinò e guardò fissamente Thana negli occhi: ebbe la precisa e agghiacciante sensazione che la donna ricambiasse il suo sguardo, con quel lampo arguto e beffardo che molti visi etruschi sembrano avere. Non era la prima volta che Thana lo seduceva, con i suoi occhi dal taglio orientale e la bocca dalla curva aggraziata: anzi, era stato proprio il suo fascino intatto e misterioso che lo aveva conquistato e incoraggiato alla ricerca. Ricordava ancora molto bene quel giorno: si stava aggirando distrattamente per le sale del Museo di Villa Giulia quando ebbe la sensazione di essere osservato, si girò e si trovò di fronte ad un genere di vaso che lui conosceva perfettamente, quello il cui corpo è costituito da una testa di donna. L’espressione di quella donna però lo sorprese: sembrava ridere di lui, ma non con cattive intenzioni, anzi con simpatia… tanto è vero che lui, scioccamente, rispose a quel sorriso. Solo dopo molte, estenuanti ricerche seppe che quella era Thana.
Fece scorrere la luce della torcia sul resto del corpo. La pietra traslucida era stata resa dallo scultore leggera e trasparente per foggiare abiti e veli, morbida per dar forma alla carne. Né il gelo della morte né l’abisso senza fondo dei secoli riuscivano a togliere a quelle membra l’impressione sconcertante del calore della vita: esse provocavano per di più un sottile turbamento erotico che metteva a disagio. Il professore si drizzò di colpo e fece un passo indietro, un pensiero pazzesco, come un lampo, si era acceso all’improvviso dentro la sua mente. “No! Non ci credo…” disse ad alta voce. Si guardò intorno febbrilmente, raccolse un frammento da terra, lo studiò attentamente alla luce della torcia. Ma sì… era evidente! I margini del frammento erano netti e puliti, neanche un granello di polvere o un’ombra di muffa, quel vaso era stato spezzato solamente da qualche ora! Lasciò cadere le braccia e si appoggiò al sarcofago: era sfinito, svuotato di ogni energia dal succedersi di emozioni troppo intense in pochi attimi. Era stata lei! Aleksa! Come aveva fatto a non capire… la bella ucraina che si era introdotta nella sua vita al momento opportuno… Ora tutto appariva chiaro… l’avevano raggirato, gli avevano buttato tra le braccia un’esca irresistibile, una bella donna che assomigliava in modo straordinario all’etrusca Thana. Che imbecille! Rivide il suo sguardo dolce e ardente, la sua bocca morbida e delicata e provò un acuto dolore: una ladra… una maledetta complice di astutissimi ladri…
Doveva sapere con certezza. Raccolse rapidamente le sue cose e si avviò verso l’uscita. Si girò un’ultima volta e illuminò con un gesto circolare le pareti: non le aveva ancora degnate di un’occhiata… Il raggio di luce risvegliò passando una distesa di colori caldi e vivaci, uccelli in volo, scene festose di uomini e donne banchettanti, suonatori e danzatrici: che meraviglia! Morresi sogghignò, scosse lentamente il capo e corse fuori. Non smise di correre finché fu davanti alla vecchia casa, nel centro di Saturnia, dove aveva una stanza in affitto. Gettò la sacca nel sedile posteriore della sua fuoristrada, parcheggiata poco distante, balzò al posto di guida e schizzò via rabbiosamente, tirando le marce fino allo spasimo. Non rallentò l’andatura fino a quando non ebbe superato l’ingresso dell’agriturismo dove Aleksa si era sistemata per stargli vicino. Il guardiano notturno conosceva la macchina e non vi avrebbe fatto caso. Frenò davanti a uno dei bungalow, facendo un solco nella ghiaia, scese, trasse una chiave dalla tasca e spalancò con gesto collerico la porta. Cercò a tentoni l’interruttore e una luce illuminò debolmente una stanza vuota. Niente Aleksa!  Niente di niente. Bagno vuoto, armadio vuoto. Aprì freneticamente i cassetti, facendoli cadere sul pavimento: la donna non aveva lasciato la minima traccia. Da un’anta spalancata dell’armadio uno specchio gli rimandò impietosamente la sua immagine: l’umiliazione e lo sconforto segnavano il suo viso e piegavano le sue spalle. Non trovò nemmeno la forza di darsi dell’idiota.

Due mesi prima.

 

“ Buonasera, professore! Non sapevo che la interessasse anche la grafica del Seicento!”
“ Ah, buonasera, dottoressa! Ha ragione, in realtà non ci capisco nulla. Ma questa raccolta di  disegni è stata scoperta dal mio amico Hagemann, che è anche l’organizzatore e il curatore della mostra: non potevo fargli il torto di non venire.”
“Ci sono delle cose bellissime! Ha visto quella madonna con bambino? Si tratta sicuramente di Pietro da Cortona, il tratto è inconfondibile.”
Morresi si guardò intorno disperato: sembrava che la giovane ricercatrice non avesse intenzione di lasciarlo tanto facilmente. D’altra parte era inevitabile che quando appariva in pubblico dovesse concedersi all’ammirazione incondizionata delle studentesse, delle giovani assistenti e di quella moltitudine di donne di ogni età, assetate di cultura, che comparivano puntuali a tutte le conferenze e a tutte le inaugurazione di mostre. Era innanzi tutto un bell’uomo: l’abito di buon taglio e gli occhiali dalla montatura nera non riuscivano a nascondere il fisico atletico né quel particolare portamento che hanno le persone abituate a stare a contatto con la natura e a misurarsi spesso con situazioni difficoltose.  Il ciuffo ribelle dei folti capelli scuri, che era costretto a ricacciare spesso all’indietro con gesto impaziente, gli conferiva un tocco di simpatica attrattiva. Ma quello che dava al personaggio un fascino del tutto particolare era la fama delle imprese leggendarie legate al suo nome: importanti ritrovamenti archeologici in località impervie e ostili, recupero di reperti trafugati su commissione da trafficanti senza scrupoli, pericolosi scontri con gruppi di ribelli o sbandati in ogni parte del mondo.
“Vuole che le riveli un segreto?” disse Morresi in tono confidenziale alla sua giovane interlocutrice, esibendo il suo sorriso più impertinente. “Questi disegni fortunosamente rinvenuti da Hagemann in uno scantinato della biblioteca mi lasciano completamente indifferente. Quello che mi ha convinto a venire è la favolosa cena che sarà offerta dalla Fondazione che ci ospita…” Aveva colpito nel segno: la ragazza fece una risatina incerta, poi, sfiorata dal dubbio che il professore si stesse prendendo gioco di lei, ritenne più prudente riportare la propria attenzione sui disegni dell’esposizione. Morresi ne approfittò per farle un cenno di saluto e si allontanò facendosi strada lentamente tra la numerose persone che affollavano la sala e si diresse verso la zona dove era stato allestito un piccolo buffet.
“Cosa beve, signore?” chiese premuroso un giovane dall’aria simpatica, in giacca bordò e papillon nero. “Abbiamo un cocktail alla frutta, un aperitivo leggermente alcolico della casa, oppure, se preferisce, un Veuve Clicquot Ponsardin.”
“Lo champagne andrà benissimo.” Portò alle labbra il bicchiere che il ragazzo gli porgeva e si concesse un lungo, piacevole sorso: tutta quella gente e quelle chiacchiere gli avevano procurato una fastidiosa aridità alla gola. Improvvisamente si immobilizzò: non credeva ai propri occhi. Fissò sconcertato la donna che si era affiancata a lui e che stava chiedendo, con una lieve inflessione straniera, il cocktail alla frutta. Sentendosi osservata la donna si girò e lo guardò con aria interrogativa. Sembrò che il professore non riuscisse a sopportare quello sguardo: la sua espressione divenne ancor più stupefatta, arrossì violentemente e un tremito alla mano rischiò di fargli versare lo champagne.
“Mi… scusi…” riuscì a mormorare. E si allontanò rapidamente.

 

Si avvicinò ad una colonna, da dove poteva continuare ad osservare la donna, e vi si appoggiò. Si sbarazzò del bicchiere appoggiandolo sul basamento della colonna e trasse di tasca un elegante fazzoletto bianco cifrato, pulendosi più volte le mani e la fronte. Calma! Doveva stare calmo… In fondo si trattava sicuramente di una semplice coincidenza, una somiglianza come ce ne sono tante. La sua fissazione degli ultimi mesi, il pensiero che correva sempre alla misteriosa Thana, i suoi studi che si erano ormai concentrati esclusivamente e in modo maniacale sulla bella etrusca, gli stavano giocando un brutto scherzo. Eppure… la somiglianza era sorprendente… Si arrischiò a guardare nuovamente la donna. L’elegante abito lungo, che mandava da qualche discreto lustrino alcuni bagliori intermittenti a ravvivare un intenso blu, disegnava una figura perfetta e sinuosa, sottolineando un portamento dignitoso smentito dall’audace spacco che scopriva una lunga gamba ben oltre il ginocchio. Dall’abito emergeva, come una spuma bianca in un anfratto marino, il candore di due spalle il cui orgoglio era sfacciatamente contraddetto da un seno dolce e morbido. Il professore tentò di mettere a fuoco il viso della sconosciuta, cercando di non dare nell’occhio. Impossibile ingannarsi: le fattezze di Thana erano troppo impresse nella sua mente. Questa donna che sbucava da chissà dove aveva la stessa forma obliqua degli occhi scurissimi e leggermente ammiccanti, lo stesso naso diritto, le stesse labbra carnose e regolari con l’attaccatura rivolta verso l’alto come in un perenne sorriso. Aveva persino gli stessi capelli, lunghi e arricciati, che, separati da una netta scriminatura alla sommità del capo, fluivano dietro le spalle, dove erano trattenuti da un fermaglio. Morresi si scoprì a sorridere, incredulo, come ogni volta che qualcosa non gli quadrava. In fondo si potevano benissimo individuare diverse spiegazioni… Forse la ragazza si era semplicemente accorta della propria somiglianza con i visi etruschi, vedendo qualche sarcofago in un museo, e aveva sottolineato la cosa con il trucco e l’acconciatura… O forse era semplicemente affascinata come lui dalla civiltà etrusca… Ma sì, doveva essere così per forza. Si era persino agghindata con i tipici orecchini a navicella, in oro decorato e granulazioni, che ogni orefice toscano imita e mette in vetrina per i turisti. Di nuovo incontrò il suo sguardo. Non era più solo gelido e indagatore, come quello che gli aveva rivolto al buffet, gli sembrava di cogliere ora una inequivocabile sfumatura beffarda. Accidenti, forse lo stava guardando già da un po’ e lui, preso dal suo attento esame, non se n’era accorto. Beh, meglio così… Non si vergognava certo di guardare con intenzione una bella donna. Anzi, la conoscenza andava approfondita, soprattutto se c’era di mezzo un comune interesse per l’archeologia… Si guardò intorno alla ricerca di qualche conoscente cui chiedere le opportune informazioni. Oh, no! Proprio in quel momento lei si stava allontanando verso l’uscita, al braccio di un insignificante signore di mezza età. E tutto perse di interesse.


La tavolata costituiva un bel colpo d’occhio. Le stoviglie raffinate, i calici splendenti, le decorazioni floreali, che facevano da contorno al rosso rubino delle bottiglie di vino pregiato, rasserenarono come sempre l’animo di Morresi, che era un amante della buona cucina. Diede un’occhiata piena di ammirazione alle alte volte decorate che costituivano il soffitto del ristorante, ricavato dal salone di un palazzo quattrocentesco, e si sedette al posto assegnatogli, ringraziando la buona sorte che lo faceva capitare a fianco di uno dei pochi colleghi che stimava: avrebbe potuto scambiare qualche osservazione interessante. Prese una bottiglia e ne studiò un attimo l’etichetta. Brunello di Montalcino. Riserva… dunque era invecchiato di almeno cinque anni… e l’azienda che lo produceva era una delle migliori. Però, la Fondazione non badava a spese… Se ne versò un goccio e ne ammirò il colore intenso che tendeva al granato, prima di accostare il bicchiere alle labbra…

“Lei sta sempre bevendo quando ci incontriamo!”
Impossibile non riconoscere quella voce dall’inflessione straniera. Posò il bicchiere, prima che l’emozione gli facesse versare il vino sulla tovaglia. La bella sconosciuta si era seduta di fronte a lui e lo guardava con i suoi grandi occhi luminosi. Beh, stavolta non avrebbe fatto la figura dello sciocco! Si riprese immediatamente dalla sorpresa per questa seconda inattesa combinazione.
“Sono solo due volte che ci incontriamo: e casualmente c’è sempre una bottiglia tra di noi! Mi dia qualche altra possibilità…” replicò lui, guardandola apertamente, senza nascondere la propria ammirazione.
“Le è piaciuta la mostra?”, chiese lei, cambiando volubilmente discorso.
“Mmmh…il Seicento mi lascia abbastanza indifferente. Mi attira un passato molto più lontano…”
“Lo so, lei è archeologo, la conosco di fama…”
“Ah, beh… questo è un bel vantaggio, non devo presentarmi. Lei sì, però.”
“Io mi chiamo Aleksa, sono originaria dell’Ucraina, esattamente di Kotovsk, vicino a Odessa.”
“Ah, Odessa! La famosa scalinata…”
“Nooo, anche lei… tutti gli Italiani non fanno che parlarmi della corazzata Potëmkin!”
“Non se la prenda: da ragazzi siamo cresciuti nei cineforum. Io però so qualcos’altro, so che avete un bellissimo Teatro dell’opera e del balletto e poi un importante Museo Archeologico, anche se lo conosco poco.”
“Peccato, ci sono dei pezzi bellissimi: materiale greco e romano della zona del Mar Nero.”
Mentre parlava lo guardava dritto negli occhi, senza mai sorridere apertamente, nonostante la leggerezza del dialogo, sempre con l’atteggiamento un po’ altero che lo aveva colpito nel pomeriggio. Morresi si sforzava di essere brillante e disinvolto, ma doveva lottare nascostamente contro un sottile senso di disagio: lo sguardo della donna era ammaliante, nelle sue oscure profondità sembravano rimescolarsi le pericolose occhiate adescatrici di una prostituta insieme al lampeggiare ardente di due occhi innamorati. Era il fascino di Thana che riemergeva dal passato?
“Come mai così lontana da casa?” chiese il professore, fingendo di interessarsi al cameriere che stava servendo gli antipasti e ringraziandolo mentalmente per quel provvidenziale diversivo.
“Una storia come tante” rispose Aleksa con un vago e grazioso movimento della mano. “Ho accompagnato una mia amica in Italia: doveva fare un provino in un’agenzia di modelle. Hanno preso me e non lei… mi è dispiaciuto…”
“Deve essere stato molto tempo fa, lei parla molto bene l’italiano.”
“Sono quasi due anni. Da allora è accaduto di tutto… l’illusione del successo, gli incontri con le persone sbagliate, i lavori umili…”
“Ah… una vera sfortuna! Ma… e adesso?”
“Vuol sapere cosa ci faccio in questa cena importante? C’è di mezzo un uomo, come sempre… un professore dell’Università, un suo collega, ma non posso dirle chi! Mi ha conosciuta al museo di Tarquinia, durante uno dei miei tanti lavori: sostituivo una sorvegliante in congedo per maternità. L’invito era per lui, ma non aveva voglia di venire e l’ha ceduto a me.”
Abbassò lo sguardo sul piatto e cominciò ad assaggiare i ricercati antipasti che erano stati serviti. Usava coltello e forchetta con signorilità, portando alle labbra piccoli bocconi e mangiandoli con discrezione. Il vicino di Morresi approfittò per sibilare all’orecchio dell’amico: “Spudorato play boy… un’altra conquista! Ma questa è veramente una gran bonazza!” L’archeologo però non era in vena di scherzi maschilisti: assestò all’altro una gomitata nelle costole, cercando di non dare nell’occhio ma con una certa energia, tanto da fargli inghiottire di colpo quello che stava mangiando. Poi riportò la propria attenzione su Aleksa, che stava rispondendo educatamente ma con freddezza ad alcune domande che le ponevano i commensali al suo fianco dall’altra parte del tavolo. Notò che anche gli altri uomini erano in imbarazzo e dopo pochi convenevoli abbandonavano il dialogo. Attese il momento opportuno poi, guardandola attentamente negli occhi per cogliere eventuali segni di menzogne o di turbamento, le pose la domanda che gli bruciava dentro fin dal primo istante del loro incontro:
“Mi ha detto che ha lavorato in un museo… E che frequenta un mio collega. Ha mai sentito parlare di una donna etrusca di nome Thana?”
“No. Chi era?” Nessuna esitazione, neanche un battito di ciglia.
“La figlia di un ricco mercante. Una donna notevole. Come lei… Ne ho parlato un po’ di tempo fa in un articolo riguardante l’identificazione del personaggio raffigurato in un vaso. Ora sono alla ricerca della sua tomba.”
“Ah… che cosa interessante!” La donna restava imperturbabile. Dimostrava appena un educato interesse. Morresi decise di giocare più scopertamente.
“Strano… avrei giurato che lei conoscesse bene questa storia, visto che fa di tutto per assomigliare a Thana,” disse fissandola, in tono quasi accusatorio.
“Non capisco…”
“Ma sì: gli orecchini, la pettinatura, il trucco…”
“Lei mi prende in giro…” disse ridendo. Accidenti, non era caduta nella trappola. Voleva metterla a disagio ma lei aveva spezzato la tensione del dialogo con una risata. Era la prima volta che la vedeva ridere apertamente e l’effetto era uno sconcertante gioco di luce, caldo e delizioso. “Questo tipo di orecchini si trova dappertutto” soggiunse, “la pettinatura é l’unica che riesce a tenere in ordine i miei capelli ribelli e il trucco… il trucco… ma, senta, non vorrà mica scoprire tutte le mie armi femminili?”
Mentre parlavano il cameriere aveva servito una porzione generosa di cannelloni dall’aspetto invitante e dall’inconfondibile aroma di tartufo. Morresi controllò il menù, riportato su una elegante pergamena decorata con miniature a colori vivaci che ogni commensale aveva davanti a sé.
“Cannelloni ripieni di spinaci e paté di fegato tartufato” lesse ad alta voce, a beneficio dei vicini. E commentò: “Perbacco! Un piatto leggero! Qui ci vuole una doppia dose di Brunello…” Versò da bere ad Aleksa, chiedendole prima conferma con uno sguardo, poi all’amico, che dopo la gomitata non gli aveva più rivolto la parola, e infine riempì il proprio bicchiere. Concentrò quindi la propria attenzione sui cannelloni, gettando solo qualche rapida occhiata, di tanto in tanto, alla donna, che mangiava lentamente e con la solita espressione distaccata. Era impaziente di riprendere il discorso, ma non voleva venir meno alle regole elementari della cortesia. Attese che i piatti fossero vuoti, poi assunse la sua aria più indifesa e sincera, quella che usava a volte per far colpo su un certo tipo di donna.
“Devo confessarle una cosa” disse sporgendosi sul tavolo verso Aleksa e abbassando la voce. “Avrei dovuto essere più sincero con lei dall’inizio, ma ero troppo sconvolto. Lei assomiglia in modo impressionante a quella donna etrusca, mi creda: ne conosco a fondo ogni minimo aspetto. Non lo dico per far colpo su di lei… sono veramente turbato da questa stranezza. Nei prossimi giorni, se vuole, potrò provarle quello che le ho detto.”
“Ma io le credo. Lei è uno studioso troppo importante per dire sciocchezze. Anzi sono meravigliata anch’io. E molto curiosa. Accetto volentieri la sua proposta: non vedo l’ora di conoscere Thana…”
La risposta rese felice Morresi, che tornò ad appoggiarsi allo schienale della sua sedia, ma, sbadatamente, urtò una delle posate, che cadde. Istintivamente si chinò a raccoglierla. Dovette sporgersi sotto il tavolo per recuperarla e quello che vide lo lasciò senza fiato. C’era un altro mondo là sotto, un mondo in penombra dove il chiacchiericcio dei convitati era un brusio indistinto e lontano. Davanti ai suoi occhi una visione abbagliante, un sipario alzato per un istante su un fugace sogno erotico. L’abito di Aleksa si era completamente aperto in corrispondenza dello spacco e offriva allo sguardo, senza ritegno, due cosce morbide e vigorose allo stesso tempo, saldamente intrecciate tra di loro, quasi in una posizione di difesa. La pelle, che sfumava verso l’alto nelle scure tonalità dell’ambra, si tendeva e si sbiancava sulle ginocchia, che si spostavano a destra e a sinistra in un dondolio lento e minaccioso, come un animale selvatico che stesse per balzare addosso alla sua preda. Il professore si rese conto che non poteva restare in quella posizione più di un attimo. Si rialzò prontamente, rosso in viso e col cuore in tumulto. Si accertò che nessuno lo guardasse in maniera sospettosa… Tutto bene… Anche Aleksa appariva svagata. O forse il suo sguardo era ironico… difficile dirlo. C’era uno strano disaccordo tra la superficie e l’abisso sotto il tavolo: sembravano le gambe di un’altra donna! Morresi non poté trattenere un sorriso, mentre riacquistava la padronanza di sé.

Accadde al momento del dessert. L’archeologo stava gustando degli squisiti, piccoli bignè alla crema, che andavano intinti con una forchettina nel cioccolato caldo, quando un tocco leggero alla gamba lo fece sobbalzare. Forse qualcuno lo aveva urtato. No, il tocco era insistente. Era troppo morbido per trattarsi di una scarpa, doveva essere un piede scalzo. E stava risalendo lungo la sua gamba. Saliva, poi esitava un attimo, scendeva lentamente, per poi salire di nuovo. Sempre più in alto. Guardò Aleksa ma la donna aveva uno sguardo enigmatico, fisso di fronte a sé. Com’era possibile che non gli facesse neanche un cenno d’intesa, che non gli lanciasse un’occhiata provocante. La vide scorrere lentamente in avanti sulla sedia, come volesse trovare una posizione più comoda e rilassata ora che la cena stava per finire. Questo le consentì evidentemente una maggior ampiezza di manovra: infatti lui sentì il piedino farsi più audace, scivolare fino all’inguine… Si cacciò in bocca uno dei piccoli bignè grondante di cioccolato fuso e lo inghiottì di colpo. Guardò di nuovo la donna: il suo sguardo era più gelido che mai! Sentì crescere un’erezione inarrestabile, ebbe per un attimo la visione della gamba di lei sotto il tavolo, che fuoriusciva audace e impudica dallo spacco della gonna per infilarsi tra le sue ginocchia. L’erezione divenne più intensa e quasi dolorosa: fu un sollievo sentire il morbido piede schiacciargli il pene teso e pulsante. Poi, bruscamente, cessò ogni contatto. Vide Aleksa riprendere la posizione eretta sulla propria sedia e sorseggiare con noncuranza il caffè, che nel frattempo avevano portato. Morresi era stravolto, lottava per dominarsi e non far apparire al di fuori l’impetuoso rimescolio del sangue. L’eccitazione, sapientemente provocata e crudelmente interrotta, l’aveva lasciato vuoto e frastornato. Non aveva mai sentito dentro di sé un’impressione di abbandono così forte, il dolore di un distacco così traumatico. Cercò di catturare lo sguardo della donna per comunicarle le sue sensazioni, ma lei appariva distante. Dio mio, doveva essere di ghiaccio! Nulla, neanche la minima alterazione, lasciava intuire in lei quello che aveva fatto. Poi ci fu la chiassosa e disordinata cerimonia dei saluti, tutti si alzavano, strette di mano e sorrisi, congratulazioni reciproche… Si formarono piccoli gruppi che indugiarono in discussioni di vario genere e anche lui fu coinvolto, fu costretto a dare qualche risposta distratta mentre si guardava freneticamente intorno. Sicuramente pensavano che avesse bevuto troppo. E invece cercava disperatamente Aleksa, doveva assolutamente parlarle, avere una conferma della sua audace provocazione, un conferma che il gioco sarebbe continuato… Era scomparsa, approfittando della confusione si era dileguata. Non avrebbe saputo nemmeno dove cercarla.

 

I giorni seguenti furono annebbiati da una pena sottile. Le ricerche riguardanti Thana, invece di distrarlo e appassionarlo come al solito, erano un supplizio, poiché le due donne, l’affascinante etrusca sepolta nel passato e la giovane Aleksa, viva e palpabile, si sovrapponevano ormai nei suoi pensieri come un’unica persona.
Ciò che maggiormente lo tormentava era il ricordo dell’ardente e troppo breve contatto fisico avvenuto durante la cena, non una semplice immagine impressasi nella memoria ma una lacerazione fisica tuttora dolente, una nostalgia acuta sullo sfondo di ogni attimo della sua giornata. Aveva telefonato al Museo di Tarquinia, ma nessuno gli aveva saputo dare notizia di una supplente con quel nome: sicuramente si era inventata tutto… ma perché? A volte, durante tediose veglie notturne o al momento del risveglio, quando la ragione era meno vigile, raggiungeva l’ingannevole certezza che quella donna non esisteva, che Thana gli aveva fatto questo grande dono d’amore, emergendo dal passato per ricambiarlo della sua devozione. Poi naturalmente rideva di se stesso, si infuriava, ripiombava nel suo sconforto.
Lei telefonò una settimana dopo.
“Sono io… sei molto arrabbiato con me?” Arrabbiato… e perché avrebbe dovuto essere arrabbiato. Il semplice suono della sua voce cancellava ogni altro sentimento, una felicità improvvisa e devastante irruppe dentro di lui.
“Aleksa…” riuscì a mormorare.
“Scusami, dovevo liberarmi dell’uomo con cui vivevo prima di parlare ancora con te. Non sopportavo di avere un legame così falso dopo averti conosciuto. Tu… tu hai fatto molto colpo su di me, sei il tipo di uomo che ho sempre sognato…”
Morresi aveva un nodo che gli serrava la gola. “Mi fa piacere…” riuscì a dire stupidamente. Si sentiva ridicolo. Con tutte le donne che aveva avuto, dopo tutte le imprese che avevano inasprito il suo carattere, si sentiva impacciato come un adolescente.
“Spero che la proposta sia ancora valida” disse lei per fortuna, passando improvvisamente ad un tono più allegro e rompendo l’atmosfera languida.
“Quale proposta?”
“Hai detto che potevi dimostrarmi che sono la reincarnazione di un’etrusca.”

 

La luce dorata di uno splendido tramonto ritagliava l’intenso verde scuro delle colline e penetrava nella stanza, scivolando sulla schiena di Aleksa e giocando coi mille ricci dei suoi capelli. Stava sdraiata di lato con metà del suo corpo sul professore, schiacciandolo dolcemente col suo peso, imprigionandogli una gamba con la sua e fissando con serietà il suo profilo.
“Allora, a che punto sono le tue ricerche? Cosa sono tutti questi misteri? Sono quasi due mesi che stiamo insieme, ci amiamo, siamo felici… ma quando si parla della tomba… diventi un estraneo.”
“Scusami Aleksa. Te l’ho detto tante volte: è una questione di scaramanzia. Questa è una grossa scoperta… ho ancora molte incertezze… preferisco non parlarne.”
“Ma io ho condiviso il tuo lavoro in tutti questi giorni e queste notti. Ti ho aiutato, ti sono stata vicina quando qualche contrarietà ti avviliva… se questo non conta niente…” Si sdraiò sulla schiena, incrociò le braccia e guardò il soffitto con quell’espressione gelida che lui conosceva bene. Morresi si appoggiò su un gomito e la guardò. La posizione delle braccia le faceva il seno ancora più grosso di quello che era e i capezzoli intercettavano l’ultima luce mandando una piccola ombra sulle dune calde e rosate di quel piccolo deserto in miniatura. Dio, quant’era bella! Ogni volta lui si meravigliava del delizioso incantesimo che quella donna esercitava su di lui.
“Non dire così. Lo sai quanto sei importante per me. Penserai che sono matto, ma a volte credo veramente che tu sia Thana, venuta miracolosamente da me per aiutarmi nella ricerca della sua tomba.” Le sfiorò pensosamente il seno con due dita, le posò le labbra su un capezzolo poi, leggermente, sulla bocca imbronciata, studiò qualche istante i freddi occhi scuri, altre volte così ardenti da destare in lui un incendio. Poi si sdraiò anche lui a fissare il soffitto. “Dicendoti questa cosa,” continuò parlando lentamente, “metto nelle tue mani tutte le mie speranze, il successo professionale definitivo che ho inseguito per anni, praticamente ti affido tutta la mia vita: penso che più di questo non potrei fare per chiarirti quali sono i miei sentimenti per te.” Fece una piccola pausa, poi disse: “Ho trovato la tomba. Sono già penetrato nel corridoio che la precede, sto scavando intorno alla lastra di pietra che la chiude: ancora poche notti di lavoro ed entrerò. Thana sarà mia, solo mia, e tu dividerai con me il mio trionfo!”


 

“E brava Aleksa! Sapevo che ce l’avresti fatta!” disse Jakov posandole sulla spalla una grossa mano, che lei tolse infastidita.
La squallido stanzone sapeva di birra e di carne alla brace.
“Mi scusi se l’ho toccata!” aggiunse Jakov con sarcasmo e prorompendo subito dopo in una risata grossolana. “Fare la bella vita ti ha riempito di vizi. Ma adesso è finita. Ricordati chi comanda.”
“E dài! Lasciala in pace!” intervenne Arkady. “In fondo è merito suo se stanotte metteremo le mani su un bel mucchio d’oro! Prendi la vodka piuttosto: dobbiamo brindare!”
I due uomini erano uno l’opposto dell’altro. Yakov, tarchiato, muscoloso, col viso squadrato e l’espressione crudele, non riusciva a nascondere la sua indole malvagia. Arkady, alto, magro, dai tratti gentili appena scomposti da un naso lungo e affilato, portava degli occhiali rotondi, con la montatura in acciaio, che lo facevano sembrare un intellettuale russo dell’ottocento.
“Invece di brindare cerchiamo di non fare errori proprio adesso” intervenne il terzo uomo che si trovava nella stanza. Era seduto ad un tavolo e stava esaminando una carta geografica. Si alzò e si avvicinò agli altri. Era un magrolino non troppo alto e apparentemente insignificante, ma i suoi occhi nerissimi mandavano una luce minacciosa e una barbetta sottile e appuntita gli dava un’aria perfida.
“Giusto, Petr, ne avremo di tempo per festeggiare…” convenne Arkady. “Io direi di andare stanotte alla tomba. Se Morresi dice di essere a buon punto, in tre faremo in fretta a finire di scalzare la pietra.”
“Penso anch’io che convenga anticipare” disse Petr. “Meglio non correre rischi.”
“Allora è il momento di far fuori il professore!” si intromise Yakov gongolante.
“Come? Far fuori il professore?” Le parole uscirono dalla bocca di Aleksa come un grido impaurito. “Eravamo d’accordo che non bisognava ammazzare nessuno!”
“Taci tu, stronza! Chi ha chiesto il tuo parere?” disse Petr brutalmente, dandole uno spintone.
“Ragiona, Aleksa,” intervenne Arkady in modo conciliante. “Morresi ti conosce, ha visto me alle sue conferenze e seguirlo nelle biblioteche e nei musei: non ci metterà molto a capire chi lo ha fregato. E se fosse più svelto di quello che sembra? Se sospettasse qualcosa? Dammi ascolto: siamo più tranquilli se lo togliamo di mezzo…”Aleksa ascoltava impietrita, i suoi occhi esprimevano un profondo sgomento.
“Ehi, povera scema,” disse Petr, “non ti sarai mica innamorata! Guarda che sarai tu a fare il lavoretto! Yakov, prendi il cianuro.” Yakov prese una boccetta scura da un cassetto e la porse a Petr, che la mise davanti al viso di Aleksa girandola lentamente tra le dita. “Ti ho già insegnato come si usa… attenta a non fare errori: lo sai cosa ti può capitare se non righi dritto, vero?” Aleksa aveva perso il suo portamento altero, le sue spalle sembravano più curve, i suoi occhi erano sbarrati e persi nel vuoto.
“Va bene, Petr” disse con un filo di voce. “Farò come vuoi, non ti preoccupare…” In fondo al suo sguardo avvilito un ultima fiammella indomita si ostinava a sopravvivere.

 

Un anno dopo


Un sole infuocato e impietoso trasformava in specchio abbagliante le acque tranquille del porticciolo. Un gabbiano solitario faceva lente evoluzioni nell’aria lanciando di tanto in tanto uno strido acuto per poi lanciarsi sulla superficie dell’acqua e risalire subito velocemente. Le barche erano immobili nell’acqua ferma. Da un vecchio cabinato, con il fasciame in legno consunto, si diffondevano le note di un arioso brano per archi. Morresi percorreva il lungo pontile principale con la sua camminata sbieca e dondolante da avventuriero, trascinandosi dietro una corta ombra scura sul cemento irregolare. Si arrestò davanti al cabinato e gettò a bordo una sacca da marinaio prima di afferrare il corrimano di una corta passerella appoggiata sul bordo del molo. Prima di salire sull’imbarcazione indugiò alcuni istanti, gettando intorno un’occhiata circolare. Dietro le lenti bianche, spruzzate di salsedine e assolutamente fuori luogo, i suoi occhi erano una stretta fessura che sfidava spavaldamente il sole. Indossava un paio di jeans scoloriti sui quali i buchi e gli strappi, dovuti non a esigenze della moda ma alla giornaliera lotta con l’esistenza, si mescolavano alle macchie di catrame e di olio lubrificante. Una maglietta consunta, un tempo di colore bianco, recava ancora visibile la scritta St. Patrick Campus e si tendeva sulle spalle vigorose, lasciando scoperte due braccia solide e scurite dal sole.
Era rimasto ben poco del professor Federico Morresi, il brillante archeologo. La gente del porto, che lo chiamava semplicemente Fred, non avrebbe mai immaginato quanti libri aveva scritto e come portava impeccabilmente lo smoking: per loro era solo Fred, quello che accompagnava in giro i turisti con la sua barca, mostrava loro gli anfratti e le sorprendenti grotte della costiera, organizzava escursioni nell’entroterra alla scoperta di rovine e tombe. Le ragazze lo trovavano affascinante, anche se lui girava al largo da tutte, e gli uomini lo trovavano simpatico, perché beveva fino ad ammazzarsi e raccontava avvincenti storie che non finivano mai e che parlavano di etruschi, di gioielli, di donne bellissime.
I suoi guai erano cominciati dopo la scoperta della tomba di Thana. Il mondo accademico non aveva gradito che lui avesse fatto tutto da solo, non rendendo noti i risultati delle sue ricerche, cadendo in contraddizione quando sosteneva che la tomba era inviolata ma che, d’altro canto, qualcuno lo aveva preceduto asportando i reperti più preziosi. I carabinieri lo avevano esasperato con interminabili interrogatori, la Guardia di Finanza aveva rovistato per giorni tra le sue carte e le sue cose, facendogli provare un frustrante senso di violazione della propria persona. Gran parte dell’atteggiamento sospettoso nei suoi confronti era dovuto al fatto che opponeva un ostinato silenzio quando gli si chiedevano notizie di una giovane donna che lo accompagnava spesso negli ultimi tempi. Invariabilmente si trincerava dietro la risposta che si trattava di situazioni personali che non riguardavano l’indagine sulle sue ricerche.
Egli stesso non sapeva cosa pensare. Aleksa era scomparsa senza lasciare la minima traccia. Un tesoro inestimabile era perduto irrimediabilmente e il nucleo dei carabinieri specializzato nel recupero di opere d’arte non era venuto a capo di niente, nonostante le sue precise indicazioni sui pezzi presumibilmente asportati, i possibili acquirenti, le vie che percorrevano un sottobosco criminale che lui conosceva bene. Anzi, più passava il tempo più gli altri ascoltavano con diffidenza o con aperta incredulità la sua storia, tanto che egli stesso, nei peggiori momenti di abbattimento, dubitava di aver mai trovato la tomba. Ma quello che lo faceva maggiormente soffrire era lo struggente vuoto lasciato da Aleksa, doppiamente ladra, doppiamente traditrice. Si lasciò andare a fondo come una pietra in uno stagno. Cominciò a trascurare il lavoro, abbandonò l’Università dopo un aspro diverbio col Rettore e il Direttore Amministrativo, scomparve, per riemergere qualche mese dopo nella piccola cittadina di mare, dove, raccogliendo faticosamente i pezzi della propria vita e della propria anima, aveva ricostruito un abbozzo di esistenza e trovato un precario equilibrio.

Fred guardò con benevola invidia verso la parte del molo dove erano ormeggiate le barche dei ricchi. Si incantava spesso ad ammirare gli ottoni tirati a lucido, gli scafi affilati ed eleganti, il personale di bordo, spesso di colore, con le divise immacolate. La sua attenzione fu attirata da un elegante yacht, ormeggiato poco distante, con scafo e strutture particolarmente raffinati, culminanti in un ardito flying bridge, un’aperta sfida al mare e al vento. Lo specchio poppiero esibiva una tenda da sole a righe bianche e blu, all’ombra della quale una donna, che nascondeva il viso dietro un paio di grossi occhiali scuri, stava languidamente distesa su una sedia a sdraio, reggendo in una mano un sottile calice color smeraldo. Il ridottissimo bikini giallo metteva in risalto un corpo perfettamente abbronzato e, per quel che si poteva giudicare da lontano, dalle misure ben proporzionate e attraenti. Fred esitò un attimo, poi decise di dare un’occhiata più da vicino: nonostante tutto le donne esercitavano sempre una notevole attrazione su di lui. Si finse interessato alle barche, cacciò le mani in tasca per darsi un’aria sfaccendata, si avviò discreto ma deciso verso la lussuosa imbarcazione. Man mano che si avvicinava un senso di inquietudine si impadroniva i lui: quel profilo, quelle forme generose, gli erano familiari… il suo cuore saltò un battito. Dio! Non era possibile! Si arrestò allibito, col petto schiacciato da un’invisibile mano, fissando la donna. Anche lei sembrava in preda a una forte emozione: si alzò in piedi, tolse gli occhiali da sole scoprendo due grandi occhi scuri dilatati dalla sorpresa.
“Federico…” mormorò.
Stettero così, immobili uno di fronte all’altra, per un lungo istante, sospesi fuori del tempo. Dentro di loro sentimenti contrastanti si gonfiavano, sbattevano, si infrangevano come onde impazzite. I loro sguardi erano allacciati, costretti da un invincibile magnetismo, come se ciascuno volesse penetrare dentro l’altro per carpirne i pensieri più occultati, le verità più dolorose.
“Voglio tutta la storia… quella vera…” disse infine Morresi vincendo l’emozione e sforzandosi di dare alla sua voce un tono normale. In realtà tutte le modificazioni chimiche che gli alteravano in quel momento sangue e cervello gli urlavano di superare con un balzo la distanza che li separava, di abbracciarla e baciarla come non aveva mai fatto e solo il pensiero dell’inganno subito lo aiutava a controllarsi. Salì a bordo arrampicandosi su una stretta scaletta e raggiunse Aleksa, che intanto si era seduta compostamente sulla sdraio, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, col viso rivolto verso un punto lontano sul mare, al di là della scogliera, nascondendo lacrime ed emozioni dietro gli occhiali scuri.
“Non è facile…” disse piano mentre il professore si sedeva di fronte a lei. “Tutto è contro di me. Ma tu mi hai chiesto la verità e almeno questo te lo devo. Io… ero come tutte le altre. Sognavamo una vita diversa, magari il successo… C’era una donna, una certa Anja, dicevano che aiutava le ragazze ad andare in Francia, in Italia… Mi piaceva l’Italia, avevo cominciato anche a studiare l’italiano e mi riusciva abbastanza facile perché i miei nonni materni erano rumeni. Mi feci fare delle foto… dicevano che ero carina… e le portai ad Anja. Fu così che loro mi trovarono, Petr e i suoi. Trafficavano un po’ in tutto: armi, droga, ragazze da mettere sulla strada. Poi qualcuno, non so come si chiamava, disse a Petr che c’era da guadagnare molto con i furti di opere d’arte. Ne fecero alcuni: quello sconosciuto dava loro tutte le indicazioni e, a lavoro fatto, tirava fuori un sacco di soldi. Poi un giorno disse ad Arkady di stare dietro a te e di riferirgli tutto quello che facevi: forse te lo ricordi, uno alto, magro, con gli occhiali, per un po’ seguì le tue lezioni… Fu in quel periodo che mi vennero a cercare. Lo sconosciuto aveva spedito le foto di un vaso, dicendo che dovevano trovare una donna somigliante a quella raffigurata nel vaso: beh, puoi immaginare di che vaso si trattava… Anja mi mandò a chiamare, disse che dei signori avevano esaminato i suoi album di fotografie e avevano scelto me per un lavoro, dovevo posare per un servizio fotografico. Non sai che felicità per me in quei giorni, che stupida, infantile felicità… Mi trattarono bene, mi fecero truccare e sistemare i capelli in un istituto di bellezza, mi comprarono dei vestiti, mi fecero conversare due ore al giorno con un’insegnante italiana per imparare bene la lingua… Poi vennero le botte, i ricatti, le umiliazioni, inutile che ti racconti i particolari: non ero che una povera puttana nelle loro mani, dovevo fare quello che volevano. Ribellarsi, scappare, non era che un debole pensiero rintanato sotto la paura, perché loro riescono ad annullare la tua volontà.”
Si tolse gli occhiali e guardò il professore: aveva gli occhi lucidi e le palpebre arrossate e gonfie. Lo sguardo era sfuocato ed esausto. Morresi avrebbe voluto allungare una mano e sfiorare quel viso sofferente ma si fece forza e disse perplesso:
“Tutto questo per un po’ di cocci… impossibile! Loro non potevano neanche immaginare che in quella tomba ci fosse un tesoro.”
“Arkady era furbo” sospirò Aleksa scuotendo la testa. “Ti aveva studiato bene, ti seguiva passo passo, una volta ti rubò perfino degli appunti. Mi ricordo che durante una discussione con gli altri, che a un certo momento si erano scoraggiati, disse che alle lezioni ti brillavano gli occhi: era impossibile che si trattasse di una semplice tomba.”
“Accidenti! Proprio un grande psicologo! E poi che accadde?”
“Il resto lo sai: ci fecero incontrare e mi costrinsero a spiarti. Quando mi dicesti che eri a un passo dalla scoperta li avvertii. La stessa notte penetrarono nella tomba e portarono via tutto ciò che ritenevano di valore.”
“Maledetti!” ringhiò sommessamente il professore, cacciandosi le unghie nei palmi delle mani. “E tu… tu, come fai a confessare tutto questo così… così… con distacco, con indifferenza…”
“La storia non finisce qui” lo interruppe Aleksa. Il suo tono era divenuto più determinato. “Quelle carogne e lo sconosciuto che li manovrava non avevano previsto una banale complicazione: io mi ero innamorata di te…”
“Ah, per favore, lascia perdere…”
“Sì, innamorata, non saprai mai quanto… Tutte le mie disavventure, i giorni trascorsi al tuo fianco, mi avevano aperto gli occhi, mi sentivo una donna nuova, come se una lunga malattia avesse smesso di opprimere la mia mente, alzandosi come una nebbia fitta e scoprendo un mondo luminoso. Quando mi ordinarono di ucciderti…
“Cosa? Uccidermi…”
“Sì questo era il piano, dissero che era più sicuro. Mi sentii morire… poi, dentro di me, prese forma e divenne sempre più intensa una sconosciuta sensazione di forza, la bramosia di vendicarmi… mi sentivo invincibile… quei poveri delinquenti da quattro soldi! Ma io ero molto più furba di loro! Misi il cianuro che avrei dovuto somministrare a te in una gigantesca pasta e fagioli che mi avevano fatto preparare per festeggiare il colpo, tutta la boccetta, soffrirono come cani, nonostante tutta la vodka che si erano scolati.”
“Oh, no… ma è orribile…” disse piano il professore, guardando incredulo Aleksa, che esaltata dal proprio racconto, aveva di nuovo assunto il suo sguardo gelido e il suo portamento altero.
“Poi feci sparire tutto quello che poteva ricollegarli a me o a te. Mi misi al volante del pulmino sul quale avevano accuratamente disposto tutti i pezzi portati via dalla tomba, passai all’agriturismo a ritirare la mia roba e mi presentai io all’appuntamento con il compratore. Lui non ebbe sospetti, sapeva chi ero e io dissi che gli altri non volevano farsi vedere in giro per un po’. Esaminò attentamente la refurtiva, servendosi di lenti, reagenti chimici e altri strumenti, un vero professionista, poi mi consegnò dei documenti che portavano l’intestazione di una banca svizzera. Erano già d’accordo con Petr sulla forma di pagamento: l’apertura di un conto e un versamento… Mi indicò la somma con un dito, per avere la mia approvazione: era una somma enorme…”
“Incredibile… quello che mi racconti è incredibile.”
“E’ la verità, la semplice verità. A me in fondo è andata bene: sono ricca, come vedi. Per te è diverso: ho pensato molte volte a quale deve essere stata la tua rabbia, la tua disperazione… Questo amareggia la mia vita, che tu ci creda o no, non riuscirò mai a essere felice… A meno che…”
“A meno che?”
“Federico, come fai a non capire?” Aleksa lo guardò con intensità: i suoi occhi sembravano raccogliere tutta la luce del mare. “Io continuo a pensare ai giorni passati insieme, ai momenti di smisurata felicità, i soldi non sono nulla a confronto di questi ricordi…” Gli afferrò le mani e soggiunse: “Perché non dividi tutto questo con me?”
Morresi era stordito dagli ultimi eventi, dalle parole della donna, aveva l’aria attonita di chi si è appena ripreso da uno svenimento.
“Vieni!” disse con entusiasmo. “Voglio mostrarti una cosa, prima che ritorni l’equipaggio.” Lo costrinse a seguirla giù per un paio di scalette e lungo uno stretto corridoio. Aprì la porta di un’elegante cabina, lo fece entrare e si richiuse la porta alle spalle. Da un armadietto estrasse un bauletto di ciliegio con raffinate decorazioni in ottone e lo aprì, usando una chiave che custodiva nello scomparto segreto di un necessaire da viaggio. Morresi diede un’occhiata al contenuto e si ritrasse come se avesse ricevuto un colpo in pieno viso. Aleksa lo guardava con la coda dell’occhio, sembrava divertita. Estrasse lentamente alcuni oggetti posandoli sulla coperta blu del letto: un paio di ricchi orecchini con pendente a testa femminile, alcune coppe con figure rosse di danzatrici su fondo nero, un raffinato bronzetto raffigurante una dea, una lunga fibula in oro decorata con un corteo di animali, un bracciale a larghe strisce in oro sbalzato, una splendida collana decorata da dozzine di sferette pendenti, ghiande, teste di leoni e di satiri.
“Non ho avuto il coraggio di vendere tutto. Ho pensato che, se mai un giorno ti avessi incontrato, ti avrebbe fatto piacere avere queste cose.”
Il professore continuava a fissare i gioielli con le labbra leggermente dischiuse, senza fiato, mentre il sangue gli martellava le tempie. Nei suoi occhi cominciava a formarsi il brillio di un sorriso.
Dal grande oblò della cabina la luce del sole che si approssimava al tramonto danzava volubile su quella miriade di superfici dorate.

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