La suora


Le luci della città si inseguirono sempre più veloci in una notte nera e odorosa di fumo rugginoso. Fabrizio alzò con un colpo secco il vetro del finestrino, attutendo il monotono sferragliare delle ruote sui binari, che a tratti perdeva il ritmo su inaspettati scambi per riprenderlo poco dopo con battute e pause nuove.
Si avviò per il lungo corridoio del vagone, ondeggiando e sforzandosi di non sbattere contro le pareti degli scompartimenti, che, ad intervalli regolari, creavano zone di luminosità più intensa. Procedeva lentamente, per avere la possibilità di studiare con attenzione i passeggeri e poter decidere, con una sola occhiata, se la compagnia o l’atmosfera dello scompartimento invitavano ad entrare e sedersi o se, al contrario, suggerivano di proseguire.
In realtà Fabrizio, in maniera neppure tanto inconscia, sperava sempre nell’incontro avventuroso: la bella donna sola e attraente, due gambe lunghe e polpose che facevano bella mostra di sé sotto il luccicore delle calze, appena coperte da una gonna dispettosa che il movimento del treno spingeva inesorabilmente verso l’alto. L’incontro poteva avere diversi sviluppi e lui li immaginava tutti, uno per uno mentre procedeva da un vagone all’altro e giungeva infine alla coda del treno per constatare con disappunto che anche per quel viaggio il sogno era rimasto tale. E di nessuna consolazione era l’inquietante vista dal finestrino dell’ultimo sportello: i binari che si restringevano per perdersi velocemente nella notte. Annoiato e depresso si sedette preparandosi a trascorrere il tempo leggendo. Diede un’occhiata di malavoglia agli appunti presi durante una riunione di lavoro e quasi subito la luce debole, il dondolio del treno e la stanchezza lo fecero scivolare impercettibilmente in un torpore tutto sommato piacevole.
Spalancò gli occhi di colpo sentendo scorrere la porta dello scompartimento e guardò contrariato la persona che stava entrando: una suora, alta e nera, con una grossa valigia di cuoio. Abbassò lo sguardo imbarazzato e finse di concentrarsi sullo studio attento delle pagine che aveva in mano, mentre in realtà, di sottecchi, non perdeva un movimento della religiosa.
"Ma guarda te!" pensò. "Con tutti i personaggi che mi potevano capitare come compagni di viaggio, proprio una suora… Sembra quasi una presa per il culo! Volevi una donna? Eccola, stronzo! Ma se spera che l’aiuti a mettere su la valigia… Voglio proprio vedere come se la cava…"
La suora intanto era entrata e aveva richiuso la porta dietro di sé. Girò le spalle al compagno di viaggio, si chinò, sollevò la valigia con movimento sicuro ed elegante e la collocò senza sforzo sulla reticella. Fabrizio non fece in tempo a sorprendersi. Il suo sguardo fu improvvisamente attirato da un particolare incongruo, una visione fugacissima che lo svegliò completamente dal torpore della sonnolenza e gli attraversò il corpo come una corrente elettrica: mentre la suora allungava le braccia verso l’alto, la sua lunga veste nera si era alzata di qualche centimetro, scoprendo il tacco alto e sottile di un paio di scarpe molto eleganti e femminili e due ben modellate caviglie fasciate da incredibili calze a rete.
Si nascose di scatto dietro gli appunti che aveva ancora in mano e attese prudentemente qualche minuto. Poi abbassò lentamente le pagine e vide che la suora, dopo essersi seduta, aveva appoggiato il capo all’indietro contro il sedile, con aria sfinita, tenendo gli occhi chiusi e consentendogli in tal modo di studiarla meglio. Aveva un bel viso dalla carnagione scura, con gli zigomi molto alti che le conferivano un’espressione altera, quasi crudele, ampiamente smentita da una bocca morbida, ben disegnata, con due fossette laterali che sembravano promettere in permanenza l’inizio di un sorriso. Fabrizio si sorprese ad immaginare come sarebbero state invitanti quelle labbra, ravvivate dalla tonalità squillante di un rossetto.
La suora si mosse, sistemandosi meglio e muovendo il capo a destra e a sinistra con una smorfia di sofferenza appena accennata. La parte bianca del velo, che le racchiudeva il capo come un’armatura e le incorniciava il viso in un ovale perfetto, doveva essere molto fastidiosa, così come la grande ala nera che scendeva su ambo le spalle imbarazzando i movimenti e costringendo il collo in una posizione eretta e innaturale. Chissà cosa nascondeva sotto quella tonaca! Perché quel particolare civettuolo delle calze a rete? L’immaginazione di Fabrizio galoppava: osservò il corpo che il tessuto drappeggiato lasciava a malapena intravedere e si accorse che la donna teneva le gambe accavallate, in una posizione molto femminile, cosicché la stoffa scivolava ai lati della gamba sovrastante, modellando una coscia che appariva lunga e morbida.

Aprì gli occhi senza preavviso. Fabrizio se li trovò davanti senza poter far nulla per nascondersi, bloccato come un imbecille nella sua espressione sorpresa: erano occhi di uno sconvolgente colore scuro, seri, indagatori. Per un attimo fu colto dal panico, ma si riprese quasi subito. Assunse un tono che voleva essere scontroso e borbottò qualche parola: "Mi scusi… stavo guardando il suo… il suo velo. Bello. Ma un po’ scomodo mi pare." E si chinò ostentatamente a studiare i suoi appunti. "Che figura da deficiente!" pensò, mentre sentiva il viso avvampare per l’imbarazzo, " Si può essere più cretini… ma dài, è solo una suora… chi se ne frega!"
Lei non aveva detto una parola e continuava a tacere. Poiché lui fissava ostinatamente i suoi fogli non poteva sapere cosa stesse facendo. Si era rimessa a dormire? Lo stava guardando con ironia? O con aria di rimprovero? Si fece forza e alzò un attimo lo sguardo: a tutto era preparato fuorché a quel sorriso luminoso e seducente. Sentì agitarsi dentro qualcosa che lo sorprese, come se qualcuno avesse urtato uno strumento musicale nascosto, ricavandone un suono inaspettato. "Non deve scusarsi" disse per fortuna la suora, liberandolo dal suo turbamento, "noi religiosi siamo abituati alla curiosità della gente. Comunque ha ragione, questo velo è veramente una tortura!"
Fabrizio non trovò di meglio che sorridere a sua volta, come uno sciocco, e riprendere la lettura. Ma non vedeva neanche una parola, la vicinanza di quella donna lo metteva in uno stato di febbrile eccitazione. Le fugaci visioni dell’incredibile sorriso, degli occhi scintillanti, delle calze si mescolavano in una nebbia multicolore che gli opprimeva la mente e a cui si aggiungeva ora anche l’eco lasciata da quella voce calda, profonda, con un leggero accento straniero che non riusciva a identificare.

La stazione era affollata e rumorosa. Il vociare dei passeggeri che scendevano dal treno appena giunto era sovrastato dalle parole distorte degli altoparlanti e dai suoni caratteristici di altri treni in partenza: sportelli sbattuti, voci concitate, stridore acuto di fischietti. Pungevano le narici sgradevoli odori metallici. Fabrizio stava nascosto dietro una colonna, in una zona d’ombra, ridendo di se stesso ma ben deciso a pedinare la misteriosa suora. Dopo il rapido scambio di battute lei si era rimessa a riposare e lui a fingere un’improbabile lettura. Questo gli aveva consentito di rilassarsi ma non aveva diminuito l’impressione intensa che la donna aveva fatto su di lui: se si fosse trattato di una ragazza avrebbe riconosciuto senza problemi i segni di un’attrazione immediata e senza scampo, cui far seguire un approfondimento della conoscenza e un serrato corteggiamento. Ma la suora era un’altra cosa: era affascinato e incuriosito. Era, dovette riconoscerlo, soggiogato. Per questo ora si nascondeva in attesa che lei, dopo essere scesa dal treno ed essersi guardata intorno con apparente indecisione sul da farsi, prendesse una qualche direzione.

La suora afferrò con decisione la valigia e si avviò con passo rapido verso l’uscita. Aveva un incedere flessuoso ed elegante, accentuato dall’abito lungo e dal velo, e sembrava che il peso del bagaglio non le fosse di ostacolo. Fabrizio non ebbe difficoltà a seguirla tra le numerose persone che animavano l’atrio e, fuori, sul marciapiedi, lungo la fila tortuosa dei passeggeri in attesa dei taxi. E adesso, come non perderla? La risposta venne da decine di situazioni da film: Fabrizio superò maleducatamente quelli che erano davanti a lui, ignorò le proteste e gli insulti della gente e con un balzo deciso riuscì a salire sul taxi immediatamente successivo a quello preso dalla suora. Non poté fare a meno di sorridere sentendosi pronunciare la ridicola ma inevitabile battuta "Segua quel taxi, per favore!"

 

Era una piazzetta rotondeggiante e silenziosa, in una zona residenziale non troppo lontana dal centro, su cui si affacciavano alcune ville del primo novecento, circondate da muri di cinta da cui scendevano rigogliosi rami di piante rampicanti. "Si fermi qui" disse prontamente Fabrizio al taxista, vedendo che la suora si era fermata davanti a uno dei tanti cancelli. Sperò vivamente che lei non si girasse: avrebbe potuto insospettirsi vedendo un altro taxi fermo alla stessa destinazione. Ma fortunatamente lei suonò subito un campanello, tenendo gli occhi fissi sull’unica finestra illuminata di un edificio scuro al centro di un ampio giardino, e, dopo lo scatto dell’apriporta, entrò senza bisogno di voltarsi, poiché il cancello si richiuse da solo con un colpo secco.
Fabrizio attese qualche minuto, pagò e licenziò il taxi, poi, cercando di darsi un atteggiamento naturale, fece il giro della piazzetta e si fermò a leggere il nome sul campanello suonato dalla suora. La scoperta era ovvia e lo lasciò deluso: si trattava con ogni probabilità di un pensionato gestito da suore, verosimilmente frequentato da studentesse e da religiose o pellegrine di passaggio. Sotto la denominazione dell’istituto, più in piccolo, un nome inconfondibilmente spagnolo indicava colei che doveva essere la madre superiora, o qualcosa del genere.


La sua pista finiva lì. E adesso? Provava un forte senso di frustrazione e di impotenza. Si avviò a piedi, nonostante la stanchezza, cercando di riconoscere la zona e orientandosi in modo approssimativo. Poi, la tabella di una fermata d’autobus gli venne in aiuto e gli risparmiò ulteriori vagabondaggi alla cieca. Sballottato dal mezzo pubblico pressoché deserto, con la mente parzialmente offuscata dal sonno, ipnotizzato dalle luci della città oltre il finestrino impolverato, sentì crescere dentro di sé uno strano senso di esultanza. "Che idiota!" pensò. "Non mi sarò mica innamorato di una suora!"

Il mattino seguente, di buonora, era appostato davanti al pensionato di suore spagnole. Aveva dormito pesantemente e si era svegliato, completamente riposato, al primo flash scattato dalla luce del giorno: gli occhi ammaliatori della suora incontrata in treno erano stati l’ultima immagine prima del sonno che, per fortuna, gli aveva concesso rapidamente tregua. Si era liberato con un paio di telefonate degli impegni di lavoro ed eccolo lì a fissare un cancello, senza nemmeno rendersi conto delle proprie intenzioni. Dopo neanche mezz’ora la sua pazienza fu premiata. Preceduta dal solito rumoroso scatto automatico del cancello che veniva aperto dall’interno, comparve la suora, che si avviò con sicurezza lungo un lato del marciapiede. Fabrizio fu colto alla sprovvista, non immaginava che il suo appostamento avrebbe avuto un successo così rapido. Si sforzò di pensare lucidamente, si guardò intorno con circospezione e si mise a seguire l’agile e flessuosa figura nera, ripassando mentalmente tutte le prudenti manovre che aveva predisposto per non farsi individuare.
Mentre procedeva a tratti, fermandosi dietro gli angoli e gli alberi o fingendo di studiare eventuali vetrine di negozi, non poteva fare a meno di osservare affascinato l’andatura elegante e disinvolta della donna, la posizione eretta del capo velato, un ancheggiare appena accennato ma che ben poco aveva di religioso. Improvvisamente lei attraversò la strada per raggiungere una stazione della metropolitana sull’altro lato e costringendo Fabrizio a una spericolata corsa tra le auto per non perderla mentre scendeva le scale. Non fu facile poi procurarsi un biglietto senza farsi scorgere, salire sullo stesso vagone mimetizzandosi tra la folla provvidenzialmente numerosa, scendere alla stessa fermata.

Riemersero in centro, tra il variopinto e multiforme viavai del mattino arricchito da parecchi turisti impacciati e col naso all’insù. Dopo un breve tratto, percorso sempre con grande sicurezza, la suora si arrestò di fronte a una chiesa, ammirandone la facciata, soffermandosi sui particolari, indugiando attenta come se volesse imprimersi qualcosa nella memoria.
Finalmente entrò. Fabrizio la seguì con cautela utilizzando una delle due porticine laterali, che, verso l’interno, erano mimetizzate da due pesanti tende di velluto scuro. Dietro una di queste tende Fabrizio lasciò passare qualche minuto, poi ne scostò un lembo con la massima prudenza e si decise infine a dare un’occhiata.
La chiesa era a tre ampie navate, divise da alte arcate ogivali: la vastità dello spazio, la semplicità delle linee, la penombra producevano una profonda impressione di severa maestosità. Lungo le navate laterali si aprivano diverse cappelle che gettavano sprazzi di luce sul pavimento, ridestandone lucidi colori marmorei. Sullo sfondo si intuiva una folla di figure affrescate in tinte vivaci, animate da lame di luce colorata provenienti dalle grandi vetrate laterali.
Fabrizio restò un attimo soggiogato da quella atmosfera silenziosa e solenne, poi cominciò ad esplorare tutti gli angoli alla ricerca della suora, ma non riuscì a individuarla e per un attimo temette di averla persa. Abbandonò il suo punto di osservazione, cercando riparo dietro i pilastri e le colonne per esaminare meglio l’interno delle cappelle, e finalmente la vide. Era appoggiata ad un vecchio inginocchiatoio di legno scuro, in atteggiamento di preghiera, immobile, al centro di una piccola cappella, dominata da una grande pala d’altare che rendeva il piccolo ambiente grandioso e suggestivo. Una moderna ma discreta illuminazione artificiale donava vita a un gruppo di figure dalla fissità ieratica: una madonna con bambino, alcuni santi, degli angeli musicanti, un guerriero di nobile aspetto ritratto mentre indossa ancora l’armatura e si inginocchia devotamente ai piedi della vergine. Nella superba cornice, ricca di elegantissimi ornati, erano incastonati, intorno alla grande tavola centrale, diversi scomparti con altre raffigurazioni di carattere religioso.
Fabrizio non osava nemmeno respirare. L’immobilità della suora era tale da farla sembrare una delle figure rappresentate nel grandioso quadro. Qualcosa però lo incuriosiva: la donna non fissava il volto della vergine, come sarebbe stato logico supporre, né aveva il capo chino, come si conveniva ad un’umile religiosa, sembrava invece studiare con attenzione una delle formelle laterali. Fabrizio si spostò in una posizione che gli consentiva di vedere la suora di profilo e seguì la direzione del suo sguardo, uno sguardo scintillante, inquietante, che gli provocò un leggero brivido e che era inequivocabilmente fissato su una formella che rappresentava San Giorgio che uccide il drago. Cosa poteva significare? Forse la suora era una devota di San Giorgio? O la storia del drago la coinvolgeva particolarmente?
Si fece forza e si staccò malvolentieri da quella strana visione. Aveva rischiato fin troppo.

Il brusio della gente e la luce del sole che aveva ormai inondato la strada lo riportarono in una dimensione più concreta. Era pieno di dubbi. Si sentiva fortemente attratto dalla donna che intravedeva sotto l’austero abito della religiosa. Non solo, il comportamento di lei gli appariva misterioso: o era solo la sua fantasia che gli giocava brutti scherzi? Si nascose dietro l’angolo di una traversa, da dove poteva tener d’occhio il portale della chiesa.
Poco dopo la suora uscì. Fabrizio agì d’impulso: si avviò verso di lei, camminando a testa bassa, deciso a provocare un incontro. Arrivato a pochi passi alzò il viso e si finse allegramente stupito: “Ehi, buongiorno!” disse con un tono che si augurò abbastanza disinvolto. “Noi ci siamo conosciuti in treno!”
La suora sembrò molto meno stupita e imbarazzata di quello che lui si aspettava. Gli piantò addosso i suoi incredibili occhi neri e per un attimo sembrò incollerirsi, poi lo sguardo si addolcì e sul viso della donna si accese ancora una volta quel sorriso delizioso che a Fabrizio procurava sempre una piacevole contrazione nel centro più profondo del corpo.
“Com’è piccola questa grande città!” Il suo tono aveva forse una sfumatura ironica? “Devo comunque rammentarle che io sono una religiosa. Di solito mi trattano con più… come dire… distacco.”
“Ah… mi scusi… vedendola così…è proprio una combinazione! Mi è venuto spontaneo trattarla come…”
“Vuol dire trattarmi come una ragazza qualsiasi?”
“Beh, sì… Comunque io sono fatto così: tratto tutti come se fossero persone, voglio dire non secondo il sesso, o il lavoro, o l’età, come individui con determinati sentimenti, determinate idee…”
“Questo è molto bello. Però adesso è meglio che ci salutiamo. Dio la benedica.”
“No, aspetti. Devo dirle una cosa.” Accidenti, non doveva permettere che si sganciasse, doveva parlarle, conoscerla meglio, doveva capire… ma cosa?
“Mi dia ascolto. Devo andarmene. Non abbiamo niente da dirci.” Adesso era veramente spazientita. Si girò e accennò ad andarsene. Fabrizio disperato le afferrò d’istinto un braccio, poi si rese conto dell’inopportunità del suo gesto e chinò gli occhi a terra confuso. La suora lo guardò freddamente, sembrò per un attimo indecisa sul da farsi, poi i suoi occhi si stemperarono in una tonalità malinconica.
“Allora, cosa c’è?” disse in tono rassegnato.
“Sono veramente imperdonabile… ma… fin da quando l’ho vista la prima volta, in treno, ho avuto la sensazione che lei fosse una …persona molto particolare. Io …mi sono anche sentito …attratto da lei. Come da una donna …normale.”
La suora indietreggiò vivamente, come se fosse stata colpita. Di nuovo il suo sguardo divenne duro.
“No, non si arrabbi!” pregò Fabrizio. “Non volevo offenderla. Ma non crede che sia meglio dirle le cose, anche se non sembrano giuste? Questo sentimento istintivo nei suoi confronti non l’ho chiesto io, me lo sono ritrovato. Cosa ci posso fare? E non mi dica che devo pregare: penso non sia una novità per lei che al mondo ci sono anche i non credenti.” Beh, adesso l’ho detta grossa, pensò Fabrizio. Accidenti a me, adesso questa mi pianta qui e se ne va.
Invece la suora non si scompose. Lo fissava con i suoi grandi occhi scuri e il suo sguardo improvvisamente si addolcì.
“Senta, io ho una gran fame. E se mangiassimo qualcosa insieme?” chiese con aria maliziosa, lasciandolo veramente sconcertato. “Non si senta in imbarazzo, da queste parti è pieno di preti e suore che vanno a pranzo con gente in abiti civili. Così mi terrà compagnia e mi esporrà meglio le sue strane idee.”

 

Sia il pranzo che il pomeriggio non avrebbero potuto essere più divertenti: Fabrizio non immaginava che si potesse godere di una compagnia così brillante. La suora lo stupì con una conversazione colta ma non pedante, spiritosa, avvincente quando si trattava delle sue avventure in giro per il mondo alla ricerca di diseredati da sollevare dalle loro condizioni di miseria. Mostrò di conoscere le cose della vita, affrontò gli argomenti più imbarazzanti con disinvoltura ed acume, del tutto libera da pregiudizi. Fabrizio tentò con cautela di indagare sui motivi del suo viaggio, accennò prudentemente alla chiesa da cui l’aveva vista uscire, ma non ottenne che qualche generica risposta e ritenne opportuno non insistere.
“Non so neanche come chiamarti” le disse a un certo punto.
“Puoi chiamarmi Suor Morena. O semplicemente: sorella.”
Poi, sollecitato dagli incoraggiamenti di quella che ormai considerava un’amica, Fabrizio le aveva parlato del suo lavoro di geologo, cosa che di solito faceva malvolentieri, e si era lanciato nel racconto semiserio della propria vita, condito da quelle riflessioni filosofiche e psicologiche che costituivano il suo modesto credo, la sua visione del mondo. Che ebbe comunque il buon gusto di esporre in tono ridanciano e autoironico.
Nel tardo pomeriggio, dopo che ebbero passeggiato lungamente e senza meta, ammirando quegli angoli che la città esibiva loro senza preavviso, come in un itinerario turistico scombinato e casuale, la suora lo trascinò a vedere una mostra di quadri. “Devi assolutamente vederli, è un’occasione unica!” disse con entusiasmo contagioso. “Dopo si disperderanno per tutti i musei da cui provengono e non si riuscirà più a vederli tutti assieme!” Naturalmente si rivelò una guida perfetta: non solo conosceva autore, significato e storia di ogni capolavoro esposto, ma dava di qualsiasi cosa un suo giudizio personale, talmente acuto che non potevi non condividerlo e restarne meravigliato. Fabrizio, che amava tutto ciò che era bello, la seguiva volentieri, affascinato, ma guardava distrattamente i quadri e seguiva più il suono della voce che le parole. La sua attenzione era sempre più attratta da quella donna eccezionale. Ormai non vedeva più la veste religiosa, ma si perdeva continuamente in quegli occhi incredibilmente scuri, provando a volte quasi un senso di vertigine, accarezzava con lo sguardo le sfumature ambrate di quella pelle levigata e morbida e, dio mio, quando lei si muoveva, non poteva fare a meno di cogliere una curva sinuosa, un movimento dolce, una superficie tornita: visioni appena accennate ed ambigue che colpivano però i suoi sensi sovreccitati più di una nudità esplicita e ammiccante. Si stava cacciando in un brutto guaio, se ne rendeva conto, ma si sentiva scivolare leggero per un sentiero in discesa, comodo, gradevole, irresistibile.
“Adesso devo proprio tornare. A quest’ora tutte le monachelle sono nel loro convento tranne me.”
“Ma… e quando ci rivediamo?”
“Sai bene che non è possibile” disse improvvisamente fredda e distante. “E’ stata una bella giornata: mettila tra i tuoi ricordi.”
“Ma io…”

“Io cosa?”
“Dai, non far finta di non capire! Non vedi che sono innamorato come un povero matto? Non vedi che è tutto il giorno che sono in balia della tua voce, del tuo sorriso, non sono più io, esisto solo se tu mi guardi…”
“Fabrizio, non devi dire così. Ci conosciamo da poche ore, è solo un capriccio. L’amore è un sentimento molto grande e importante, e comunque non possiamo condividerlo.”
“Ma io ti amo con tutto il mio corpo. Non posso ignorare i segnali che mi manda: i miei nervi, i miei muscoli sono tutti protesi verso di te, il mio sangue, i miei ormoni corrono nelle mie vene e mi fanno esplodere, mi spingono ad abbracciarti, a stringerti fino a compenetrarmi con te.”
“Oh, no…ti prego…”
“Non esiste solo la purezza che voi predicate” insistette Fabrizio, mentre la sua voce cominciava a vibrare, dolorosa e sincera. “L’amore è qualcosa di concreto, ci sono le fantasie, le passioni, i grandi spazi nella mente, ma c’è anche il fatto che io sento il mio volgarissimo pene grosso e caldo e sento i miei slip appiccicosi perché lui non sa che sei una suora e sta preparandosi ad accoppiarsi con te…” Si fermò di colpo, aveva esagerato, trattene il respiro come se dovesse accadere qualcosa di irreparabile.
Ma la suora lo fissava con particolare intensità, sembrava volesse indagare a fondo la sua anima, poi, inaspettatamente, il suo irresistibile sorriso illuminò la notte. “Nasconditi dietro il muretto” disse con tono da cospiratrice. “Tratterrò il cancello in modo che non si richiuda. Aspetta qualche minuto, poi entra e stai attento che il cancello non sbatta. La porta d’ingresso è sempre aperta, basta spingerla. Ehi, hai capito bene?”
“Scusami, sono stordito. E felice. Ma è vero quello che sento?”
“Sei veramente di poca fede! Ascolta: una volta dentro vedrai alla tua sinistra un corridoio poco illuminato. Percorrilo fino in fondo e sali al primo piano: la mia stanza è la terza sulla sinistra.”
“E le suore?”
“Non preoccuparti, sono tutte molto anziane. A quest’ora o dormono o pregano, nessuno si accorgerà di te.”
Si fece aprire il cancello, gli diede un’ultima occhiata furbesca e scomparve nel buio del giardino.

 

I suoi grossi seni, schiariti dalla luce della lampada sul comodino, sobbalzavano come due animali selvatici. La voluminosa massa dei capelli neri ondeggiava con ritmo lento e sinuoso, invadendo ogni tanto le spalle e il viso fino a quando lei, con un gesto rapido e quasi rabbioso del capo, non la ricacciava indietro, scoprendo alla debole luce i lineamenti perfetti, solo leggermente alterati da una trasognata espressione di assoluto piacere.
Tutto era accaduto come in una sequenza cinematografica di cui era protagonista qualcun altro. Fabrizio era penetrato, silenzioso come un ladro, nel lungo corridoio dal parquet odoroso di cera, era salito facendo i gradini a due a due per una scala appena rischiarata da una luce fioca,  si era appoggiato ansimante alla porta indicatagli, aveva deglutito e spinto la maniglia verso il basso guardando incredulo la porta che si apriva lentamente.
“Su, entra e chiudi a chiave. Fai piano!” aveva detto lei con voce urgente e soffocata. E lui aveva ubbidito come un automa, senza riuscire a staccare gli occhi dalla morbida e fluente massa di capelli corvini che il velo rigido aveva liberato alzandosi come un grande uccello in volo. Quindi aveva visto sorgere dalle vesti opache lo splendore del corpo perfetto sul quale la tenue luce della lampada scivolava e danzava disegnando delicate superfici che chiudevano la gola e toglievano il respiro. Il resto era accaduto da solo, con l’accompagnamento di una musica fatta di fruscii, di sospiri, e il sottofondo pulsante e cupo del battito cardiaco sempre più accelerato. Lei lo aveva fatto sdraiare e si era messa con naturalezza sopra di lui, conducendo il gioco e guidandolo sicura verso un piacere di intensità sorprendente, premendogli la mano sulla bocca per paura che urlasse e dominandosi lei stessa con fatica, come si poteva intuire dai gemiti repressi e dai violenti spasmi che scuotevano il suo corpo.


Fabrizio si svegliò faticosamente, infastidito dalla luce del mattino che lo strappava impietosa da un sonno pesante. Socchiuse gli occhi e restò un attimo confuso e disorientato. Poi di colpo ricordò tutto. Si drizzò a sedere, immediatamente lucido, e cercò con lo sguardo la sua compagna. Nessuno, la stanza era deserta. Chiamò sottovoce, ma il vuoto si beffava di lui. Lo sportello dell’armadio, spalancato, sembrava un’inquietante smorfia nei suoi confronti. Balzò in piedi mentre l’ansia si faceva strada nella sua mente. Non c’era più niente di lei, un oggetto, un abito, una valigia. Scomparsa. E adesso? Si rivestì rapidamente, fece un minimo di pulizie al lavandino nascosto dietro un tramezzo, socchiuse la porta spiando con estrema cautela il corridoio. Nessuno, per fortuna. Cosa avrebbe raccontato se avesse incontrato qualcuna delle vecchie suore? Scese in punta di piedi le scale. Tutto era deserto, forse a quell’ora le religiose stavano assistendo a qualche funzione. In una guardiola accanto alla porta d’ingresso una monaca stava parlando al telefono, però non guardava verso di lui: forse sarebbe riuscito a sgattaiolare fuori senza farsi vedere. Ma c’era da superare il cancello: come fare? Ebbe un’ispirazione. Allungò un braccio tra le inferriate e riuscì a suonare da dentro. Trattenne il respiro. Poi udì lo scatto familiare: forse la suora di guardia, impegnata al telefono, aveva aperto automaticamente. Rifece il percorso a ritroso, aprì di nuovo la porta d’ingresso e, con il tono più naturale e cortese che riuscì a mettere insieme, “Buongiorno, madre” disse “Cercavo Suor Morena…”
“Suor Morena è partita questa mattina presto” disse la monaca guardandolo con gli occhi grandi e stupiti dietro due spesse lenti, “è tornata in Sudamerica.”
“In Sudamerica?” ripeté incredulo.
“Sì, è il suo paese… Ma lei chi è?”
“Io… io…” balbettò “ci siamo conosciuti… in… in Vaticano. Mi aveva chiesto … delle informazioni. Beh, non importa… mi scusi… Buon giorno.”
Uscì barcollando, completamente stordito. Ma come aveva potuto abbandonarlo così, senza una spiegazione, senza una parola.
La cercò dappertutto. Chiese ai taxisti, si informò sugli orari dei treni, degli aerei, chiese al personale dell’aeroporto. Nulla. Era letteralmente scomparsa.
Nel pomeriggio, dopo aver mangiato un boccone ed aver ripreso un minimo di contatto con se stesso e con la realtà circostante, dopo aver girovagato senza meta per le strade ripensando confusamente agli istanti di deliziosa spensieratezza trascorsi con la suora, entrò nella chiesa dove l’aveva seguita e spiata appena un giorno prima.
La cappella dove lei si era raccolta a lungo in preghiera, era incredibilmente affollata: agenti di polizia, curiosi, esclamazioni incredule, ordini dati bruscamente. Fabrizio riuscì a intrufolarsi tra la piccola folla e vide con orrore ciò che attirava l’attenzione costernata di tutti. Dalla pala d’altare che lui conosceva molto bene per averla ammirata forzatamente a lungo il giorno prima, mancava una formella: quella che rappresentava S. Giorgio e il drago. Al suo posto un buco nero, grottesco, che sembrava prendersi gioco di tutti.
Fabrizio non credeva ai propri occhi, non credeva alla risposta immediata e crudele che il suo cervello gli aveva immediatamente suggerito, impietoso, fischiandogliela nelle orecchie con un fragore insopportabile.
“Mi scusi, chi comanda qui?” chiese a un agente, sforzandosi di apparire calmo e degno di considerazione. “Credo di avere delle informazioni importanti.”
Lo condussero davanti a un signore grosso, col cranio lucido e i baffi, che lo fissò con gli occhi stanchi: “Mi dica, lei ha visto qualcosa? O qualcuno?”
“Beh, sì, mi sembra. Ieri una suora è stata ferma parecchio qui davanti. E so che oggi è ripartita in fretta e furia.”
“Ah quella!” esclamò l’uomo grosso in tono beffardo. “L’hanno vista in tanti! Anzi non fanno altro che segnalarcela. Ogni volta che scompare un’opera d’arte c’è sempre lei nei paraggi! Ma nessuno sa dire di più. E lei svanisce nel nulla.”
“Ma com’è possibile… una suora!”
“Suora? Quella lì… Figuriamoci! Se quella è una suora io sono il papa! Quella è una maledetta ladra! Comunque lasci il suo nome e cognome a questo agente e domani si presenti in questura per una deposizione. Chieda direttamente di me, ispettore Cataldo.”

Fabrizio riprese faticosamente la sua vita di ogni giorno. L’ufficio, le carte da esaminare, i colleghi, le perizie fuori sede. Questa era la parte peggiore: i viaggi in treno gli procuravano ricordi dolorosi che il tempo non riusciva ad esorcizzare completamente. Non poteva ritrovarsi da solo in uno scompartimento di treno senza che gli occhi di lei non si materializzassero nel riquadro scuro e vuoto del finestrino, ammiccanti, seducenti, scavandogli dentro lo stomaco un malessere nostalgico che lo perseguitava come un vizio incoercibile.
Poi, un giorno, l’incarico. L’occasione della sua vita. La Ditta, incaricata di una consulenza in un paese straniero, mandava lui, per una prima missione esplorativa, cui sarebbero seguiti studi, analisi, calcoli e finalmente lavori ai quali lui avrebbe dovuto sovrintendere. La sorpresa si trasformò ben presto in entusiasmo e poi, durante i preparativi per la partenza, in esaltazione. Avrebbe dovuto lavorare in Perù, un paese che da tempo voleva conoscere, e avrebbe dovuto dimostrare, questa era la cosa più importante, la sua competenza tecnica, la sua capacità di organizzare un cantiere e il lavoro di maestranze locali. La sua recente disavventura sentimentale passò in secondo piano e gli diede finalmente un po’ di tregua.


Il trenino era partito da Cuzco all’alba, mentre il sole proiettava fasci di luce rosata sulle cime più alte delle Ande, e stava arrancando lungo la puna, uno sterminato e arido altopiano. Fabrizio, incollato al finestrino, non perdeva un’inquadratura né un particolare dell’inconsueto paesaggio: cactus giganti, cespugli di agavi, gruppi di euforbie, che ricordavano vagamente le canne di un organo ed entro le quali il sole limpido eseguiva melodie luminose. La ferrovia fiancheggiava per un lungo tratto il Rio Vilcanota, una specie di fiumara semiasciutta che, dove riusciva a portare un po’ di umidità, faceva crescere rigogliosi eucaliptus ed araucarie.
Alle fermate approfittava per guardarsi intorno. Lo incuriosivano in particolare le donne con la bombetta marrone o nera o avana, i gruppetti di indios che parlavano tra di loro antichissime lingue incomprensibili, la merce esposta sui marciapiedi delle stazioncine: tantissime erano le terrecotte che rappresentavano torelli o chiese, ma anche i piccoli llamas di peluche e i pellicciotti di llama bianchi e marrone. Una di queste stazioni, quella di Pucarà, era la sua meta e scese, in preda al fastidioso malessere dovuto all’altitudine che gli indios chiamano soroche e che lo faceva respirare affannosamente.
Jimenez lo riconobbe per primo e lo tolse dall’imbarazzo andandogli incontro con una mano tesa ed esibendo un largo sorriso che i baffi nerissimi tentavano invano di ombreggiare. Jimenez era il rappresentante di un’impresa locale cui la Ditta di Fabrizio si sarebbe appoggiata per la realizzazione di una strada e, poiché parlava un italiano abbastanza scorrevole, eredità di una nonna materna, avrebbe fatto anche da guida al giovane geologo venuto dall’Italia.
“Bienvenido señor Fabrizio! Como ha viaggiato?”
“Bene, grazie, sono solo completamente sfiatato.”
“No se preocupe, solo un po’ di soroche. Passerà presto. Venga” disse impadronendosi dei suoi pesanti borsoni, “ho la macchina qua fuori.”
Jimenez era magrolino e di bassa statura ma evidentemente l’aspetto ingannava: portava i bagagli con agile sicurezza e non la smetteva un attimo di parlare.
“Lei è fortunato, señor, questa sera si svolge la fiesta in onore di Nostra Signora della Mercede. Molta confusione, molto divertimento. Tutti ballano e bevono e si ubriacano. Ma c’è anche la processione, muy grandiosa.”
Finalmente arrivarono ad un alberghetto modesto ma pulito dove Jimenez insistette per portare i bagagli fino a una stanza arredata sommariamente e dove finalmente si congedò, promettendo però che sarebbe tornato più tardi per accompagnare Fabrizio alla fiesta.

La facciata della chiesa, con l’intonaco evidentemente imbiancato di nuovo in vista della solennità, dominava il vasto spiazzo circostante, occupato da una folla colorita e chiassosa. Le voci erano sopraffate da una musica dai toni alti e intensi ma dal carattere struggente, come se i suonatori soffiassero dentro gli zufoli di canna tutta la loro disperazione.
Fabrizio si sentiva a suo agio, vagabondando in mezzo agli indios dai denti gialli e dalle gengive arrossate dalla coca, tra i vistosi costumi delle donne che, sedute sulle stuoie, esponevano la loro mercanzia: la chicha, la bevanda estratta dal granturco che per pochi soles ti faceva ubriacare, i sacchetti di foglie di coca,  i tessuti di alpaca o di vicuña, tinti con colori vegetali sgargianti e tessuti senza telaio, con bastoni infissi per terra e alcuni fili tesi a formare l’ordito, come al tempo degli incas.
Gruppi di maschere, con corone di piume variopinte sul capo, ballavano al ritmo della musica andina danze impetuose e primitive, muovendo con effetto inquietante i testoni che riproducevano divinità animali o demoniache.
“Señor, le piace la fiesta? Ma porque non me ha aspettato all’albergo?”
Jimenez si materializzò improvvisamente accanto a lui, con il suo largo sorriso.
“Ah… mi scusi… sono un po’ frastornato dal viaggio: avevo bisogno di prendere un po’ d’aria” mentì Fabrizio, che preferiva assaporare da solo le atmosfere di un paese nuovo.
“Venga, entriamo in chiesa finché il parroco sta celebrando la messa, così potrà vedere la gente mas importante del paese e anche le señoritas mas formose!”
Lo prese a braccetto e lo guidò cortesemente ma con fermezza all’interno della chiesa. L’unica navata, sfavillante di luci, traboccava di gente. Jimenez si fece strada verso l’altare, nonostante le imbarazzate proteste di Fabrizio, e guadagnò una posizione abbastanza favorevole, da cui si poteva vedere il prete officiante, un piccolo coro di bambini con una lunga tunica bianca, e le persone inginocchiate ai primi banchi.
Fu allora che la vide. Non poteva essere che lei. Troppe volte aveva rivisto e sognato e immaginato quel morbido velo, che come l’ala di un grande uccello stanco si posava sull’aristocratico capo, troppo noto gli era quel profilo statuario che il sorriso e la mimica dei sentimenti potevano animare in un attimo e rendere così tenero e aggraziato. Sentì il cuore e il respiro che si fermavano per un attimo, il brusio circostante che si spegneva, la voce del prete che veniva distorta da una profonda eco. Guardò Jimenez ma questi non s’era accorto di nulla. Riportò lo sguardo sulla suora e sentì che il sangue ricominciava a fluire regolarmente. Com’era possibile una combinazione così imprevedibile e insperata? Com’era possibile incontrarla proprio lì? Ma se l’avevano convinto che si trattava di una specie di ladra internazionale?
“Jimenez…” sussurrò all’orecchio del suo accompagnatore “chi è quella suora? La conosce?”
“E chi non conosce Suor Morena! Qui è muy famosa! E’ una vera santa!” rispose Jimenez con sincero entusiasmo. “La gente la rispetta e la ama. Quella donna ha fatto molto più del governo per i poveri paesi di questa zona: non sarebbero gli stessi se lei non si fosse continuamente battuta per loro. Strade, scuole, ospedali, ogni volta che servono fondi, non si sa come, lei riesce a trovarli. Es veramente una santa!”
Fabrizio non poté trattenere un sorriso. Adesso tutto gli appariva chiaro. Si sentiva improvvisamente più leggero. Guardava il profilo della suora, l’unica parte di lei che poteva scorgere da quella posizione, con occhi nuovi. Forse l’amava ancora di più, sentiva prender forma un sentimento nuovo di ammirazione, l’esaltante consapevolezza di condividere un gioco importante e misterioso.
“Usciamo prima che la messa sia finita.” Jimenez lo prese per un braccio e cominciò a spingerlo fuori “Altrimenti restiamo bloccati e non vediamo la processione.”

 La processione era un bizzarro esempio di sincretismo religioso: gli stendardi con le effigie dei santi si mescolavano con simboli pagani, i crocefissi, scolpiti con ingenuo ma intenso sentimento popolare, si mescolavano con le maschere e i mimi. Alcuni giovani, che reggevano per le ali spalancate un imponente condor morto, destavano al loro passaggio eccitate grida di ammirazione. Poi sfilarono i bambini e le bambine con tuniche bianche e rosse e con una candela in mano ed ebbero il potere di zittire la folla creando una forte suggestione grazie alla moltitudine di fiammelle che danzavano nel buio rischiarando i visi graziosi e i grandi occhi dall’espressione ingenua e infervorata. Seguiva una statua della Vergine dai colori vivaci e con il viso atteggiato ad un’espressione semplice e leggiadra: la statua, che poggiava su un elaborato baldacchino, era portata a braccia da alcuni uomini e apriva la vera e propria processione formata da numerosissimi religiosi distinti in gruppi ben identificati dalle tonache di varia foggia e colore.
Ad un certo punto nel corteo si creò una specie di vuoto al centro del quale, alta e dignitosa, procedeva un’unica figura che diffondeva intorno a sé un’incredibile senso di autorevolezza: suor Morena. La folla ammutoliva e si inginocchiava mentre la suora passava quasi immateriale, con il balenio dello sguardo fisso nella notte lontana. Fabrizio non poté fare a meno di inginocchiarsi a sua volta senza staccare gli occhi dal viso amato e sentendo suo malgrado serrarsi dolorosamente la gola.
La suora, tra lo stupore generale, si fermò un attimo proprio di fronte a lui, girò il volto e gli sorrise. Era accaduto veramente? O l’aveva solo immaginato? Era un sorriso amichevole o qualcosa di più? Non c’era forse una promessa nello sguardo scuro e profondo? Quando si riebbe dalla sorpresa la suora era già lontana. Di fianco a lui Jimenez lo guardava fissamente, inquisitorio e preoccupato.


 

 

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