La trappola

Il sole abbagliante di mezzogiorno scivolava sui marmi della cattedrale sprigionando riflessi accecanti. Le statue barocche, che fissavano impavide il cielo impietoso alla ricerca di dio, formavano brevi ombre, nette e traslucide come fossero bagnate, le quali tuttavia non riuscivano a concedere un attimo di tregua alle poche figure in attesa davanti al maestoso portale.
L’improvviso scampanio, trionfale e festoso, colse di sorpresa i piccioni, che cominciarono a volteggiare in gruppo sulla piazzetta, mentre dalla chiesa una piccola folla elegante cominciava a sciamare sul sagrato, formando piccoli gruppi, parlottando in tono animato, ridendo forte. Guardavano tutti con curiosità impaziente verso l’ampia porta, dalla quale uscirono poco dopo due sposi, accolti da un prolungato applauso e subito oggetto del disordinato assalto dei presenti, che si misero a zampettare e a spingere per conquistarsi un attimo di attenzione, un bacio della sposa, il tempo necessario per un complimento o un augurio. Finalmente un fotografo, accompagnato da una trafelata giovane assistente carica di borse, macchine fotografiche e altri strumenti di lavoro, riuscì ad avvicinarsi alla coppia e a fare un po’ di vuoto intorno ad essa. “Per favore, per favore! Signori!” supplicava, “così non riesco a fare un servizio come si deve!” Ottenuto un po’ di rispetto per il suo ruolo, che riteneva fondamentale, cominciò a dedicare la sua ammirata attenzione alla sposa, aggirandola, riprendendola da varie angolazioni, inginocchiandosi e contorcendosi con un entusiasmo che andava oltre la prestazione professionale.
La sposa, in effetti, era veramente molto bella. I capelli corvini, lasciati giustamente fluire liberi sulle spalle nude da chi aveva provveduto all’acconciatura e appena fermati alla sommità del capo da una raffinata composizione di piccoli fiori bianchi, incorniciavano un viso dal profilo risoluto e dalla carnagione scura, addolcito da un’ampia fronte luminosa e da labbra morbide e sorridenti. Dolcezza e fermezza si contendevano anche lo sguardo della donna, trovando una precaria sintesi in due occhi nerissimi, dove la pupilla formava un tutt’uno con l’iride e il sole sembrava sprofondare e annullarsi, lasciando solo il ricordo di un bagliore.
“Don Ciccio!” sembrò ad un tratto spazientirsi lo sposo, pur mascherandosi dietro un tono che voleva essere spiritoso, “Principe dell’arte fotografica! Me lo volete fare pure a me qualche scatto? O mi volete fare ingelosire, con questo vostro obiettivo indiscreto e invadente?”
Don Ciccio sobbalzò. Con Mimmo Spatafora non c’era da scherzare. Balbettò qualche scusa, si inchinò un paio di volte, poi tentò di mascherare il proprio imbarazzo armeggiando con le macchine e gli obiettivi. “Maledizione a me!” pensava intanto. “E che? Mi sono bevuto il cervello? Più attento devo stare! E tranquillo!” In realtà, a forza di cliccare su quella splendida sposa, con lo zoom sempre più ravvicinato e insinuante, si stava irresistibilmente eccitando in una specie di assalto erotico virtuale.
“Eccellenza, sono subito da voi” si riprese a stento, “ma dovete capire: le signore hanno la precedenza! Quando poi si ha la fortuna, come voi, di aver portato all’altare la perla della città!”
“Ehhh! Don Ciccio! Meno chiacchiere e fate il vostro mestiere!” Lo sposo era evidentemente seccato. Più anziano di parecchi anni rispetto alla giovane sposa, mal sopportava ogni sguardo di ammirazione e ogni parola di elogio diretti alla donna, a meno che non costituissero l’implicito complimento al suo buon gusto di maschio o la rassegnata accettazione del fatto che lui aveva conquistato una delle donne più ammirate della zona. In ogni modo portava molto bene la sua età. Alto, massiccio, portava con spavalda eleganza il gessato blu scuro sopra una camicia candida, i cui polsini, sbucando generosamente dalle maniche della giacca, esibivano vistosi gemelli d’oro massiccio. Il papillon di seta grigia sopra il colletto inamidato e il sorriso statico non riuscivano però a nascondere la durezza del viso, squadrato, quasi crudele col gelido sguardo degli occhi color ghiaccio e due baffetti sottili, che, lungi dall’essere una concessione all’estetica o un motivo di fascino, accentuavano l’aggressività che emanava da tutta la persona, così come i capelli, accuratamente lisciati all’indietro, lucidi e di un nero corvino per lo meno sospetto.
Insomma Mimmo Spatafora era la tipica immagine del boss.
In città tutti lo conoscevano bene, fin da quando, negli anni Cinquanta, era già il leader di una banda di ragazzacci sfaccendati che in inverno stazionavano davanti al bar d’angolo della piazza e d’estate si buttavano con le vecchie bici giù per la strada sterrata che conduceva alla spiaggia. A quel tempo la parte bassa della città era solo una desolata distesa di terra brulla lungo il mare e l’unico segno di vita erano alcune colorite casupole, all’ombra delle quali i pescatori rimagliavano pazientemente le reti e guardavano, con l’espressione dura e indecifrabile di chi si conquista l’esistenza giorno per giorno, i ragazzi che si rincorrevano, ridevano scompostamente e si tuffavano in un mare intatto, dal colore intenso e dalla voce fragorosa.
Alla sera Mimmo si sforzava di fare il cameriere in un localaccio dove i piatti di pasta scotta si facevano perdonare con i generosi condimenti della tradizione locale, che bruciavano la bocca e attiravano i pochi benestanti del tempo in vena di notti brave. Poi, improvvisamente, scomparve. Dicevano che, su invito di uno zio partito in avanscoperta anni addietro, era andato a fare il cameriere in Svizzera. Tornò a metà degli anni Sessanta, più maturo, ben vestito, col mezzo sorriso di chi è sicuro di sé e, soprattutto, con tanti soldi in tasca, tanti non solo da offrire aperitivi e cene agli amici di un tempo, ma sufficienti a costruire, nel giro di pochi mesi, un albergo con annesso ristorante alla moda proprio sulla spiaggia che lo aveva visto tuffarsi tante volte nella cresta spumosa dell’onda più alta.
Da quel momento la carriera di Mimmo Spatafora era stata in continua ascesa e senza intoppi. O meglio, come tutti sapevano con certezza, anche se nessuno osava parlarne, gli intoppi erano stati eliminati ora con la lusinga e la corruzione, ora con metodi brutalmente definitivi. Alla luce del sole era un fortunato uomo d’affari, che si onorava di avere alla sua tavola il primario dell’ospedale, il comandante dei carabinieri, il direttore della banca più importante, il sostituto procuratore, insomma tutte le persone che contavano. Ma dietro le quinte, accenni e mormorii circospetti, che nessuno comunque avrebbe mai confermato, lo indicavano come il mandante di alcuni omicidi irrisolti, come il datore di lavoro della piccola manovalanza criminale, come la mente di alcune disinvolte operazioni imprenditoriali che avevano praticamente messo la città nelle sue mani.
Ora il matrimonio con Immacolata Messina, la donna più ammirata e apertamente concupita dai maschi locali, era il simbolo e il coronamento del livello di potere raggiunto.

 

“Dio, quanto sei bella!” mormorò percorrendo con la mano la sinuosa curva che dalla spalla orgogliosa scendeva nella vita sottile, si arrampicava sui glutei morbidi e generosi, scendeva dolcemente lungo una coscia levigata e senza fine.
Immacolata si stirò, sorrise socchiudendo gli occhi, come un felino che punta la preda, e disse, con un tono di voce basso e leggermente rauco, che gli fece correre un brivido dalla nuca per tutta la schiena: “Allora, è la nostra prima notte d’amore… è tanto che l’aspetti, fammi vedere cosa sai fare…”
Di colpo Mimmo cancellò dalla mente tutti gli avvenimenti della giornata: la cerimonia, il pranzo che non finiva mai, gli invitati, le battute forzate e finalmente il breve percorso che li separava dalla sua leggendaria villa in collina, dove avrebbero trascorso la prima notte di nozze, in attesa di partire, l’indomani, per una crociera nel Mediterraneo. Cercò anche di non pensare all’atteggiamento della donna, che in alcuni momenti gli era sembrata rigida, scostante, persino ansiosa, ma che aveva sempre risposto con un cenno negativo del capo alle sue domande in proposito.
Ora però giaceva tenera e arrendevole sopra il loro letto coniugale, aveva bevuto un sorso dalla coppa di spumante ghiacciato sul comodino e si asciugava lentamente le labbra con la punta della lingua, fissandolo come in una sfida. Mimmo aveva avuto molte femmine, compresa una moglie di cui si era sbarazzato con disinvoltura, ma questa era diversa da tutte: d’improvviso si sentì potente come un giovane toro e avvertì l’impellente bisogno di penetrarla. Lei lo afferrò per le spalle, le sue cosce brunite guizzarono come due serpenti e gli avvinghiarono i fianchi, poi cominciò a gemere affannosamente assecondando i movimenti dell’uomo.
Mimmo spingeva con tutte le sue forze, non voleva si pensasse neanche per un attimo che l’età gli creava qualche problema, era sempre il più forte, era invincibile, gridava silenziosamente dentro di sé in preda a un dilagante entusiasmo…poi, un’improvvisa morsa dolorosa lo afferrò alla base del pene.
“Cristo! Che cazzo succede?!” urlò nella notte con voce strozzata. Tentò di muoversi, di sfilare il pene dalla vagina, ma ogni movimento gli procurava un dolore lancinante, che, come una staffilata, partiva dal basso ventre ed esplodeva nel cranio.
“Porca puttana! Immacolata, di’ qualcosa! Mi sembra che mi stiano strappando l’uccello!”
“Non lo so cosa succede!” strillò lei a sua volta, “stai calmo, smettila di urlare! Così non risolviamo niente.”Poi, con voce più controllata, aggiunse: “Io sento una specie di crampo. Mi sembra di aver letto da qualche parte di questo fenomeno: in alcuni animali i muscoli della vagina si contraggono per non disperdere il seme… o qualcosa del genere:”
“Ma che cacchio dici, noi non siamo animali! Dio, che dolore!
“Cerca di stare rilassato, vedrai che l’erezione scompare e riesci a liberarti”.
“Ma non dire stronzate! Me lo stai strangolando! Bisogna chiamare un’ambulanza, subito! Che vergogna, che vergogna!” Si sporse verso il comodino, afferrò la cornetta del telefono e premette il tasto che lo metteva immediatamente in comunicazione con il guardiano all’ingresso della villa. “Ciro, sono io. Fai venire subito un’ambulanza! Non fare domande! Muoviti!”
E crollò con tutto il suo peso su quel bel corpo che fino a poco tempo prima lo aveva fatto sognare.

“Mai vista una cosa simile!” disse ridacchiando il giovane medico di turno sfilandosi i guanti di lattice e scotendo la testa. “Scusami se ti ho fatto venire a quest’ora… e di domenica per giunta. Ma qui ci voleva la mano di un chirurgo esperto, non me la sentivo di intervenire da solo..”
“Non preoccuparti, non stavo neanche dormendo” disse con un’alzata di spalle il chirurgo, più anziano, passandosi una mano sui folti capelli argentei mentre un’infermiera gli slacciava il camice verde. E poi sono stato contento di occuparmi di questo caso: sono evenienze che non capitano tutti i giorni.”
“Mi scusi dottore” intervenne l’infermiera, una biondina vivace con un bagliore di curiosità maliziosa nello sguardo: già pregustava il ghiotto pettegolezzo e la possibilità di esibirsi tra i colleghi con una dettagliata spiegazione, “ma come possono succedere queste cose?”
“Beh, il vaginismo è uno spasmo doloroso involontario dei muscoli che circondano l’apertura della vagina” spiegò pazientemente il chirurgo, “a volte è causato da un’esperienza traumatica giovanile, uno stupro o delle molestie sessuali ad esempio, a volte intervengono fattori psicologici o culturali, a volte ci sono cause organiche o infettive, che però nel caso specifico dobbiamo escludere: la donna, e che donna!, gode di perfetta salute.
Fatto sta che ogni volta che si tenta il rapporto sessuale si scatena lo spasmo. In questo caso è stato determinante il fatto che l’uomo fosse portatore di una protesi al silicone e questa è rimasta strozzata tra la radice del pene e il glande, il deflusso del sangue dai corpi cavernosi non è avvenuto e… beh, insomma, per l’uomo deve essere stata un’esperienza piuttosto sgradevole!”
“Abbiamo dovuto eliminarla quella protesi” osservò il medico più giovane “pensa che se la potrà far reimpiantare presto?”
“Non credo ne avrà voglia! Comunque potrà ricorrere ai vasodilatatori locali oggi in commercio… mmh, signorina…” aggiunse poi rivolgendosi all’infermiera, “conto ovviamente sulla sua discrezione professionale. Quello che è accaduto non deve uscire da qui. Lei sa con che personaggio abbiamo a che fare: non oso neanche pensare alle conseguenze se ci ritenesse responsabili di una sua vergognosa umiliazione di fronte a tutta la città.”
La ragazza arrossì violentemente, sentendo iniziare dentro di sé una sgradevole lotta interiore: probabilmente le ragioni del buon senso e della correttezza avevano già perso in partenza.
“Me ne vado” annunciò il chirurgo al collega avviandosi verso la porta della sala operatoria, “direi che puoi tranquillamente dimettere la signora domattina, se sei d’accordo. Magari dalle un sedativo leggero. Ricovererei invece l’uomo in urologia almeno per una settimana.
Buona notte a tutti.”

 

Mimmo Spatafora, con un elegante pigiama di seta a righe blu e antracite, stava immobile davanti alla finestra del corridoio asettico e guardava, senza vederlo, l’andirivieni del personale ospedaliero nei vialetti che mettevano in comunicazione i vari reparti.
Si sentiva svuotato di energie. Anche la sorda e impotente rabbia che lo divorava, provocava in lui non impulsi violenti di rivalsa, come accadeva prima, ma un doloroso senso di prostrazione e di vergogna.
Non si illudeva neanche per un attimo che la cosa finisse lì. Era fottuto. Già sentiva l’orrenda notizia passare con gusto di bocca in bocca, suscitare i commenti malevoli o, peggio, beffardi di chi lo conosceva, immaginava la soddisfazione a stento repressa di chi gli voleva male, gli occhi lampeggianti delle donne che, invece di chinarsi a terra con ipocrita imbarazzo, sollecitavano, indagatori e golosi, nuovi particolari. Come era potuto accadere? Non riusciva a capacitarsene, nonostante i medici gli avessero dato qualche fredda spiegazione tecnica e nonostante incontrasse ogni giorno un giovane psicologo, che tentava ingenuamente di fargli superare il trauma. Che stronzo! Non sapeva chi era Mimmo Spatafora! Uno per cui l’esibizione arrogante e sfrontata della virilità era un modo di vita, un aspetto della personalità che veniva citato per primo da chiunque parlasse di lui. Madonna, che fregatura! Si sentiva come se un tracollo finanziario gli avesse fatto perdere tutto ciò che possedeva, come se in uno scontro con una banda rivale i suoi fossero stati annientati, lui stesso orribilmente ferito, con un rimasuglio di vita vegetativa di cui non gliene fotteva una minchia.
L’unica cosa che lo teneva attaccato all’esistenza era il pensiero di Immacolata. Dov’era Immacolata? Al telefono non rispondeva e nemmeno richiamava, nonostante lui lasciasse messaggi alla segreteria telefonica quasi ogni ora. L’ospedale non sapeva dirgli niente, tranne che stava bene e che era stata dimessa. Aveva mandato i suoi a cercarla, ma non si trovava da nessuna parte. I conoscenti non l’avevano più vista dal giorno del matrimonio.
Però Immacolata era una donna forte. Se aveva ragionato e capito, se lo amava ancora… già, questo era il punto, lo amava? Lo aveva mai amato? Era assalito da mille dubbi… Eppure, per dio, era sua moglie, non la moglie di uno qualsiasi, la moglie di uno con un bel po’ di miliardi in banca o investiti in varie imprese. Non poteva lasciarlo così… Con l’aiuto di Immacolata poteva trovare la forza di ricominciare e far tacere le malelingue.
“Signor Spatafora, la vogliono al telefono!” La voce dell’infermiera lo colse di sorpresa. “Se vuole può rispondere anche dall’apparecchio in fondo al corridoio.”
Si diresse rapidamente verso il telefono indicatogli dall’infermiera. “E se fosse proprio lei?” si chiedeva in preda a una valanga di sentimenti contrastanti.
“Pronto?”
“Sono io.” La sua inconfondibile, indimenticabile voce sensuale.
“Immacolata!” Gli venne subito da alzare la voce e insultarla perché non si era fatta trovare, ma si trattenne. “Sei proprio tu! Ma dov’eri finita? Ti ho cercata dappertutto…”
“Ti devo parlare.”
“Ma… vieni subito, sapessi che voglia ho anch’io di parlarti, di vederti!”
“No, io invece non ti voglio vedere. Ti spiegherò tutto per telefono.”
“Ma… spiegare cosa? Io…”
“Non interrompermi. Non ci metterò molto. Ti ricordi di Saverio, Saverio Lopresti? Saltò in aria con la macchina mentre andava insieme alla moglie nella sua casa al mare, a passare la domenica. Sono già passati tre anni.”
Mimmo sentì un brivido gelido attraversargli la schiena, voleva parlare ma un’improvvisa contrazione dolorosa gli aveva afferrato la base del collo, ebbe d’un tratto il soffocante presentimento che qualcosa stesse per precipitare intorno a lui, strinse il telefono con più forza facendo sbiancare le nocche della mano.
“Certo che te lo ricordi! Sento il tuo respiro più veloce dall’altra parte del telefono… anche gli assassini spietati e disumani come te non possono impedire che i morti tornino a trovarli. Quella volta però hai commesso un errore, quei due poveri cadaveri martoriati dall’esplosione erano i miei genitori.”
E un’esplosione avvenne anche nel cervello di Mimmo, che, paralizzato dalla sorpresa, non poté far altro che continuare ad ascoltare la voce implacabile che proseguiva.
“Io ero a Roma , per frequentare l’università, ospite di un pensionato gestito da suore, anche se, come sai, non ero affatto credente. E lo fui ancora meno quando un lontano parente venne a darmi, con la dovuta cautela e con qualche banale parola di consolazione, l’orribile notizia. Per qualche giorno non parlai; mi comportavo normalmente ma mi sentivo, era certamente una forma di difesa, come avvolta da una fitta nebbia che mi isolava da tutto. Poi un giorno, all’improvviso, mi sentii lucida, determinata, piena di un odio controllato che non lasciava spazio ad altri sentimenti se non quello della vendetta. Cominciai a pensare, a fare ipotesi e progetti, un istinto esaltante di cacciatrice era emerso in me da chissà quali profondità e mi aiutava ad agire in modo rapido, efficiente, senza fare il minimo errore. Affidai a un notaio di Roma le pratiche per la successione e feci perdere le mie tracce ai parenti, abbandonando le suore per un’oscura affittacamere di periferia. Cominciai a leggere tutto quanto era stato scritto sul duplice omicidio. La discreta fortuna che mi avevano lasciato i miei mi permise anche di mettere al lavoro un costoso investigatore, che si rivelò in cambio furbo, competente, discreto. E alla fine stanai la mia preda: eri tu!”
“Immacolata, ti prego, ascoltami: ti posso spiegare tante cose…” tentò di intervenire Spatafora, per recuperare un minimo di controllo della situazione.
“Ma piantala! Gran figlio di puttana, assassino, schifoso assassino, cosa vuoi spiegare? Non capisci che hai chiuso, sei rovinato, io ti ho rovinato. Ho pensato tanto sai a quale sarebbe stato per te il modo peggiore di essere fregato. Poi capii che ti dovevo colpire nell’orgoglio, nel potere virile, simbolo sfacciato del tuo potere sul denaro, sugli uomini e sulle donne. Non immagini che senso di trionfo provai quando l’investigatore che pagavo profumatamente mi riferì dell’operazione in Svizzera: non potevi certo tollerare che le tue numerose donne andassero a riferire che non ti si rizzava più. Ero esultante, ti avevo in pugno. La più famosa minchia del paese, quella minchia che invocavi sempre come un grido di battaglia, era una fottuta protesi!”
“Immacolata, ti prego, ora sei mia moglie…”
“Cosa? Ma allora non hai capito, io non sono un bel niente! Quella pagliacciata serviva solo a impadronirmi dei tuoi beni. Quando sarà il momento. Io amo un altro, lo amo veramente, in modo pulito, normale, in un’altra vita… Lo conobbi quando cominciai a frequentare l’ambiente medico per trovare una soluzione al mio piano. Era un giovane divertente, con una faccia simpatica e io non mi stancavo di guardarlo negli occhi e ascoltare la sua voce. Però era molto serio ed estremamente competente nel suo lavoro: si stava specializzando in chirurgia estetica. Si innamorò talmente di me che avrebbe fatto qualsiasi cosa per assecondarmi, così mi decisi a confidargli i miei segreti e il mio piano diabolico. Dapprima si spaventò, poi mi scongiurò di lasciar perdere, mi voleva troppo bene per lasciare che mi esponessi a dei rischi. Ma alla fine, leggendo ogni giorno nei miei occhi una determinazione incrollabile, lasciò che la sua mentalità scientifica, unitamente al gusto della sfida e della beffa, avesse il sopravvento.
Una sera, in un ristorantino, felici come sempre, mi guardò a lungo, scosse la testa e cominciò a ridere sommessamente. –Penso di avere la soluzione- mi disse con aria da cospiratore, mentre io per l’esultanza mi cacciavo le unghie nel palmo della mano, sotto il tavolo, -sto studiando un nuovo elastòmero, una grossa molecola che ha una singolare proprietà: unita in lunghe catene forma delle fibre molto elastiche che però, surriscaldandosi, si contraggono e diventano rigide e resistenti. Prendiamo il nostro caso, ad esempio: ricoperte da una guaina di silicone e impiantate ad anello appena sotto la mucosa all’ingresso di una vagina, la trasformerebbero in una trappola micidiale. Il semplice sfregamento di un normale rapporto sessuale farebbero stringere l’anello come una morsa e strapperebbe a quel delinquente la sua maledetta protesi. Trovo la cosa assolutamente comica…- concluse ridendo e versandosi da bere. Ma poi vide il mio sguardo e divenne improvvisamente serio. Sicuramente vi aveva letto tutta la freddezza di chi ha ormai pronunciato una condanna a morte definitiva.

-Quella trappola sarò io…- gli dissi in tono neutro. Lui mi prese una mano attraverso il tavolo, me la strinse guardandomi fissamente e cercando di comunicarmi tutti i contrastanti sentimenti di quel momento. Sicuramente mi odiava, ma mi offriva la sua alleanza. E da quel momento cominciò la grande avventura.
Il resto lo sai. Arrivai in città con una “copertura”, come si dice nei romanzi di spionaggio. Maturata nel corpo e nell’anima, nessuno mi riconobbe e fu molto facile fare colpo su di te. Molto meno facile vincere l’orrore e il disgusto che mi ispiravi…
Pronto!? Sei ancora lì? Pronto…”
Mimmo Spatafora non la sentiva più. Già da un po’ le parole di lei echeggiavano nella sua testa appena comprensibili. Aveva lasciato cadere la cornetta che dondolava inutile appesa al filo. Si era avviato, trascinando i piedi stranamente pesanti, verso la finestra da cui, poco tempo prima, guardava pensieroso il giardino ben tenuto dell’ospedale. Si affacciò di nuovo: fu molto semplice assecondare il capogiro che lo aveva colto e lasciarsi cadere di sotto.

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