Ghost writer

L’appartamentino era abbastanza accogliente. I mobili, una mescolanza di stili di dubbia purezza, dagli anni Cinquanta a modeste copie di vago sapore ottocentesco, stipavano la camera da letto e il salotto, facendo sembrare l’arredamento una specie di esposizione da mercatino dell’usato.

Matteo si guardò intorno con curiosità, abbastanza soddisfatto, vista la convenienza del prezzo con cui aveva preso in affitto quelle modeste stanze: il suo lavoro di venditore di spazi pubblicitari sulle riviste locali, con le quali collaborava anche come autore di articoli culturali, non gli consentiva di avere maggiori aspirazioni.

Diede una rapida occhiata al cucinotto e al bagno: la proprietaria, una donna evidentemente scrupolosa, aveva fatto tirare tutto a lucido e gli aveva fatto trovare un soddisfacente assortimento di stoviglie. Elettrodomestici e sanitari apparivano un po’ decrepiti, ma puliti e funzionali.

Tutti i locali si aprivano in fila su uno stretto corridoio, che terminava davanti a una porta chiusa. Matteo la aprì, leggermente sospettoso, azionò il pulsante della luce che si trovava all’esterno e illuminò uno sgabuzzino vuoto, a parte uno scatolone polveroso che giaceva in un angolo sul pavimento. Forse una semplice dimenticanza della padrona o del precedente inquilino. Alzò con cautela il coperchio, per non sporcarsi, e vide che lo scatolone era pieno di vecchi libri e di scartoffie. Lo avrebbe esaminato con comodo nei prossimi giorni e lo avrebbe fatto avere al proprietario. O se ne sarebbe sbarazzato, a seconda dei casi.

Posò sul tavolo della cucina il sacchetto con un minimo di beni di prima necessità che aveva comprato al supermercato e si accinse a disfare le due valigie e il borsone che contenevano tutte le sue cose. Si sentiva di buonumore: avrebbe dato una nuova impronta, una nuova vita a quella casa e l’avrebbe trasformata a sua immagine e somiglianza, rendendola un rifugio accogliente per i suoi ritorni, o meglio, per le sue fughe da un quotidiano grigiore.

Estrasse dal borsone il portatile e la stampante che costituivano gli strumenti del suo lavoro, alcuni libri cui era particolarmente affezionato e scelse un angolo del salotto che trasformò in poco tempo in un piccolo studio attrezzato e funzionale. Gli mancava solo una prolunga per collegare il modem alla presa del telefono e anche l’accesso all’indispensabile  mondo di Internet sarebbe stato cosa fatta: ci avrebbe pensato il giorno dopo.

 

 

 

Dopo una cena improvvisata e frugale, due fette di pane con burro e salmone, una mela e un po’ di vino bianco, scartò l’idea di sistemare le sue cose nell’armadio: non ne aveva voglia. Rinunciò anche a provare l’antiquato televisore che troneggiava in un angolo, l’attirava molto di più lo scatolone abbandonato nello sgabuzzino in fondo al corridoio: curioso come un gatto, non sarebbe riuscito a dormire finché non avesse cacciato il naso dappertutto e, in particolare, finché non avesse esaminato il contenuto  dello scatolone. Lo trasportò faticosamente in salotto, lo spolverò e cominciò ad estrarre il contenuto.

Accidenti, avrebbe avuto da leggere per un po’: c’era una collezione completa dei libri di Valerio Massimo Manfredi, molti titoli di Clive Cussler, le inchieste di Montalbano… Evidentemente l’inquilino che lo aveva preceduto non amava le complicazioni, leggeva per divertimento, cose semplici ma di sicuro effetto. Molti romanzi li conosceva già, ma altri erano assolutamente nuovi per lui. Continuò a tirar fuori libri e incartamenti: una vecchia copia delle poesie di Garçia Lorca, un consunto “Gabbiano Jonathan Livingstone” con dedica melensa di un’amica, una cartelletta di cartoncino con ricevute e lettere varie, una lastra radiografica...

«E questo che cos’è?» disse Matteo ad alta voce prendendo in mano un corposo blocco di fogli A4 spillato con tre grosse graffette metalliche.

Al centro della prima pagina, che aveva l’aspetto del frontespizio di un libro, campeggiavano un titolo e, evidentemente, il nome dell’autore: “La giustiziera dagli occhi di velluto” di Stefano Avveduti.

Matteo non poté trattenere una smorfia ironica. Fece frusciare il bordo del fascicolo scorrendo rapidamente i fogli tra il pollice e l’indice: erano pagine ordinate ed eleganti, stampate da un solo lato con un sottile Garamond da 14 punti. Subito gli affollarono la mente diversi interrogativi: chi era questo Avveduti? Il suo predecessore? Aveva l’hobby del romanziere o era qualcuno che lui non conosceva e che magari aveva già pubblicato? E perché aveva lasciato l’appartamento? Si ripromise di dare una risposta a tutto, il giorno dopo, interrogando discretamente la padrona di casa.

Nel frattempo.... nel frattempo avrebbe dato un’occhiata a quella che sembrava essere verosimilmente la bozza di un romanzo. Qualsiasi tipo di lettura lo attirava in modo inevitabile e quel titolo, nonostante il tono pretenzioso da noir dozzinale, aveva un certo fascino. Si mise comodo su una vecchia poltrona.

 

 

 

La luce tagliente di un’implacabile luna piena, incastonata come un fulgido diamante nella volta nera del cielo, sferzava con frustate abbaglianti l’inchiostro della notte che si spandeva sulla città. La donna, fasciata da un giubbotto di lucida pelle scura, con due splendide gambe parimenti coperte da una guaina di identica pelle che scompariva in un paio di stivali bellicosi dagli alti tacchi a stiletto, non era che un guizzo di luce nell’oscurità. Si fermò sotto l’ampia volta di un portone e divenne tutt’uno con l’ombra. Sembrava in attesa di qualcosa o di qualcuno.

Una grossa macchina chiara, preannunciata da un soffice rombo, svoltò improvvisamente l’angolo e si arrestò dalla parte opposta al punto in cui la donna si era mimetizzata. Fari e luci di posizione si spensero. Ne scese con indolenza un uomo corpulento, assestandosi uno stropicciato completo grigio. Azionò il telecomando e le luci dell’auto ammiccarono un’ultima volta.

L’assalto della donna, inaspettato e imparabile come una sciabolata invisibile, avrebbe destato l’invidia di una pantera nera. L’uomo non fece in tempo ad accorgersi di quello che accadeva, non si rese neanche conto che la vita lo abbandonava rapidamente dopo che una lama lunga e letale aveva brillato per un istante alla luce della luna ed era penetrata profondamente nel suo fianco sinistro, facendosi strada fino al cuore.

 

 

 

Matteo si arrestò qualche secondo, fissando incredulo le parole che stava leggendo. Deglutì, poiché si era dimenticato di farlo, e si grattò vigorosamente la nuca.

«Accidenti! Ma chi è questo?» disse ad alta voce. Anche lui si riteneva uno scrittore passabile, ma questo sconosciuto era proprio bravo. In poche righe era riuscito a catturare la sua attenzione, non solo per il fantastico incipit, la scena, il personaggio abbozzato con poche pennellate, ma soprattutto per lo stile che lui trovava immaginifico, perfetto. Si alzò, prese da un mobiletto che aveva adibito a bar la bottiglia di Pampero che aveva appena acquistato e se ne versò una dose abbondante. Con aria soddisfatta si accinse a riprendere la lettura. Lo attendeva una serata estremamente piacevole.

 

 

 

Il telefono squillò sul grande tavolo di vetro, ingombro di carte e di raccoglitori. La donna seduta alla scrivania scostò i lunghi capelli neri dal viso portandoli con un gesto dietro la spalla. Si sfilò quindi rapidamente un raffinato orecchino, facendone tintinnare le pietre azzurre incastonate in un oro straordinariamente puro, e lo posò davanti a sé.    Allungò la mano forte ed elegante verso la cornetta e l’ appoggiò all’orecchio.

«Reggiani Investigazioni. Chi parla?» La voce era sicura e professionale. Ascoltò per qualche secondo.

«Sì. Sono io la Dottoressa Isabella Reggiani. Dica pure a me.» Passò la cornetta nella sinistra e prese con l’altra mano un’elegante agenda di pelle che sfogliò agilmente.

«Certo. E’ meglio che ne parliamo a voce. Se per lei va bene possiamo vederci domani...» studiò un attimo l’agenda e vi appuntò qualcosa con una lussuosa Montblanc  «...alle 16 e 30.... Va bene,  l’aspetto a quell’ ora.»

Rimise a posto la cornetta indugiando un attimo a stringerla con forza, sbiancando le nocche e facendo risaltare ancora di più il rosso abbagliante che laccava le unghie lunghissime e perfette, un’inquietante batteria  di artigli che avrebbe lasciato qualunque uomo incerto tra la paura e il piacere di essere sbranato.

Sembrò scacciare un pensiero molesto e infine si alzò, riappropriandosi dell’orecchino che infilò con gesto sicuro.

Si avviò alla porta del suo ufficio con passi rapidi e sinuosi facendo ondeggiare la corta gonna beige sopra le gambe interminabili, snelle e armoniose, ma di cui si intuiva la forza dinamica. Afferrò una signorile borsetta di coccodrillo rosso posata su una poltrona e aprì la porta per uscire. Indugiò una frazione di secondo davanti al grande specchio che affiancava la porta per controllare la propria immagine: gli occhi le rimandarono uno sguardo che voleva essere determinato ma che una luce morbida e ambrata illanguidiva. Scosse due o tre volte, energicamente, il capo per ravvivare l’esuberante capigliatura, che sprigionò riflessi bluastri, e uscì.

 

 

 

Matteo cascava dal sonno, gli occhi gli bruciavano, ma il coinvolgimento era ormai irresistibile e gli dava la forza di continuare a leggere.

Apprese così che Isabella Reggiani, a quanto pare la protagonista assoluta del racconto, svolgeva una ben remunerata attività di investigatrice privata, la sua opera era molto richiesta e le permetteva di concedersi un lussuoso ufficio nel centro della città. Aveva un solo impiegato tuttofare, che stravedeva per lei: un maresciallo dei carabinieri in pensione, silenzioso, efficiente, assolutamente affidabile, che faceva sorridere la sua datrice di lavoro con il suo stile impeccabile e fuori moda, che si inchinava leggermente quando riceveva un ordine, che le apriva la portiera della macchina in modo cerimonioso. Era stato certamente un bell’uomo e di quella bellezza conservava il portamento signorile, un viso segnato dalla vita con un suo maschio benché maturo fascino e un accurato paio di baffi bianchi di cui andava orgoglioso.

Isabella Reggiani stava seguendo alcuni casi contemporaneamente, servendosi anche dell’aiuto di alcuni collaboratori esterni. Sembrava prediligesse le situazioni più complesse, difficili da districare e accettava volentieri di assistere chi aveva subito un grave torto, una truffa, un raggiro che lo aveva rovinato e cercava in qualche modo di vendicarsi incastrando il responsabile.

Ma che rapporto c’era tra lei e la misteriosa assassina della prima pagina? Erano la stessa persona? Matteo era ansioso di scoprirlo, ma gli occhi gli si chiudevano. Posò il fascicolo sulla poltrona, si trascinò fino al bagno e quindi fino al letto, dove finalmente trovò pace al termine di una giornata veramente impegnativa.

 

 

 

L’uomo aprì la portiera dell’auto sportiva rossa, si sedette al volante, si accese una sigaretta con aria pensierosa, sembrò perdersi con lo sguardo nella prospettiva notturna della lunga strada di periferia, ipnotizzato dalle luci dei lampioni spettrali che si rincorrevano verso il nulla. Poi si riscosse, emise un lungo sospiro e girò la chiave dell’accensione.

Il potente boato della deflagrazione fu un assordante rullo di tamburi che squarciò il silenzio della notte. Lo sportello del guidatore fu divelto e scaraventato lontano come un veicolo spaziale impazzito, andando ad arrestarsi contro un albero e accartocciandosi.

Il serbatoio dell’auto prese fuoco e il carburante in fiamme eruttò e zampillò verso l’alto formando un’accecante vampata arancione e bianca e cospargendo il terreno di pioggia infuocata. Il sibilo raccapricciante e il crepitio della combustione fecero tremare i vetri delle case e diffusero la loro eco in tutto il quartiere mentre l’ondata di calore bruciacchiava l’erba circostante.

Alcuni automobilisti di passaggio si fermarono a prudente distanza per osservare allibiti la scena. Qualcuno scese, affascinato dal fuoco che continuava ad ardere. Il suono acuto di una sirena non tardò a udirsi, in lontananza.

La donna in completo di pelle, rimasta finora in silenziosa osservazione, quasi completamente invisibile al volante della sua auto nera parcheggiata in una zona d’ombra, si avviò in modo impercettibile scivolando via come una creatura degli abissi.

Solo il bagliore di un sorriso scoprì per un attimo i denti bianchissimi, rapidissimo riflesso nell’oscurità, subito spento.

Accelerò e si allontanò dalla zona. Percorreva ad andatura sicura e veloce un lungo rettilineo quando scorse in lontananza un lampeggiare azzurrino che le sventagliò il parabrezza. Maledizione! Questa non ci voleva… Non poteva assolutamente permettersi un controllo a poco tempo dall’esplosione, con quella tenuta da pantera nera che avrebbe messo in allarme anche il più stupido dei poliziotti. Il suo nome non doveva venir fuori in alcun modo. Doveva pensare rapidamente. Rallentò. Tornare indietro avrebbe destato dei sospetti ma era l’unica soluzione. Se la inseguivano poteva almeno tentare di seminare l’auto della polizia. Conosceva le strade alla perfezione e non era difficile scomparire in qualche intrico di viuzze.

Eseguì un’improvvisa inversione di marcia, facendo stridere le gomme e conservando con perizia il controllo del mezzo. Appena possibile schiacciò l’acceleratore con forza, come se volesse incunearlo nel pianale. Sicuramente la manovra non era sfuggita ai poliziotti: di lì a poco avrebbe visto dei fari dietro di lei e udito l’urlo lacerante della sirena. Intanto però aveva acquistato un certo vantaggio. Appena vide nello specchietto il malefico lampeggiare azzurro, abbandonò la strada principale e si addentrò nelle vie strette e aggrovigliate di un popoloso quartiere. Doveva svoltare continuamente, non poteva permettere che identificassero la macchina. La vicinanza delle case che sfrecciavano ai lati aumentava in modo allucinante la sensazione della velocità, ma non poteva lasciar avvicinare la polizia. Non doveva neanche dar loro il tempo di chiedere rinforzi e organizzare un altro posto di blocco davanti a lei: la soluzione era raggiungere al più presto il suo ufficio, che non era lontano, abbandonare la macchina in una via laterale senza essere vista, entrare nel palazzo da un ingresso posteriore e cambiarsi d’abito. A quel punto sarebbe stata insospettabile.

 

 

 

Matteo aveva ripreso la lettura di primo mattino. Godeva di una certa libertà al giornale e aveva telefonato avvertendo che quel giorno non sarebbe andato: si inventò un immaginario inserzionista che lo aspettava per trattare l’acquisto di uno spazio pubblicitario. Aveva dedicato pochi minuti alla colazione e alle pulizie personali e si era subito lasciato irretire dalle fosche vicende della misteriosa Isabella Reggiani.

Dunque la brillante investigatrice privata e la fredda quanto implacabile giustiziera della notte erano la stessa persona. La cosa si faceva sempre più intrigante.

A mezzogiorno Matteo era già a tre quarti del fascicolo e aveva assistito ad altre eleganti eliminazioni. Isabella sfruttava la conoscenza degli ambienti e delle persone con cui veniva a contatto per il suo lavoro per scoprire individui particolarmente spregevoli, individui che in un modo o nell’altro avevano mandato in rovina qualcuno, individui particolarmente astuti e subdoli che riuscivano a sfuggire alla polizia, che i magistrati inquirenti non riuscivano a inchiodare, che persino la cosiddetta giustizia di Dio ignorava, visto che continuavano a godersi la vita spudoratamente, magari col frutto delle loro malefatte. Isabella odiava questi personaggi con tutte le proprie forze e quando gliene capitava qualcuno a tiro lo condannava inesorabilmente. Studiava le sue abitudini, elaborava un piano perfetto, non tralasciava alcun particolare, eliminava puntigliosamente qualunque dettaglio che potesse collegare l’omicidio alla sua persona e quindi passava all’azione. Un’azione rapida, rabbiosa, travolgente, spesso elegante e silenziosa, come l’attacco di una belva. Nei giorni in cui preparava l’azione viveva quasi in uno stato ipnotico, il coinvolgimento era totale, come se la sua fosse una vendetta, come se qualcosa di molto personale e profondo producesse un’ incontenibile determinazione. Ma cosa? Cosa nascondeva Isabella?

 

 

 

Le luci soffuse, sapientemente mimetizzate dietro una cornice che correva lungo tutto il soffitto blu, piovevano languidamente sui tavoli e sulle poltroncine di panno rosso,

creando un’atmosfera vagamente onirica, in totale contrasto col banco del bar, animato e luminoso, dietro il quale si affaccendavano alcune ragazze con un’ampia camicetta bianca, generosamente scollata, coperta da un gilet nero.  Grandi schermi al plasma bucavano l’oscurità con i colori violenti di un gruppo musicale e dei loro strumenti, un groviglio di immagini in movimento. I giovani che si affollavano nella sala e al banco del bar mescolavano le loro risate, il loro assordante cicaleccio con il frastuono del bar e il sottofondo musicale, dal ritmo esuberante, leggermente ossessivo.

Isabella era completamente isolata dai suoni e da tutto l’ambiente, concentrata solo su un gruppo di persone sedute in un angolo e, in particolare, su quello che sembrava avere un certo ascendente su tutti gli altri. Solo lei, con ogni probabilità, sapeva che si trattava di piccoli spacciatori occasionalmente riuniti per conferire con un esponente di spicco del settore, un intermediario venuto appositamente da fuori, uno che probabilmente conosceva di persona i responsabili del grosso traffico.

Isabella era venuta casualmente a conoscenza di quell’incontro mentre stava effettuando alcune indagini per conto di una coppia di distinti signori, che l’avevano contattata nel disperato tentativo di tirar fuori il figlio dal giro della droga e da una dipendenza che si stava rivelando drammatica. Si era abilmente mimetizzata per quel tipo di locale indossando dei semplici jeans, una maglietta stinta e un giubbettino di pelle striminzito e consunto. Stava attentamente studiando, come era sua abitudine, i movimenti e le abitudini dell’uomo “di rispetto”, prima di elaborare un eventuale piano e passare all’azione. Conosceva già l’albergo in cui alloggiava, la camera occupata e forse aveva trovato anche un punto debole, il punto in cui penetrare per sferrare uno dei suoi attacchi silenziosi e micidiali: l’uomo aveva chiesto al portiere se conosceva qualche ragazza disponibile a tenergli compagnia, una ragazza piacente, ben dotata, aveva specificato, ma soprattutto discreta e fidata. Il portiere era un po’ sprovveduto in questo genere di cose ma aveva annusato la possibilità di un extra consistente, aveva finto di saperla lunga e aveva promesso di risolvere il problema. Aveva fatto un po’ di telefonate e una di queste a uno degli informatori di Isabella. Un colpo di fortuna inaspettato: l’informatore aveva pensato che la notizia potesse avere un qualche interesse e l’aveva passata alla cliente più generosa. Isabella, con la rapidità di sintesi che la caratterizzava,  aveva immediatamente deciso che  quella ragazza disponibile sarebbe stata lei.

Era talmente concentrata nei propri pensieri che solo in un secondo tempo si accorse che qualcuno la stava osservando con particolare intensità.

Stava appoggiato al banco del bar con un gomito, mentre con l’altra mano reggeva un tumbler, ripieno a metà di un liquido color rosso rubino.  Un giovane come tanti altri, con una certa eleganza disinvolta e trasandata, un completo grigio scuro informale, una camicia grigia in tonalità più chiara con il collo sbottonato. La guardava con aria tra l’ironico e l’ammirato, uno sguardo acuto, lineamenti gradevoli. Quando vide che lei si era accorta di lui e ricambiava lo sguardo, sorrise e le fece un cenno col bicchiere.

Isabella distolse immediatamente lo sguardo. Accidenti, ci mancava solo che qualcuno la abbordasse! Aveva ben altro a cui pensare!

Ma il giovane sembrava ben intenzionato a non farsi scoraggiare. Si diresse verso di lei con calma, continuando a sorridere.

«Ciao. Ma tu non bevi niente?»

«Mmh…no. Stavo andando via… Ero qui per cercare un’amica ma non la vedo .»

«Se vuoi te ne prendo uno uguale al mio…»

Ma guarda te! Doveva fare un minimo di conversazione, se no non sarebbe stata credibile.

«E cosa sarebbe?»

«Niente di speciale… un banalissimo Americano, ma a me piace molto.»

«Mi dispiace… non mi intendo di liquori…»

«E’ un cocktail classico: metà bitter Campari e metà Martini rosso. Con un po’ di soda. Parte con una nota fresca ma poi lascia in bocca una bella armonia di sensazioni. Ah, dimenticavo, questo tipo di bicchiere si chiama old fashioned.»

Ma quanto parlava! Doveva liberarsene in fretta. Simpatico però…

«Be’, devo dire che sei molto convincente. Purtroppo devo andarmene…»

«Non ti ho detto l’origine del nome. Ai primi del ‘900 i giovani baristi, affascinati da tutto quello che cominciava ad arrivare dall’America, cominciarono a servire i cocktail usando liquori italiani.»

«Scusami, adesso devo proprio andare.»

Il giovane assunse un’aria veramente  mortificata.

«O.K., ricevuto… ho sbagliato tutto, come sempre. Non ho nemmeno una possibilità vero?»

Isabella esitò un attimo. Quella frase diretta e sincera l’aveva un po’ disorientata. Guardò meglio il viso del suo interlocutore: aveva dei begli occhi azzurri, dei riccioli castani un po’ arruffati, una simpatica smorfia di comica disperazione. Di colpo il suo cervello prese una strada imprevedibile. Pensò in un attimo quanto fossero fredde e impersonali le relazioni che aveva con le altre persone, quanto poco concedesse a una sua vita personale, quanto fosse sola…

«Mi hai detto tutto sui cocktail ma non mi hai detto il tuo nome…» disse cambiando totalmente atteggiamento e facendo brillare un sorriso.

«Be’… io sono Stefano. Benvenuta tra noi!»

«E io sono Isabella. Senti Stefano, posso dedicarti una mezz’ora, poi me ne devo proprio andare. In questa mezz’ora possiamo scambiare qualche parola e puoi offrirmi il tuo famoso Americano.»

Osservò Stefano che si allontanava allegramente per procurarsi l’aperitivo promesso. Immaginò che si sentisse come il vincitore di un primo round… Ma sì, pensò con un’alzata di spalle, in fondo un momento di pausa dalla sua burrascosa esistenza poteva prenderselo. Tutto sommato il ragazzo era divertente… e lei non poteva vivere in continua tensione. Prima o poi l’avrebbe pagata.

Stefano le posò il bicchiere davanti assieme a una coppetta di arachidi e la osservò bere.

Isabella era abituata agli sguardi di ammirazione degli uomini ma questo ragazzo riusciva a metterla a disagio. La guardava con lo stupore e la gratitudine con cui si scopre il primo spicchio di luna in un cielo tenebroso, l’intensità con cui si vuole stabilire un contatto.

«Ho visto che ti interessano molto quegli uomini laggiù…» disse lui senza preavviso in tono neutro.

Isabella si mise subito sulla difensiva. Maledizione! Era stata notata…

«Mah… no, pura curiosità…» disse con indifferenza.

«Sai chi sono?»

«No… mai visti.»

«Sono spacciatori. Qui li conosciamo bene.»

«Ma come? Voi li conoscete e la polizia li ignora?»

«Come sei ingenua!» rise Stefano. «Le soffiate sulle operazioni antidroga rendono molto bene a qualcuno… E chi riesce a incastrarli! Magari qualche pesce piccolo, giusto per far vedere che si sta facendo qualcosa. Ma sai cosa penso io? Che dal Ministero arrivino addirittura delle circolari che invitano a non creare eccessivo allarme sociale. Finché non danno troppo fastidio li lasciano campare.»

Isabella era allibita: ma tu guarda dove era andato a finire il discorso! Sorrise fra sé… si era anche beccata dell’ingenua! Le sembrò però di cogliere un sincero rammarico nelle parole del giovane.

«Vedo che questo argomento ti sta a cuore…»

«Be’… diciamo che sono coinvolto personalmente…» Stefano scosse la testa e si fece improvvisamente triste. «Qualche anno fa mio fratello ci ha lasciato le penne…»

Isabella si irrigidì come se qualcuno le avesse colpito il viso.

«Ho detto qualcosa che non va?» chiese Stefano allarmato.

Isabella si era alzata e lo fissava con una strana intensità.

«Ti va di fare due passi?»

«Certo…».

 

 

 

Il lungomare era deserto. Camminarono in silenzio per un po’ , seguendo sul marciapiedi il gioco delle ombre formate dai lampioni. Le sagome scure li precedevano, li aggiravano e poi li seguivano fino a svanire per poi ricominciare. In lontananza il lento sciabordio della bassa marea accompagnava come un sottofondo l’eco dei loro passi.

Isabella si chiese in seguito come mai si fosse confidata a quello sconosciuto, come mai il groviglio di sentimenti che le opprimeva l’animo avesse deciso di sciogliersi proprio quella sera. Forse l’aria profumata di una primavera imminente, l’aspro sapore della salsedine che si mescolava ai primi aromi profumati sprigionati dalle aiuole, forse la tranquilla fiducia che le ispirava quel giovane appena incontrato, la sua fragilità che nascondeva una semplice solidità, chiaramente percepibile. O forse il semplice fatto di essere accomunati da un dramma.

«Anch’io ho perso un fratello… era il “piccolo” della famiglia. Tutti lo viziavamo e alla fine ci è sfuggito di mano. Sai come vanno queste cose… Ti chiedi cos’hai sbagliato, cosa gli ha fatto tanto schifo di questo mondo per rifugiarsi in uno parallelo… Ma non ci sono risposte. Ci derubava, scappava e noi lo riportavamo a casa. Loro lo venivano a cercare, non potevano lasciarsi sfuggire una delle loro galline dalle uova d’oro. Una sera nostro padre buttò giù dalle scale un paio di balordi che erano venuti a prenderlo. Ma questo era niente al confronto di quello che venne dopo. La malattia… puoi immaginare quale. Fu una cosa lunga, una sofferenza indescrivibile per tutti noi. E alla fine lo abbiamo perso. I miei col tempo si sono rassegnati… ma io no.  Quegli anni mi hanno indurito, mi hanno lasciato il segno. Ancora oggi mi sento dentro un odio che spaventa me stessa…»

Isabella fece una pausa. Stefano camminava pensieroso al suo fianco, senza interromperla, incoraggiandola e sostenendola col suo silenzio, come un analista che lascia il suo paziente libero di esternare le sue angosce.

«Volevo entrare nella polizia,» riprese Isabella, «dare la caccia a quegli stronzi, metterne in galera quanti più potevo. Poi pensai che sarei stata più libera da sola.

Oggi ho un’agenzia di investigazioni e qualche risultato interessante lo raggiungo.»

Si trattenne in tempo. Aveva già detto troppo.

 

 

 

Matteo non poté trattenere un gesto di soddisfazione: dunque Isabella era una vendicatrice! E Stefano? Era un caso che il nome corrispondesse a quello dell’autore che figurava sul frontespizio, Stefano Avveduti? Forse non era azzardato supporre che l’autore avesse incontrato veramente Isabella, o una donna simile a lei, e ne avesse tratto ispirazione per una storia autobiografica. Ma in che misura la finzione letteraria rispecchiava la realtà? Si ripromise di fare qualche cauta ricerca, cominciando con l’interrogare, appena possibile, la padrona di casa. Ma prima doveva assolutamente terminare la lettura: non si era mai sentito tanto coinvolto da una trama. Seguiva le vicende di Isabella come un innamorato che spia la sua amata,  temendo di essere tradito o temendo di perdere anche solo un attimo della sua compagnia. Correva verso l’ultima pagina come fosse una meta predestinata, inesorabile, la rivelazione di qualche fondamentale verità.

 

 

 

La ragazza, in minigonna indecente, si avvicinò ancheggiando al banco della reception e vi si appoggiò con ambedue i gomiti, sporgendo verso il portiere di notte un viso piuttosto bello ma truccato volgarmente e con un’espressione scaltra e provocante.

«Salve!» disse con una pesante inflessione dialettale. «Sono Cinzia… è lei che ha parlato con Tony?»

«Sì, sono io,» disse il portiere, guardandola incuriosito. «Aspetti un attimo.» Afferrò un telefono, digitò un numero su una tastiera. «Buona sera signore, è la reception. C’è qui la signorina Cinzia per lei… la faccio salire? Va bene.» Uscì dalla sua postazione e indicò un corridoio alla ragazza.

«Da quella parte c’è l’ascensore. Quarto piano, stanza 412.»

«Grazie, buona notte!» replicò la ragazza con un lampo divertito negli occhi..

Il portiere la guardò allontanarsi, lasciando vagare lo sguardo sulle lunghe gambe e sul ritmico ondeggiare del rigoglioso di dietro. Che pezzo di gnocca, pensò, mi sa che gli costerà cara…

 

 

 

Il signore della 412 sospirò e gemette, immergendo il viso nella fluente chioma nera, strisciando lungo il collo e inebriandosi del profumo che la pelle della donna emanava: un profumo che sapeva di paesi lontani e provocava un leggero senso di stordimento. Era un uomo robusto, dalla faccia dura e squadrata, con uno sguardo risoluto che l’eccitazione erotica del momento riusciva ad ammorbidire.

La ragazza gli aveva sfilato la camicia e lo stava mordicchiando sulle spalle e sul petto.

«Cinzia, mi stai facendo impazzire…» mormorò. «Adesso però basta giocare, me l’hai fatto venire duro come il marmo…» aggiunse, infilandole una mano nelle mutandine e accarezzando sgraziatamente il morbido cespuglio di peli che nascondeva un promettente rilievo umido e caldo.

«Eh, eh… golosone… non essere impaziente. Su, sdraiati, ti faccio fare un bel gioco…»

«Ma no… sono stufo di giocare…»

«E dài, sdraiati… Voglio farti una sorpresa… vedrai, ti piacerà…»

L’uomo si sdraiò di malavoglia. La ragazza gli andò a cavalcioni sul petto, gli prese un braccio, lo portò verso l’alto e gli annodò un polso al montante della testiera del letto.

«Ho capito che gioco è… ma non mi piace essere immobilizzato.»

«E’ solo un nastro fatto con una calza: puoi liberarti quando vuoi… »

Gli prese l’altro braccio e legò, abile e veloce, anche quello. Lui lasciava fare con un mezzo sorriso sul volto: non era del tutto convinto ma il bacino della ragazza, muovendosi in modo sinuoso e  strusciandogli il petto, lo distraeva in modo eccitante e lo rendeva remissivo.

Cinzia continuò ad armeggiare su di lui. Si spostò verso il basso, gli sfilò contemporaneamente slip e pantaloni, liberando un uccello grosso e pulsante. Ma, arrivata alle caviglie, invece di sfilare definitivamente gli indumenti, strinse la cintura e la fermò con destrezza all’ultimo buco, poi prese l’estremità rimasta libera e la fissò con un nodo ai piedi del letto.

«Che cazzo fai!» gridò l’uomo. Era più arrabbiato che stupito o impaurito. «Liberami subito, stronza! Adesso mi hai veramente rotto i coglioni!»

Cominciò a strattonare fortemente i nodi con cui era legato e ad arcuare il corpo. Niente da fare. Era immobilizzato. La ragazza lo guardava ironicamente.

«Incredibile quanto possa essere robusta una calza da donna, eh ? Ma voi bastardi dovreste saperlo… possibile che non vi sia mai capitato di strangolare una povera disgraziata che faceva resistenza…»

L’uomo adesso la guardava con curiosità, le pupille strette e malvagie..

«Cosa vuoi? Per chi lavori!?»

«Ah, ah! Per chi lavori… non ti viene in mente altro che le vostre maledette guerre tra bande… Be’, io lavoro per me stessa.» Mentre parlava si era raddrizzata, si era rimessa a posto gli abiti e aveva recuperato la borsetta da una delle poltrone.

«Mi chiamo Isabella, non Cinzia. E non sono una squillo, come avrai capito. Ti dico il mio nome vero perché tanto non potrai venirmi a cercare. Infatti stai per morire.»

L’uomo cominciò ad agitarsi di nuovo, scuotendo violentemente il letto. Sul suo volto la paura aveva ormai preso il posto dello sbalordimento.

«Aiuto! Aiuto!» gridò con voce potente.

«Inutile che ti sforzi tanto. E’ un buon albergo… le stanze sono insonorizzate, non lo sapevi?»

Isabella si sedette accanto a lui sulla sponda del letto. Lo fissò con i suoi occhi di velluto, che per un attimo furono attraversati dal lampo più crudele che lui avesse mai visto. Estrasse dalla borsetta una siringa.

«Scommetto che questa la conosci bene. Tu la morte la vendi, anche se probabilmente non ti sporchi le mani di persona. Ho pensato quindi che ti sarebbe piaciuto sapere come muoiono quelli che tu condanni senza scrupoli.»

Il volto dell’uomo era un’orrenda maschera di odio e terrore.

«Maledetta!» ringhiò, tirando ancora una volta, inutilmente, i nodi che gli serravano i polsi.

Isabella cominciò ad aspirare con la siringa un liquido incolore da un boccettino.

«Sei curioso di sapere che roba è? Si tratta della famosa “cristallina”… per te non c’è bisogno di spiegazioni: chissà quanta ne fai girare… Una mistura pericolosa di coca e atropina… ma mi viene un dubbio: forse ho esagerato con l’atropina!»

Estrasse dalla borsetta un laccio emostatico e glielo strinse al di sopra del gomito. Poi gli afferrò un braccio con forza insospettabile e lo tenne fermo come in una morsa. Con gesto rapido e deciso infilzò la vena gonfia e bluastra.

L’uomo, i muscoli tesi allo spasimo, la fissava con due occhi sbarrati che sembrava volessero schizzare come proiettili contro di lei.

Isabella si alzò con calma, si guardò intorno: inutile preoccuparsi di eventuali tracce. Cinzia, la squillo di lusso, sarebbe scomparsa per sempre. Lanciò un ultimo sguardo inespressivo all’uomo sul letto.

«Scusa se ti ho fatto un’endovena. Forse preferivi sniffare. Ma non so se avresti collaborato…»

 

 

Matteo chiuse un attimo gli occhi. Isabella lo affascinava sempre di più. E invidiava Stefano perché molto probabilmente l’aveva conosciuta per davvero.

 

 

 

«Reggiani Investigazioni. Chi parla?»

«Ciao, sono Stefano. Ti ricordi di me!?»

«Ah… Stefano… Certo che mi ricordo. Ci siamo conosciuti ieri sera.»

«Che fai di bello?»

«Sto lavorando.»

«Ti sento molto fredda. Quindi se ti invito per un mitico “Americano” mi dirai di no…»

«Senti Stefano… mi dispiace molto deluderti, mi dispiace veramente… ma non voglio che mi cerchi. Non ci può essere niente tra di noi. Né ora, né in futuro. Meglio mettere subito in chiaro questa cosa prima che tu ti crei delle aspettative.»

«Accidenti… ero pronto a tutto ma non a una chiusura così totale… Però tu mi sottovaluti: pensi che io mi arrenda tanto facilmente?»

«Stefano, ti prego, non rendere le cose più complicate.  Lo so che è difficile da mandar giù, ma, credimi, non ti posso dare spiegazioni. Mi sei simpatico, credo che tu sia una persona sensibile e intelligente: per questo ti consiglio, come lo consiglierei a un amico, di lasciar perdere. Subito, senza porti domande.»

«Ma… sei spietata… e se io ti amassi alla follia?»

«Amore… amore! Ma se ci conosciamo appena. Dammi ascolto: è l’innamoramento di una sera: ti passerà in fretta. Non voglio che tu insista: io posso diventare molto, molto spiacevole…

Allora? Ci salutiamo senza problemi?»

«Va bene… come vuoi tu… senza problemi. Allora… ciao.»

«Ciao.»

Isabella osservò per qualche secondo la cornetta del telefono, dopo averla messa giù. La compassione non rientrava nella sua gamma di sentimenti, era definitivamente scomparsa molti anni prima, completamente prosciugata durante i giorni della lenta agonia di suo fratello. Però qualche barlume di sentimento lo provava per quel giovane che aveva preso una patetica cotta per lei.

Si alzò e andò alla finestra dello studio. Tra le foglie dei platani scorreva silenzioso l’animato traffico della città. Improvvisamente si accese dentro di lei l’immagine grottesca dell’uomo che aveva appena (una decina di ore?) eliminato: con i pantaloni calati, il sesso poco prima orgoglioso ridottosi a un mucchietto di carne tremante… sarebbe stato ridicolo se la posa indecente non avesse urlato tutto il suo terrore, se il corpo, dalle braccia spalancate come un macabro crocifisso, non avesse assunto la forma di un raccapricciante simbolo della violenza, della vendetta inflessibile. Bene, un altro di quei maiali aveva pagato. La soddisfazione era purtroppo molto breve: Isabella si sentiva ormai schiava della sua sconvolgente dose di droga personale. Ogni volta credeva di aver messo a tacere i suoi demoni e questi riemergevano invece più esigenti di prima: come un animale da preda cominciava a guardarsi intorno, ad annusare il male per snidarlo, a cercare con sete smaniosa la sua prossima vittima.

Ormai era condannata a essere sola: non poteva coinvolgere nessuno, doveva rinunciare, anche se dolorosamente, come questa volta, a tutto quello che poteva intralciarla.

Ripensò al membro eretto che aveva scoperto sfilando i pantaloni all’uomo della stanza 412, si concentrò un attimo su quella immagine per vedere che effetto le facesse… no, le faceva solo schifo. Non ne avrebbe mai sentito la mancanza.

Fuori, nella strada, l’aria stava scurendo. Le vetrine di alcuni negozi, sul marciapiedi opposto, formavano già un alone luminoso e colorato. Le luci di posizione delle auto punteggiavano di rosso la colonna grigiastra che scorreva ininterrotta sull’asfalto.

Isabella sorrise: si appressava la notte, il suo regno. Era ora di cambiare identità. La tenebrosa  tenuta di pelle della giustiziera attendeva immobile e minacciosa dentro l’armadio. Asciugò con fastidio una lacrima scesa dai meravigliosi occhi morbidi come il velluto e cominciò a cambiarsi.

 

 

 

Matteo rabbrividì: aveva appena finito di leggere qualcosa che aveva tutti gli ingredienti per divenire un best seller. Ed era lì, tra le sue mani, inedito… doveva assolutamente saperne di più sull’autore.

Diede un’occhiata all’orologio: sì, faceva ancora in tempo ad andare dalla padrona di casa prima dell’ora di pranzo. Mise amorevolmente il fascicolo in un cassetto, si vestì in fretta e furia e pochi minuti dopo era già per strada.

 

 

 

«Chi è?»

«Sono Matteo, Matteo Guidi, il suo nuovo inquilino.»

«Ah, sì, signor Guidi… si accomodi» disse un’anziana signora aprendo la porta. Si scostò per lasciarlo passare e si richiuse la porta alle spalle. Era un po’ curva e guardò Matteo dal basso verso l’alto con occhi vivaci e sorridenti.

«Venga, venga: non stiamo qui nell’ingresso…C’è qualche problema nell’appartamento?»

«No, nessun problema. Volevo solo dirle che avevo trovato dei libri, sicuramente sono del precedente inquilino e volevo restituirglieli…»

La donna assunse un’aria addolorata e scosse la testa.

«Oh, povero Stefano… se sapesse, una brutta storia…»

«Che… che cosa è successo?» chiese Matteo imbarazzato per quella inattesa reazione.

«Un così bravo giovane… gentile. Un bellissimo ragazzo. Era uno scrittore sa? Pubblicava dei racconti sulle riviste letterarie, e anche delle poesie. Poi… qualche mese fa si è ammalato. Poverino, aveva una di quelle brutte malattie, con un nome complicato che non so neanche dire… un li… un linfo…»

«Un linfoma di Hodgkin?» suggerì Matteo.

«Sì, mi sembra proprio quella. E’ stato molto in ospedale. Pensi, i suoi genitori hanno continuato a pagarmi l’affitto. Poveretti, che brave persone, forse hanno sperato fino all’ultimo… Poi quando Stefano è morto, sono venuti nell’appartamento e hanno portato via tutte le sue cose. Se hanno lasciato dei libri, si vede che hanno pensato non fossero importanti… E’ meglio che se li tenga lei, non vada a disturbarli…»

Matteo aggiunse qualche formalità, augurò il buon pranzo alla sua padrona di casa e se ne andò.

Si ritrovò in strada con una folla di pensieri che gli si aggrovigliavano nella mente. Decise di andare a mangiare in un ristorantino che conosceva, era tardi e non aveva voglia di mettersi a cucinare. E poi doveva pensare.

Strada facendo cominciò a mettere ordine nella sua testa.

Dunque, Stefano Avveduti era senza dubbio un grande scrittore. Il poveretto aveva creato il suo capolavoro, aveva fatto in tempo a terminarlo, verosimilmente poco prima di morire, ma non aveva potuto pubblicarlo. L’aveva spedito a qualche editore? Anche a questa domanda la risposta sembrava essere “no”, perché tra le carte trovate nello stanzino, in gran parte corrispondenza di vario genere, non c’erano copie di raccomandate fatte, non c’erano ricevute, insomma non c’era nulla che facesse pensare a una corrispondenza con editori o critici o altri personaggi di quell’ambiente.

E quindi lui, Matteo, si trovava per le mani un capolavoro inedito… e se se ne fosse appropriato? Come tutti quelli che scribacchiano, anche lui sognava il successo, la scoperta da parte di un editor di qualche casa editrice famosa, le migliaia di copie vendute…

Certo era una bella carognata nei confronti della famiglia Avveduti… i genitori sarebbero stati contenti di avere quell’ultimo fiore lanciato al mondo dal loro figlio prima di morire. Si sarebbero occupati loro della pubblicazione, sarebbe stato come vederlo rivivere…

Ma no! Sarebbe stata una ben magra soddisfazione. Per lui invece era un colpo di fortuna, una specie di eredità che Stefano aveva voluto lasciargli. Il caso aveva voluto che fosse lui a trovare quel fantastico romanzo e adesso era suo. Anzi, cominciava già a sentirsi come se l’avesse proprio scritto lui, la sintonia con il vero autore era tale che Isabella gli appariva come un parto della sua fantasia, una sua legittima creatura.

Sì, aveva deciso. Quel pomeriggio stesso si sarebbe messo al lavoro. Il suo mestiere di piccolo giornalista di provincia lo aveva comunque portato a contatto con numerose persone che potevano indirizzarlo, aiutarlo, raccomandarlo. Doveva agire con prudenza e astuzia… sicuramente il sistema non era quello di spedire una copia a destra e a sinistra.

Quando raggiunse il ristorante era deciso ed euforico. Si sentiva già ad un passo dal successo e dai soldi. I pochi scrupoli morali, la sensazione che quello che stava facendo era in fondo una vera sconcezza, erano stati spudoratamente accantonati e sepolti sotto l’esaltazione che si era impadronita di lui come una sbornia accecante.

 

 

 

 

 

Qualche mese dopo.

 

La grossa libreria del centro traboccava di gente: avevano ricevuto un invito personale alla presentazione di un nuovo libro dal titolo intrigante:  “La giustiziera dagli occhi di velluto”. Altri invece avevano letto la notizia nientemeno che sulla cronaca nazionale ed erano stati incuriositi dal favorevole giudizio espresso da un noto critico letterario, giudizio sapientemente pilotato dall’editore.

Il libraio aveva rinunciato da tempo all’atmosfera raccolta degli scaffali silenziosi, si era ingrandito e aveva fatto proprio lo stile del supermercato, con banchi strapieni di volumi dalle invitanti copertine, ognuna delle quali giocava le armi più subdole della seduzione.

Ben in vista di fronte all’ingresso attiravano immediatamente l’attenzione alcune pile ordinate del volume protagonista della serata, con la sua copertina rossa e nera, i colori del mistero, della violenza, della passione. Chi ne prendeva una copia per osservarla meglio non poteva sottrarsi all’incontrollabile fascinazione di due occhi che emergevano dall’ombra, scrutando l’osservatore fino in fondo alle sue paure più inespresse. Il grafico aveva fatto un ottimo lavoro: il libro meritava di essere acquistato anche solo per l’ottima veste editoriale.

In un angolo era stata sistemata una scrivania, dietro la quale Matteo Guidi era a disposizione degli acquirenti del volume per una dedica, un sorriso, la risposta a qualche domanda da parte dei lettori più curiosi. Appariva elegante, sicuro di sé, assaporava con gusto i primi lati positivi del successo: la fila che sembrava non finire mai, la soddisfazione del libraio, gli sguardi interessati delle donne che dicevano timidamente il loro nome per farsi scrivere sul frontespizio una delle solite banalità: cordialmente, con simpatia... seguite da una data e uno scarabocchio per firma.

Matteo prese automaticamente il libro che qualcuno gli porgeva, afferrando contemporaneamente la penna sul tavolo.

«Lei come si chiama?»

«Isabella.»

Matteo alzò di colpo lo sguardo. La donna che gli stava davanti era una delle più belle che avesse mai visto. Sicura di sé, di sobria eleganza, lo dominava dall’alto con la sua figura eretta, i fluenti capelli scuri, uno sguardo magnetico che il sorriso appena accennato non riusciva ad ammorbidire.

«Lei... lei si chiama come la mia protagonista...» balbettò Matteo con un sorrisino idiota.

«No, non è esatto: sono io la sua protagonista. Io sono la vera Isabella.»

Matteo sobbalzò violentemente. I rumori circostanti, la gente, divennero un confuso groviglio colorato e vociante, un’eco fastidiosa che lo frastornava. Deglutì vistosamente e sentì che cominciava a coprirsi di sudore, incapace di parlare, di staccare lo sguardo da quegli occhi che lo stavano fissando con la stessa intensità di un animale predatore.

«Lei sa troppe cose di me...» proseguì Isabella con voce bassa e minacciosa. «Non solo: ha commesso il grave errore di divulgarle. Fortunatamente nessuno assocerà a me questo personaggio di fantasia... ma preferisco non correre rischi. Diciamo che... se lei scompare dalla circolazione, io sono più tranquilla. Nessuno potrà chiederle a chi o a cosa lei si sia ispirato... La devo lasciare: c’è altra gente che attende impaziente il suo autografo.»

Si girò per andarsene, con grande sollievo della piccola fila che si era creata dietro di lei. Indugiò un attimo... si girò di nuovo, lanciò a Matteo un ultimo sguardo, che lo trafisse come una pugnalata.

«Dimenticavo... faccia attenzione quando esce di casa... succedono tanti brutti incidenti oggi...»