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La filiale di Pesaro delle Poste Italiane e l’Ufficio Postale di Pesaro Centro si trovano nell’area occupata un tempo dalla chiesa di San Domenico, anzi trovano posto proprio in una trasformazione architettonica della chiesa stessa: la vicenda vale la pena di essere raccontata, sia perché si intreccia alla storia della città sia perché costituisce un esempio di come spesso pregevoli monumenti, prezioso patrimonio della nostra memoria storica, scompaiono, lasciando solo poche tracce, certo non solo per l’incuria dell’uomo ma anche per le non evitabili ingiurie del tempo e degli eventi.
Tra la fine del secolo XIII e l’inizio del XV si diffonde nella provincia di Pesaro lo stile gotico, trasmesso dai frati pellegrini appartenenti agli Ordini cosiddetti “mendicanti”, che si stabiliscono nella nostra città, come in tante altre, per diffondere la fede: non dimentichiamo che a quel tempo il pericolo di eresie era molto diffuso. La scelta dell’ubicazione dei conventi era molto attenta, pensata in funzione della sussistenza derivante dalle elemosine. Da notare ad esempio che a Pesaro le chiese gotiche sono disposte in quattro quartieri diversi e lungo le principali strade ortogonali (Via Rossini e Via Branca, con la Cattedrale e San Domenico,  Via San Francesco e Corso XI settembre, con San Francesco e Sant’Agostino).

La costruzione di chiese e conventi  e  il  loro  arricchimento  erano  favoriti  ovviamente anche dalla concessione di indulgenze a tutti coloro che concorrevano alle spese, ai lasciti di famiglie ricche e nobili in cambio di cappelle, lapidi, sepolture.

Secondo alcuni storici l’introduzione dell’ordine dei Padri Predicatori nella città di Pesaro sarebbe del 1287 e la costruzione della chiesa del 1290. C’è però una Bolla del Papa Gregorio XI del 1237 che testimonia già la presenza in città dei domenicani, i quali officiavano in due piccole cappelle, di San Giorgio e di Santa Caterina: queste vennero in seguito inglobate nel chiostro del convento. Nel 1292 si ha notizia dell’erezione di una Chiesa ad una navata, poiché in un testamento  redatto in quell’anno, una certa Guiborga Dalle Ripe lascia una consistente donazione per ottenere sepoltura all’interno della chiesa stessa.
Nel secolo seguente si hanno importanti modifiche strutturali, la più rilevante delle quali è l’ampliamento a tre navate: nel corso dei secoli, come vedremo, le navate laterali scompariranno e a testimoniare il passato splendore resta tutt’oggi, sull’odierna Via Branca, la facciata in cotto della navata centrale divisa in tre parti da due lunghe lesene che la percorrono in tutta la sua altezza (fig. 1).

Secondo Giulio Vaccai e G.B. Passeri la facciata era impreziosita anche da diversi piatti di ceramica a colori, che nel sole del pomeriggio risplendevano sullo sfondo rosato della pietra.
Nel 1395, durante la signoria di Malatesta II (detto anche “dei sonetti” perché era poeta e uomo di lettere), viene aperto sulla navata centrale il magnifico portale, opera, secondo il Vasari, di artisti appartenenti alla bottega dei veneziani Jacobello e Pier Paolo Dalle Masegne: ma non tutti gli storici d’arte concordano con questa attribuzione, anche perché l’insieme del portale non è unitario ed è quindi opera di diversi esecutori (fig. 2).

Data ed evento sono attestati comunque con certezza da un’iscrizione a caratteri gotici sull’orlo inferiore dell’architrave, dallo stemma a scacchiera dei Malatesta e dal monogramma MM:

HOC OPUS FACTUM FUIT SUB MCCCLXXXXV TEMPORE DOMINATIONIS MAGNIFICI ET EXCELSI DOMINI MALATESTE NATI QUONDAM MEMORIE DOMINI PANDOLFI DE MALATESTIS.

Il portale è costituito da un fascio di sei colonnine (di cui due tortili) che sorreggono la lunetta inserita in un arco a sesto acuto. Nella lunetta tre figure ad altorilievo: il Padre Eterno benedicente tra San Marco (che mostra il Vangelo) e San Giovanni Battista decollato.

 Ai lati  due leoni accucciati e quattro edicolette con santi domenicani: la statua in basso a sinistra rappresenta San Domenico con un giglio in mano (ora spezzato) e senza l’altra mano. Sulla mensola soprastante un santo con in mano un libro e un modello di chiesa, probabilmente l’antica chiesa di San Domenico (fig. 3).

Ancora al di sopra, ai lati dell’arco le due figure di una Annunciazione, purtroppo corrosa dal tempo. Sulla cuspide l’Agnus Dei incluso in un motivo geometrico.
(fig. 4)

Altra caratteristica degli edifici domenicani è la stella in rilievo che viene riprodotta sulla chiave di volta dei portali: è ancora visibile nel portale secondario vicino all’ingresso del Mercato delle Erbe. Analoga
raffigurazione si trova sulla fronte del santo in un bassorilievo custodito presso i Musei Civici (fig. 4).

La stella ricorda la leggenda del sogno profetico fatto dalla madre di san Domenico prima di partorire: la donna sognò di generare un cane con una luce accesa sulla fronte, che metteva a fuoco il mondo. Ciò stava a simboleggiare la predicazione con la quale il figlio avrebbe diffuso la fede cristiana.

Un  altro  segno  distintivo  delle  costruzioni  domenicane  sono  le quattro arche tombali a fianco del portale, sormontate da caratteristici archi ogivali cuspidati. Negli avelli venivano poste le spoglie di uomini illustri o nobili della città, continuando la tradizione paleocristiana di sarcofaghi posti in nicchie come si può vedere nelle catacombe.

Ci fu un periodo di questa, come vedremo, travagliata storia, in cui queste arche erano murate (fig. 5).
La data di consacrazione della chiesa da parte del Vescovo Giovanni Benedetti, il 15 ottobre 1420, è confermata da un’iscrizione trovata nel 1707  su di una colonna.
Ha inizio così un periodo di vita ricca e feconda per la Chiesa di San Domenico, durante il quale vengono eseguiti lavori di ampliamento e arricchimento, soprattutto per quanto riguarda il chiostro e la biblioteca, utilizzata poi come refettorio, per la quale si parla dell’intervento di Girolamo Genga: di questa sono ancora visibili sulla destra, entrando da Via Branca nel Mercato delle erbe, otto archi, tre dei quali aperti.
In una Guida di Pesaro del 1864, redatta da Giuliano Vanzolini, è detto che nelle pareti del refettorio erano affrescati una disputa di Gesù coi Dottori e  le immagini di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino.

Anche l’interno della chiesa era riccamente dotato di quadri e affreschi: un esempio di questi ultimi si può ancora ammirare nel Museo civico di Pesaro, dove si trova uno sposalizio di Santa Caterina la cui vivacità cromatica fa rimpiangere tutto ciò che invece è andato perduto (fig. 6).  La quadreria era imponente e purtroppo molte opere sono andate disperse, ad eccezione della Pala di Pesaro di Giovan Gerolamo Savoldo che si trova alla Pinacoteca di Brera.
All’esterno fu eretto un campanile terminante in una grande guglia centrale, contornata da quattro più piccole. Il campanile era veramente grandioso e si imponeva subito all’attenzione del viaggiatore diretto a Pesaro, che cominciava a scorgere in lontananza il profilo dei tetti della città.

Questa veduta prospettica colpì anche la fantasia di pittori e incisori, che la immortalarono in diverse testimonianze giunte fino a noi.  

La prima di queste vedute  è del 1572  ed è opera del pittore fiammingo George Hoefnagle: si tratta di un’incisione ad acquaforte, pubblicata nel secondo volume dell’opera Civitates orbis terrarum, editore George Braun (fig. 7). Questo modello verrà poi ripreso da altri incisori ed editori fino a tutto il Settecento.

Il campanile di S. Domenico è ben visibile anche in alcune opere pittoriche che si possono tuttora ammirare nella nostra città: nella pala che il Pomarancio dipinse per la cappella della famiglia Diplovatazio nella Chiesa di S. Agostino; nel quadro di S. Eracliano di Giovan Giacomo Cortesi nella Chiesa di San Cassiano (fig. 8); in una veduta di Pesaro di Anonimo nel Palazzo Ducale; in altre due vedute di  Anonimi, di proprietà della Banca delle Marche;  negli  olii  su  tela rappresentanti S. Terenzio e la Beata Michelina, della collezione privata della Canonica.
Impossibile non citare anche l’ incantevole acquerello del pittore pesarese Francesco Mingucci, che apre la serie dei disegni presenti nel Codice Barberiniano Latino 4434 della Biblioteca Vaticana, con dedica al Pontefice Urbano VIII datata 2 aprile 1626  (fig.9).

Nel campanile trovò sistemazione anche la campana della Comunità, quella cioè che  non solo suonava le ore ma convocava i consigli cittadini: anzi, le deliberazioni consiliari, a termini di Statuto, non erano valide se la convocazione non era stata fatta con i rintocchi della campana. Questa si trovava prima su una preesistente torre rotonda (nei pressi dell’odierno Palazzo Baviera) che fu abbattuta per volontà del Duca Guidubaldo II della Rovere (1564)  il quale voleva, con una serie di lavori, ingrandire e abbellire la Piazza. La campana, fusa nel 1547, come si legge nella parte superiore, è tuttora visibile, dopo varie vicissitudini, nell’atrio del Palazzo comunale.

Nel 1594, sopra la porta della chiesa che dava sulla piazza, venne collocato un bassorilievo in terracotta smaltata rappresentante la Vergine genuflessa davanti al Bambino in presenza di un San Giovannino, opera quasi sicura di Andrea Della Robbia, qui trasferita dalla chiesa di San Francesco.
Nel Seicento aumenta il prestigio e il potere dei Domenicani. Malauguratamente questo secolo è funestato da un grave avvenimento: nel 1607, durante l’orario della messa e mentre parlava un famoso predicatore del tempo, Girolamo da Brescia, crollò il dormitorio e molti fedeli furono travolti e uccisi dalle macerie.Tra questi anche Padre Girolamo.

Lo stesso campanile dovette essere abbassato (1669) per ragioni di stabilità.

 

Di questo secolo, precisamente del 1663, è la veduta di Pesaro più conosciuta e diffusa: quella di Johan Jansonius Blaeu, pubblicata in quell’anno ad Amsterdam nel Theatrum civitatum et admirandorum Italiane (fig. 10). Il valore storico dell’incisione è veramente notevole, poiché rappresenta la città con accuratezza e ricchezza di particolari ed è forse l’unica dove possiamo capire chiaramente come fosse il lato di San Domenico che dava sulla piazza, un lato che avrebbe conosciuto in seguito radicali trasformazioni.
Una delle esigenze più sentite nel secolo successivo infatti, fu la sistemazione della fiancata sinistra della chiesa, quella che dava appunto sulla piazza e che, dal punto di vista estetico, creava qualche problema. Le Casse della Comunità non erano in buone condizioni e si chiese aiuto a Papa Clemente XII, ma anche le finanze pontificie a quel tempo erano in difficoltà. A risolvere il problema pensarono il tempo e l’usura delle strutture, che dal punto di vista statico denunciavano sempre più spesso il pericolo di crolli. Tra il 1785 e il 1789 la chiesa dovette essere temporaneamente chiusa e la navata sinistra, che si voleva abbellire, si dovette invece abbattere. Si progettò anche, in quella occasione, di inglobare la navata destra nel convento: la Chiesa sarebbe quindi tornata alla primitiva struttura  ad una navata, lasciando intatto il portale malatestiano. I lavori però devono essere interrotti a causa di grandi rivolgimenti storici.

Nel 1793, dopo la vittoria di Napoleone sulle truppe pontificie, i Francesi occupano Pesaro per quattro anni. Non solo i lavori alla Chiesa di San Domenico vengono interrotti, ma i frati subiscono anche il sequestro di tutto ciò che possiedono e devono sgombrare rapidamente chiesa e convento, che vengono trasformati in caserma per i soldati e scuderia per i cavalli.

Nel  corso   degli  ultimi   lavori  erano   stati  inoltre   spostati   alcuni monumenti presenti nella chiesa, tra cui il pregiato busto in marmo bianco fatto scolpire dal cardinale Fabio Abbati Olivieri in memoria della madre, Giulia Albani Olivieri, zia del pontefice Clemente XI.  Il busto, opera di uno dei maggiori scultori del tempo, il milanese Camillo Rusconi, fu venduto dagli eredi ad un ignoto acquirente nel 1850 e riapparve a Vienna dopo il 1864. Dal 1940 è custodito nel Kunsthistoriches Museum, sempre a Vienna, dove veniva indicato dalla gente come la “weisse dame”, la dama bianca, prima che la studiosa Jennifer Montagu vi riconoscesse Giulia Albani  (fig. 11).  

Nel 1797 Napoleone firma la pace di Tolentino e Pesaro torna sotto la Chiesa, anche se la dominazione pontificia conoscerà d’ora in poi alterne vicende.
Tra il 1797 e il 1798 l’antica chiesa di San Domenico viene completamente rinnovata all’interno su disegno del domenicano Pietro Paolo Belli di Jesi
Resta però il problema della striscia di terreno su cui sorgeva la navata sinistra, corrispondente grosso modo all’ampio marciapiedi oggi di fronte alle Poste, rimasta inutilizzata. Sull’uso possibile a cui destinarla si susseguono nel tempo varie proposte: costruire una serie di  botteghe,  costruire  un  edificio  che  ospiti gli uffici giudiziari.  Ma nonostante le laboriose trattative tra i Domenicani e la Comunità la situazione non si sblocca.

La fiancata della chiesa è però talmente indecorosa da richiedere una soluzione: prende così sempre più consistenza l’idea di mascherare tutto con un prospetto dignitoso. Questa determinazione è del 1837, ma solo nel 1844 si poté dare inizio ai lavori, dopo interminabili scontri e discussioni tra i Consiglieri che portarono infine alla scelta del progetto presentato dall’architetto modenese Luigi Poletti (figure 12 – 14).

Era questi celebratissimo in quegli anni in tutto lo Stato Pontificio: accenniamo di passaggio che stava ristrutturando la Basilica di San Paolo a Roma e stava ricostruendo i teatri di Rimini, Terni e Fano. Il suo progetto prevedeva di coprire la fiancata di San Domenico con un rivestimento neoclassico ornato da otto colonne con capitelli ionici. Il Poletti propose anche la costruzione di una struttura centrale destinata a contenere le due campane dell’orologio pubblico,  una che batteva le ore e una che batteva i quarti.
 E’ questo un  esempio  della  totale  indifferenza  che si provava a quel tempo per i monumenti medioevali e del gusto esteriore delle mascherature pseudoclassiche. Si deve però riconoscere che il Poletti assolse il suo compito in modo equilibrato e maestoso, anche se oggi solo con l’ausilio di vecchie stampe e fotografie è possibile avere un ‘idea dell’aspetto originario, aspetto che sarà completamente stravolto, come vedremo, nel 1911, dall’architetto Edoardo Collamarini.

Questo prospetto subì varie modifiche. Nelle incassature sottostanti gli archi vennero inserite cinque iscrizioni celebrative di personaggi e avvenimenti  storici.  In  apposite  nicchie  laterali  vennero  sistemate due statue in marmo, alte m.2,70, dedicate rispettivamente a Gioachino Rossini e a Giulio Perticari, opera dello scultore veneziano Pietro Lorandini. Altri addobbi, ma di natura del tutto temporanea, vennero sistemati in occasione della visita di Papa Pio IX: tra questi una grande statua del pontefice benedicente.

Ma le modifiche erano ancora ben lontane dall’essere terminate: dopo il 1860, con l’annessione delle Marche al Regno d’Italia, sia la chiesa che la facciata polettiana avrebbero subito radicali trasformazioni.
Il Consiglio Comunale, in base ad un Regio Decreto,  sciolse, tra le altre, anche la comunità domenicana e acquistò regolarmente la chiesa e il chiostro. Questi furono trasformati in un primo momento in caserma della Guardia Nazionale e scuderia per truppe a cavallo. Successivamente, nel 1866, adibiti a Distretto Militare: a tale uso furono destinati fino al 1872, anno nel quale il Distretto venne trasferito nel Convento di San Giovanni, in via Passeri (fig. 15).

Dopo il 1901 i locali del convento che si affacciavano su Via Giordano Bruno furono assegnati alla “Scuola d’Arte applicata all’industria”, istituita con Regio Decreto nel 1887.
Come noto, dal 1930 la scuola è dedicata alla memoria di Ferruccio Mengaroni, morto tragicamente nel 1926, schiacciato dalla sua Medusa (oggi all’ingresso dei Musei Civici) mentre ne curava la sua collocazione alla II biennale d’arte nella Villa Reale di Monza.
Nel 1903 il chiostro venne adibito a Mercato delle Erbe.
La chiesa continuò ad ospitare le truppe in transito fino al 1911, quando iniziarono i lavori per il suo adattamento a sede degli Uffici provinciali delle poste e telegrafi. Questi erano precedentemente sistemati al piano terreno del Palazzo Ducale, occupando l’odierna Sala Laurana e altri locali. L’ingresso per il pubblico era sotto il porticato, ricavato nel muro all’altezza del primo arco (fig. 16).

Anche questa destinazione fu deliberata solo dopo infinite polemiche, vivaci proteste, tormentate riunioni del consiglio comunale.  In un primo momento (marzo 1909) l’esecuzione del progetto, predisposto dall’architetto bolognese Edoardo Collamarini già dal 1904,  dovette essere accantonata per i dubbi espressi dal Genio Civile circa la stabilità della facciata polettiana.  Nel settembre 1909 si passa all’amministrazione Tombesi: in un primo momento questa amministrazione   pensa    all’abbattimento     della    facciata    e    alla costruzione di una sede ex novo nella Piazza Mamiani, ma, in seguito alle proteste di molti cittadini, che si rivolsero al Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, Tombesi dovette ritornare sulle proprie decisioni. Il Consiglio Superiore, dopo un’ispezione da parte di un gruppo di artisti, si espresse a favore del mantenimento del prospetto e all’adattamento del vecchio stabile a palazzo postale, sulla base del progetto Collamarini con opportune modifiche dal lato sia artistico che tecnico. Fu inoltre chiesta la collaborazione di un superesperto: l’ingegner Ettore Lambertini, già assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Bologna (figure 17 e 19).

Il nuovo progetto  prevedeva l’eliminazione  delle lapidi con iscrizioni sotto gli archi, l’apertura di numerosi finestroni, l’abbattimento della torretta con la campana e l’orologio, la scomparsa dell’alto basamento continuo, l’apertura di un ampio ingresso sormontato da un balcone, la costruzione di un attico, sul   quale   fu  incisa   la seguente iscrizione:

A MAGGIOR DECORO E UTILE DELLA CITTA’
SULLE ROVINE DI UN TEMPIO CON LA FRONTE POLETTIANA RIDOTTA
SORSE QUESTO PALAZZO DELLE POSTE E DEI TELEGRAFI
AUSPICI IL MUNICIPIO E LO STATO
MCMXIII
Approvato nel febbraio 1911 il progetto fu portato a termine nel 1913.

L’anno successivo terminarono i lavori anche sul lato prospiciente via Branca. In questa occasione fu abbattuto anche il campanile (fig. 18).

L’architetto anconetano Guido Birilli procedette alla decorazione del salone destinato al pubblico utilizzando un fregio e delle formelle in ceramica, opera di Vincenzo Molaroni (fig. 20).

In realtà il fregio era stato predisposto per l’Esposizione di Torino del 1898 in occasione del cinquantenario dello Statuto (ecco perché c’è la raffigurazione di un toro). Anche le formelle in ceramica erano destinate altrove: all’ Esposizione Etnografica e Regionale di Roma organizzata nel 1911 per celebrare il cinquantenario dell’unità d’Italia. 

Fortunatamente né il fregio né le formelle furono utilizzati per lo scopo per il quale erano state ideati e il Birilli poté recuperarli. L’inaugurazione ebbe luogo l’11 ottobre 1914, alla presenza del Sottosegretario alle Poste, onorevole Girolamo Marcello.

Per l’occasione fu stampata una cartolina commemorativa rappresentante il progresso nella comunicazione e nei trasporti, con il portale di San Domenico alla base (fig. 21). L’originale, di grandi dimensioni, del prof. Giuseppe Porcini,  restò esposto in una vetrina del Corso e poi offerto in omaggio dal direttore delle Poste al Ministro, on. Riccio.   
Nel 1927 si decise la sostituzione della scritta originale dell’attico con un  brano  del  discorso  del  18  agosto  1926,  con  il  quale  Mussolini lanciava la promessa della rinascita economica dell’Italia. Il testo dell’iscrizione era il seguente:


DIFENDERO’ LA LIRA FINO ALL’ULTIMO SANGUE
FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
NON INFLIGGERO’ MAI AL POPOLO ITALIANO
L’ONTA MORALE E LA CATASTROFE ECONOMICA
DEL FALLIMENTO DELLA LIRA
MUSSOLINI
ANNO IV DELL’ERA FASCISTA

Ai lati erano presenti due gigantesche figure femminili con cornucopia da cui uscivano monete (fig. 22). La cosa non piacque neanche a Mussolini, che, passando per Pesaro poco tempo dopo, chiese una nuova sistemazione. Nel 1945 fu sostituita dall’iscrizione attuale (Direzione Provinciale Poste e Telecomunicazioni).

Da allora il Palazzo delle Poste non ha subito modifiche di rilievo all’esterno. Nel 2006 è stato completamente ristrutturato l’atrio, che ha così assunto un aspetto più moderno, arioso e funzionale.