La finestra

La vecchia aprì con un sorriso orgoglioso la porta consunta ma accuratamente lustrata della stanza al secondo piano.
“Questa è la stanza migliore della casa” disse con tono complice, “ci hanno abitato molti studenti prima di lei. E tutti sono rimasti molto soddisfatti.”
Si fece da parte per lasciar passare il giovane, che fece qualche passo nella stanza, guardandosi intorno con malcelata diffidenza. L’ambiente non aveva proprio niente di così speciale: un armadietto, un letto, un vecchio cassettone il cui stile, se così si voleva chiamare, nulla aveva a che vedere con gli altri mobili, un lavandino e un portasciugamani seminascosti dietro una rientranza della parete, un tavolino con due sedie dalla spalliera alta e pretenziosamente imbottita con un liso velluto giallo, costituivano lo squallido arredamento di una cameretta dal soffitto alto e dalle pareti ricoperte con una sbiadita carta da parati a foglie verdi, in più punti scollata e graffiata.
“Lei cosa studia?” chiese la vecchia con la sua vocetta accuratamente impostata.
“Medicina.”
“Ah, un dottore! Bravo, bravo. E come si chiama?”
“Giovanni”
Le risposte laconiche dovettero evidentemente scoraggiarla, perché non chiese più nulla e aspettò, tenendosi in disparte, che lo studente terminasse di esplorare la stanza. Giovanni esaminò distrattamente ogni particolare, ma l’espressione di disappunto sul suo viso diveniva sempre più evidente, tanto che la donna scosse impercettibilmente il capo, come preparandosi ad un rifiuto.
Poi Giovanni si avvicinò alla finestra e guardò fuori.
Al di là di due logore persiane chiuse, ricoperte da una polverosa vernice marrone, la vista prendeva il volo nel verde sfolgorante di un incantevole parco, con alberi di vario genere, dal fusto slanciato e dalle chiome rigogliose. Ciuffi d’erba incolta nascondevano la base dei tronchi e diversi cespugli coprivano la maggior parte di un piccolo prato in declivio, evidentemente abbandonato a se stesso da parecchio tempo. Sulla sommità del declivio, alla sua sinistra, si poteva ammirare il lato di una gradevole costruzione che Giovanni giudicò dei primi del novecento, dipinta con le calde tonalità dell’ocra e del rosso mattone, animata da lucide persiane di un verde brillante e da una grande vetrata al primo piano che dava su un terrazzo, dal quale, per mezzo di una scala grigia che compiva un mezzo cerchio, si scendeva nel parco.
“Bella eh?” sentì la vecchia dire alle sue spalle, bisbigliando, come se stesse rivelando un segreto. “E’ la villa di un architetto. Gente molto strana, non fanno amicizia con nessuno.”
“Sì, c’è veramente una bella vista da questa finestra” disse Giovanni lentamente, quasi con rispetto, distogliendo a malincuore lo sguardo da fuori. “Anche la stanza mi piace” aggiunse girandosi e guardando l’affittacamere in modo più cordiale. “Anche il prezzo che mi ha detto prima al telefono mi sembra ragionevole. Se per lei va bene porto subito qui la mia roba.”

 

I giorni si susseguivano identici, con il tempo equamente distribuito tra le lezioni del mattino, lo studio del pomeriggio, i pranzi e le cene nelle trattorie a buon mercato che si affacciavano numerose e maleodoranti nei vicoli della città universitaria. Aveva legato poco con i compagni di corso e il suo carattere taciturno lo spingeva più che altro a lunghe peregrinazioni senza meta, ad approfondire la conoscenza della città, dei suoi fascinosi palazzi antichi, dei suoi angoli silenziosi, dove la storia sembrava più intensa, più spessa e il passato si svelava con maggior evidenza e malia che nei monumenti famosi, abitualmente infestati dai turisti.
La stanza presa in affitto, e a cui aveva finito per affezionarsi, era divenuta il suo rifugio. Ritrovava i suoi libri, la sua musica, i poster che riproducevano manifesti di vecchi film americani e con i quali aveva cercato di porre rimedio alla desolazione delle pareti. Ritrovava, soprattutto, la finestra. Dalla quale non si stancava mai di vagare con lo sguardo e perdere se stesso nell’intrico del fogliame, nei percorsi tortuosi tra i cespugli, nel sontuoso tappeto verde su cui si adagiava, scura e misteriosa, l’ombra dell’incombente casa padronale, sempre silenziosa e immobile, quasi fosse disabitata.
Ma quella sera la casa prese vita. Mentre Giovanni era come al solito alla finestra, a godersi l’intervallo tra una pagina e l’altra del faticoso esame che stava preparando, dietro la grande vetrata del primo piano si videro scorrere i tendaggi, aprendosi lentamente come un sipario.
Subito la sua attenzione e la sua curiosità furono destate dall’evento inconsueto. Qualcosa di simile all’ansia si impadronì del suo sguardo e lo fece convergere sulla figura che si avvicinava alle porte a vetri, facendole scorrere e uscendo quindi sul terrazzo.
Giovanni per un attimo si sentì sospeso nel vuoto: era apparsa, illuminata in modo quasi irreale dalle ultime dorate luci del tramonto, una figura di donna. Movendosi sinuosa e incorporea, come scivolasse sul pavimento, si avvicinò alla balaustra del terrazzo, vi appoggiò le mani e guardò lontano, con espressione indefinibile.
Giovanni non riusciva a muoversi, né a deglutire, poteva solo fissare quella che sembrava un’apparizione magica, tanta era la suggestione ipnotica, la sottile attrazione che si diffondeva nell’aria come un’essenza esotica. Ora vedeva molto bene la donna grazie alla luce radente del tramonto: indossava un abito scuro, lungo, con uno spacco ardito che risaliva lungo la coscia. Era un abito molto semplice, ma di pregevole eleganza e metteva in risalto una figura perfetta: gambe interminabili, vita sottile sopra un bacino stretto e due glutei piccoli e aggressivi che tendevano la stoffa in modo impudico. Una cascata di capelli biondi, screziati da ciocche più scure e naturalmente ondulati, scendeva sulle spalle angolose, contraddette da un seno che si indovinava morbido e abbondante. La distanza, sia pure di pochi metri, faceva sì che solo in un secondo momento si restasse colpiti e disorientati da quello che era in realtà il particolare più notevole: gli occhi, grandi e chiari, che sembravano raccogliere in sé tutta la residua luce del giorno, avevano al centro due pupille strette e scurissime, la punta di una lama acuminata che metteva addosso un indefinibile senso di disagio.
La donna trasse un profondo e vistoso sospiro, come se la vista del parco, nella luce pulviscolare della sera imminente, avesse sciolto una qualche tensione interna che la tormentava. L’orgoglioso seno si sollevò più volte, evidenziato dai guizzi di luce rossastra, come volesse appropriarsi dell’aria fresca della crepuscolo prima che la notte se ne impadronisse. Poi lei alzò lentamente il capo e guardò in alto, verso la finestra di Giovanni, che si ritrasse di colpo, imbarazzatissimo. Non abbastanza velocemente però da evitare quello sguardo incredibile, che non si limitò a registrare la sua immagine ma gli entrò dentro e mise in discussione la sua razionalità. A Giovanni parve che il cuore saltasse alcuni battiti e il tempo si fermasse: in realtà trascorsero solo pochi secondi durante i quali la donna lo fissò con assoluta indifferenza. Poi socchiuse le ciglia, sorrise in modo ambiguo e si girò per rientrare in casa, con la studiata leggerezza da palcoscenico che sembrava contraddistinguere tutti i suoi movimenti. E scese subito l’oscurità della notte.

“Dicono che il marito sia gelosissimo” sussurrò la vecchia con la sua solita aria complice. “Quando qualcuno suona alla porta, la socchiude appena e caccia subito l’importuno. Sempre con cortesia però.”
“Ma si saprà pure qualcosa di più preciso” insistette Giovanni, che dal giorno in cui aveva scoperto l’esistenza della sua vicina di casa, tormentava l’affittacamere con continui interrogatori. “Non è possibile che lui o lei non siano entrati in qualche negozio, qui nella strada. O che il postino… qualche donna delle pulizie… che ne so… non si siano lasciati andare a qualche confidenza.”
“Che io sappia, mai. Arriva una donna, per i lavori, tre volte la settimana, ma viene da lontano e nessuno ci ha mai parlato. Insomma si fanno i fatti loro. Lui lavora fuori, esce al mattino con la macchina e torna alla sera. Lei l’ho incontrata solo una volta che andava all’edicola a comprare dei giornali. Com’è bella però! Com’è alta, e come cammina: sembra una modella!” sospirava la vecchia, ricordando forse una giovinezza modesta e guardando Giovanni con gli occhietti vivaci e indagatori, divertendosi per quell’innamoramento ridicolo e disperato.
Ma Giovanni aveva realmente perduto la testa. Non riusciva a togliersi dalla mente quella figura che agitava dentro di lui un groviglio di sensazioni. Il grosso volume che stava studiando giaceva aperto sul tavolo sempre alla stessa pagina, le sue uscite si erano fatte meno frequenti, i suoi appostamenti alla finestra sempre più lunghi, per non perdere assolutamente quel grappolo prezioso e ineffabile di secondi durante i quali lei si sarebbe nuovamente concessa alla sua vista: ne aveva bisogno, doveva provare di nuovo quell’emozione sconvolgente, che anche dopo un solo assaggio aveva creato una dolorosa dipendenza.

 

Era rincasato in fretta. Dopo un pranzo svogliato e di qualità scadente, tirandosi dietro la sua ombra lungo i marciapiedi surriscaldati da una bella giornata di maggio. Si chiuse la porta alle spalle, assaporando il fresco della stanza, e, come sempre, prima di ogni altra cosa, si diresse alla finestra come un automa e guardò fuori.
Lei era là.
Si ritrasse di colpo, come se qualcosa gli avesse ustionato il viso. Una mano invisibile gli strizzò lo stomaco e un’ansia febbrile cominciò a corrergli per tutto il corpo. Chiuse gli occhi e deglutì, per concedersi un attimo di pausa e recuperare un minimo di forza per affrontare nuovamente la visione e analizzarla meglio: perché la donna offriva di sé uno spettacolo emozionante. Era coricata su una sedia a sdraio, coperta solo di una leggera vestaglia semitrasparente, che, più che nasconderla, sottolineava la seduzione di una nudità apparentemente totale. Gli occhi ipnotici erano fortunatamente chiusi, il capo inclinato all’indietro per offrire meglio il viso alla carezza del sole, mentre la massa dei capelli color miele scendeva libera e fluente fin quasi a terra. Il seno, nonostante la posizione quasi supina del corpo, ignorava ogni legge di gravità e si spingeva arditamente verso l’alto, tendendo ritmicamente la stoffa impalpabile secondo il tranquillo ritmo del respiro.
Sempre più rapido era invece il respiro di Giovanni, che, immobile dietro le persiane, non perdeva una frazione di secondo di quella vista, temendo potesse dileguarsi da un momento all’altro. Fece scorrere lentamente lo sguardo lungo il corpo flessuoso, percorse più volte le gambe lunghe e ben tornite, si fermò infine sul punto che subito aveva attirato la sua attenzione, ma che, per l’eccessivo turbamento, non era ancora riuscito ad esaminare direttamente: la zona d’ombra che la vestaglia, scivolando, scopriva tra la morbidezza, quasi dolorosa da guardare, delle cosce candide.
Forse risvegliata per telepatia, disturbata da quello sguardo ardente, la donna aprì di colpo gli occhi, fissandoli subito in direzione della finestra. Giovanni era seminascosto dalle persiane, nell’ombra della stanza, ma lei sembrò indovinare la sua presenza, perché sorrise impercettibilmente. Poi, con la massima naturalezza, compì un gesto semplice e meccanico, ma che per i sensi sovreccitati di Giovanni risultò quanto di più erotico egli avesse mai immaginato. Sempre guardando verso di lui e accentuando l’enigmatico sorriso, cominciò a muovere da un lato all’altro, lentamente e ritmicamente, una delle due ginocchia, così che la zona d’ombra tra le cosce, oggetto della sua disperata attenzione di poco prima, veniva alternativamente aperta e chiusa, illuminata e nascosta, come un simbolico invito, una bruciante provocazione.
Poi, di colpo, lei girò vivamente il capo verso la portafinestra, come se qualcuno o qualcosa avesse richiamato la sua attenzione. Si alzò di scatto dalla sdraio e rientrò in casa.
L’anima di Giovanni annaspò come se avesse perso l’equilibrio. I suoi occhi fissarono ancora per pochi minuti la scena vuota, poi i vetri che venivano chiusi da dentro lo convinsero che lo spettacolo era finito. Era talmente eccitato che, per un attimo, pensò alla masturbazione come all’inevitabile sbocco della sua circolazione in piena come un fiume. Ma la sua mente, un attimo dopo, era già lontana: rivedeva il viso della donna, quello sguardo incredibile, e tutta la sua tensione corporea si sublimava in uno stato eroico di rarefatte emozioni.
“Chi l’avrà chiamata?” pensava, “di sicuro quel rompiballe del marito, accidenti a lui! Dio, che eccitazione! Stavo quasi per venire senza bisogno di toccarmi!” sogghignò tra sé e sé. “Ma io devo rivederla, devo incontrarla, parlarle…”
E subito ripiombava nella disperazione: “Già, ma come faccio? Quelli stanno sempre chiusi in casa… non posso mica suonare il campanello col rischio che mi apra lui. Il telefono è fuori discussione: non hanno neanche il numero sull’elenco. Devo appostarmi con santa pazienza vicino al cancello… sì, farò così, posso resistere ore, giorni, “si entusiasmava. “Dovrà pur uscire da sola una volta o l’altra! Ma potrebbe ignorarmi… e poi se uscisse in macchina non avrei tempo che per una parola…”
Quest’ultima considerazione gli richiamò alla mente una situazione romanzesca, rimasta in qualche angolo del cervello dai tempi del liceo. In un racconto provenzale del duecento, una certa Flamenco è severamente custodita in una torre dal marito gelosissimo. Un giovane cavaliere, conosciuto il fatto e sentita decantare la bellezza della donna, riesce a comunicare con lei con uno stratagemma: poiché l’unico contatto di Flamenco con il mondo è nella cappella, alla messa della domenica, il cavaliere si fa chierico, ma ha solo un breve attimo ogni settimana per parlare con la donna desiderata, quando si china verso di lei per porgerle il Vangelo da baciare, sotto l’occhio vigile del marito. Il tempo di una parola! Una parola da meditare a lungo, indagare in ogni suo significato e in ogni sua capacità comunicativa, perché una scelta affrettata potrebbe essere fatale. Il cavaliere decide di puntare tutto su un semplice sospiro: “Ahimé!”. Inizia così il tormento dell’attesa di un’eventuale parola di risposta, il dubbio se la donna abbia capito o no il suo sentimento, e, dalla parte di lei, un analogo sentimento di aspettativa, l’incuriosita analisi di ciò che ha sentito, la decisione, infine, di rispondere: “Di che ti lamenti?”. Così lo strano dialogo continua, di settimana in settimana, fino a quando i due riescono ad organizzare un incontro amoroso e soddisfare tanto struggenti attese.
“Ecco la soluzione!” disse Giovanni ad alta voce, al colmo dell’entusiasmo. “Farò anch’io così! L’avvicinerò un istante, le dirò che l’amo come un pazzo, che sto morendo, non potrà fare a meno di esserne colpita, di rimuginarci sopra. E quando la rivedrò dovrà pur dirmi qualcosa, rilanciare, come la donna del romanzo. Sento che anche lei è incuriosita da me, che non è felice col marito…”
Andò avanti a meditare sul suo piano per tutto il giorno, senza che la sua agitazione febbrile si allentasse anche un solo minuto. Studiò un po’ senza capire quello che leggeva, senza neanche vedere le righe che scorrevano veloci all’insù come i titoli di coda di un film.

Ormai aveva perso ogni speranza: infreddolito, con le membra intorpidite dalla prolungata immobilità, intriso fin dentro l’anima dalle minute gocce di umidità che, già dal mattino, avevano creato un velo di grigio sul bel cielo del giorno prima, Giovanni continuava a fissare intensamente il cancello della villa, come se volesse farlo aprire con qualche misteriosa facoltà paranormale.
Aveva scelto una posizione strategica, seduto all’estremità di una panchina dalla quale riusciva a vedere bene la casa, con un giornale in mano che gli forniva un alibi poco credibile. A metà mattina era uscito il marito, con sua grande gioia, ma della signora neanche l’ombra. La tentazione di suonare il campanello era stata forte, ma non ne aveva avuto il coraggio. Nel tardo pomeriggio il marito era ritornato e ora non c’erano che due possibilità: sarebbero rimasti tutta la sera in casa o sarebbero usciti insieme per la cena o per un dopocena. Fallimento completo dunque, ma era solo il primo giorno, pensava Giovanni. E intanto, non avendo niente di meglio da fare, ripassava la sua parte, riesaminava i suoi punti di forza, si preoccupava che l’insistente pioggerellina avesse guastato, al pari del giornale che aveva in mano, ormai molle e cascante, anche il suo aspetto. Quell’aspetto di ragazzo per bene, con l’espressione ancora adolescente, con lo sguardo brillante di curiosità che animava due occhi nerissimi: sapeva di piacere alle donne e avrebbe fatto colpo anche sulla bella sconosciuta, ne era sicuro.
Accidenti! Per poco non rovinava tutto! Il cancello si stava aprendo! Gettò via il giornale balzando in piedi e dirigendosi rapidamente verso la macchina, che stava già uscendo e si fermava sul passo carrabile che interrompeva il marciapiedi, in attesa di immettersi nel traffico della via. Giovanni, stranamente, registrò per prima cosa il riflesso splendente dei fanalini rossi sull’asfalto bagnato, poi guardò il finestrino dal lato del guidatore e restò abbagliato dalla macchia luminosa che formavano i capelli biondi nell’abitacolo scuro: la donna era sola! Accelerò l’andatura, mentre il cuore cominciava a martellargli impietosamente il petto e arrivò alla macchina ansimando, appoggiando una mano sul tetto e chinandosi a guardare dentro. La sua espressione doveva essere commovente, oppure lei lo aveva riconosciuto, perché azionò l’abbassavetri elettrico e lo guardò con aria interrogativa, forse anche un po’ divertita. Giovanni si fece forza, cercò di ignorare l’effetto sorprendente di quello sguardo che finalmente vedeva da vicino: doveva dire le parole che aveva scelto con cura, come il cavaliere del romanzo. Aveva solo un attimo.
“Sto morendo” disse con l’intonazione più seria ed accorata che riuscì a trovare.
La donna lo fissò a lungo senza parlare, sospendendo il tempo, poi i suoi occhi incredibili assunsero un’espressione leggermente addolorata e, senza la minima traccia di una qualche intenzione beffeggiatrice, disse: “Mi dispiace”. Mi dispiace. Un sussurro più che una frase, emesso con voce bassa e melodiosa, con appena un accenno di echi metallici, come se avesse premuto il tasto loudness dello stereo prima di parlare.. Chiuse il finestrino e con un colpo di acceleratore si inserì abilmente nella fila di macchine che percorreva velocemente il grande viale alberato.
Giovanni si raddrizzò lentamente, guardando inebetito nella direzione verso la quale la macchina si era avviata. Era felice! Il suo piano era riuscito, lei gli aveva parlato e, almeno per ora, non voleva esaminare a fondo il significato di quello che lei gli aveva detto. Si sentiva esausto ma soddisfatto. Sull’asfalto bagnato luci rosse, bianche, arancione continuavano a inseguirsi e intrecciarsi come elementi astratti di una danza luminosa sullo sfondo che la pioggia e la notte ricoprivano di una lacca nera, lucida e splendente.
Giovanni si girò e si avviò adagio verso casa. Poi cambiò idea, fece un ampio sorriso agli alberi grondanti come lui, si scrollò l’acqua dai capelli e disse ad alta voce: “Cavolo, ma bisogna festeggiare! Sii più allegro amico mio! Cameriere!” chiamò ad alta voce, come un ubriaco, col dito rivolto ad un lampione. “Una Napoli con mozzarella di bufala e una birra media!” E si diresse allegramente verso un ristorantino che frequentava abitualmente, ridendo di se stesso e sentendosi forte e potente come un gladiatore vittorioso.

 

I giorni seguenti corsero via leggeri, inseguendo a fatica i suoi pensieri e le sue illusioni. Si era impadronito di lui un ingiustificato entusiasmo, che gli faceva compiere ogni cosa di corsa, come se dovesse andare da qualche parte. Si sorprese a cantare mentre faceva le scale, a sorridere mentre camminava per la strada: mandò perfino un bacio alla vecchia affittacamere che lo aveva incrociato a pochi passi da casa e lo aveva guardato sorpresa, scuotendo la testa.
Faceva mille progetti. Costruiva ad occhi aperti mille situazioni che finivano immancabilmente con un convegno d’amore, durante il quale la misteriosa e seducente vicina di casa gli offriva da baciare una bocca morbida e succosa, frutto maturo violato da un morso impaziente. Oppure, fissandolo intensamente negli occhi, scopriva con un gesto rapido, quasi strappandosi l’abito, un seno grande e bianco nel quale egli sprofondava, perdendo insieme l’equilibrio e la ragione. Di più non osava immaginare, per il timore di non riuscire a controllare la tensione che si impadroniva di lui.
Un mattino si decise. Doveva fare almeno una cosa, semplice ma concreta. Ordinò un mazzo di fiori in un negozio, scegliendo personalmente e con cura l’abbinamento dei colori che pensava rappresentasse meglio il suo stato d’animo e diede alla fioraia l’indirizzo della donna che occupava ormai ogni suo pensiero.
“Vuole allegare un biglietto?”
“No, grazie!” rispose dopo un attimo di indecisione alla commessa: non voleva certo affidarsi a qualche stupida frase, alla brevità ipocrita dei convenevoli, che non avrebbero mai potuto esprimere degnamente la complessità e la forza dei suoi sentimenti. Non diede nemmeno il suo nome: lei avrebbe capito e avrebbe potuto trarsi d’impaccio più facilmente qualora il marito le avesse chiesto spiegazioni.
Il mazzo di fiori fu solo il primo di una lunga serie. Così come vi furono altri appostamenti sempre più audaci e lunghe sedute di attesa davanti alla finestra. La donna però non si fece più vedere. Giovanni non sapeva cosa pensare. Aveva intravisto qualche volta il marito che, presumibilmente, andava al lavoro e che lui aveva cominciato a odiare intensamente: forse i fiori avevano fatto precipitare una situazione di sospetto e di gelosia, forse lei era segregata in casa, forse lui l’aveva picchiata… il solo pensiero lo faceva impazzire, si sentiva così feroce e vendicativo, in certi momenti, che, se avesse incontrato l’uomo, avrebbe sicuramente commesso qualche grossa sciocchezza.

 

Rilesse ancora una volta la poesia che aveva scritto, o meglio, che aveva trascritto, quasi sotto dettatura, visto che gli si era affacciata alla mente da sola, senza che lui l’avesse cercata, nata sicuramente dalle sue esasperate sensazioni degli ultimi giorni, composta da qualche altro suo io, nascosto chissà dove nelle pieghe del cervello.
Il sole apre ormai
a fatica
gli occhi dei miei sogni,
nella mia mente
solo l’eco di un fruscio
di farfalla
e nelle mie orecchie
il respiro dell’anima
che attende la sera.
Ho voglia solo
di parlare di te,
voglio solo ascoltare
il profumo della tua voce
rimasto in fondo alla mia gola.
Se chiudo gli occhi
ti vedo passare
a cavallo di una rondine,
ti vedo appollaiata
sulla luna,
e sento nella mia carne
l’ansia dei fiori
che cercano la luce.
Ma basta un tuo sorriso
e i gelsomini invidiosi
gireranno le loro eliche
a guardarti,
basta un tuo sorriso
e nella mia voce
si riaccenderà il calore
della sabbia.

Credo che d’ora in poi
non potrò più vivere
se non dentro i tuoi occhi.

“Madonna, che sfilza di stupidaggini! Come ho fatto a pensare che le potesse piacere una cosa simile?” si chiese, pieno di dubbi, esasperato e vergognoso per questa melensaggine da liceale. Fissava quasi con odio quei poveri versi rimasticati dai poeti che aveva amato anni prima, ingenuo sfogo di un povero imbecille con una cotta clamorosa. D’altra parte non gli era venuta un’idea migliore per sbloccare la situazione.
“Oh, insomma, basta! Gliela mando. Capirà i miei sentimenti anche se espressi in modo così impacciato.” Piegò con decisione il foglio in quattro, lo mise in una busta che chiuse accuratamente e vi scrisse sopra il cognome che figurava sulla pulsantiera del cancello, facendolo precedere dall’indicazione “Gentile Signora”. Che diavolo! Il marito non avrebbe osato aprirla.

Un brivido sottile gli attraversò il corpo. La donna, la sua donna, era appoggiata alla balaustra del terrazzo e guardava inequivocabilmente in direzione della sua finestra. Un esaltante senso di trionfo si impadronì di lui, dunque aveva funzionato, mettere a nudo i propri pensieri e le proprie sensazioni con quella poesia era servito a qualcosa. Avrebbe voluto gridare, correre da lei, ma quello sguardo che ormai conosceva bene aveva ancora su di lui un effetto ipnotico e lo tenne inchiodato al suo punto di osservazione.
Qualcosa però non quadrava. Se ne rese conto subito. Lei era troppo immobile, l’espressione troppo indecifrabile, neanche un piccolo accenno, una lieve sfumatura di quel sorriso che una volta gli aveva indirizzato. Teneva le braccia abbandonate lungo il corpo; le spalle, abitualmente erette, avevano un’aria esausta, il seno orgoglioso appariva più cedevole. Ma quello che smorzò rapidamente l’eccitazione di Giovanni fu un esame più attento degli occhi: quei grandi occhi chiari, che a stento si potevano fissare per l’effetto inquietante delle piccole pupille scure, erano velati da un mesto avvilimento, lo fissavano ed entravano dentro di lui, in profondità, per inoculargli un velenoso malessere.
Poi, lentamente, lei chinò il capo, si girò e rientrò in casa, lasciando un disperato vuoto nell’aria della sera, l’acuta costernazione di un sogno interrotto.

 

La luce stentata di un cielo grigio entrò a fatica tra le persiane: il tempo era cambiato e, dopo una breve anticipazione dell’estate, l’aria si era fatta di nuovo umida e fredda. Giovanni si svegliò con la sgradevole sensazione di aver riposato poco e male. La sera prima aveva rimuginato a lungo la sequenza degli ultimi avvenimenti, girandosi infastidito nel letto finché un sonno pesante e agitato lo aveva sopraffatto.
La sua attenzione fu subito attratta dall’insolito tramestio che si udiva per le scale. Passi rapidi salivano e scendevano, alcune voci, basse ma concitate, si scambiavano parole dal suono allarmato e sorpreso.
Giovanni si infilò in fretta gli stessi abiti della sera prima, ammucchiati sulla sedia ai piedi del letto, si lavò sommariamente e uscì sul pianerottolo. Incontrò per prima l’espressione addolorata e impaurita della sua affittacamere che, vedendolo, aveva interrotto bruscamente un fitto parlottio con un’altra inquilina dello stabile.
“Che sta succedendo?” chiese.
“Oh dottore, che spavento, che brutta storia… dicono che hanno trovato un cadavere nella villa qui di fianco…”
Una folgorazione! Per qualche attimo l’improvviso turbamento lo lasciò sconcertato, poi un’idea agghiacciante si fece strada dentro di lui, dilagando nella mente con un effetto devastante: il marito l’aveva uccisa per gelosia! “Nooo…” gridò qualcuno dentro la sua testa e, curiosamente, egli sentiva l’eco intensa di quel grido mentre si precipitava a perdifiato giù per le scale.
“Se è così gliela faccio pagare… racconto tutto… quel porco schiavista… lei si era innamorata di me, lo so… e lui… maledetto assassino!” balbettava affannosamente mentre correva come un invasato.
Davanti al cancello c’era una grande animazione: gruppi di curiosi infreddoliti nell’aria livida fissavano la casa, mentre la luce azzurrina proveniente dal tetto di un’auto della polizia, ruotando, dava ai loro visi le tonalità irreali di un gioco elettronico. Un agente in divisa sbarrava l’ingresso: Giovanni pensò che doveva darsi una calmata, altrimenti l’avrebbero preso per matto, magari si sarebbe messo in qualche guaio, invece voleva essere ascoltato seriamente, doveva ispirare fiducia. Si rassettò gli abiti, si ravviò i capelli e si avvicinò con aria sicura ma cortese al poliziotto, convinto che l’aspetto da bravo ragazzo avrebbe giocato, come in tante altre occasioni, a suo favore.
“Mi scusi” disse, scegliendo con cura le parole e sorridendo con aria cameratesca, “io abito qui vicino. Penso di essere in possesso di informazioni importanti che riguardano questo caso. Potrebbe farmi parlare con il suo superiore che si sta occupando delle indagini?”
L’agende lo squadrò incerto, sembrava quasi sul punto di dirgli di andarsene, poi qualcosa dovette convincerlo.
“Aspetti qui” disse. Si avviò verso la casa, fece rapidamente i pochi gradini che conducevano all’ingresso e scomparve dietro il portoncino di legno scuro semiaperto, riemergendone subito dopo in compagnia di un uomo attempato con gli occhiali dalla grossa montatura nera, i baffetti brizzolati e un completo grigio su un maglioncino di identico colore.
L’uomo lo raggiunse camminando senza fretta, lo studiò per qualche secondo, poi gli porse la mano.
“Mi dicono che lei ha delle notizie per me.”
“Sì…” esitò Giovanni, “io so… penso di sapere… chi ha ucciso la donna. E perché.”
“La donna? Quale donna?” disse il poliziotto perplesso e leggermente esasperato, “qui c’è solo il cadavere di un uomo che si è sparato.”
“Un… un uomo…” balbettò Giovanni impallidendo.
“Ma sì, una nostra vecchia conoscenza. L’abbiamo fermato varie volte in locali per travestiti, ma poi l’abbiamo sempre dovuto rilasciare. In fondo era un vero signore, non dava fastidio a nessuno. Però con la parrucca e il tacco alto era veramente uno schianto! Chissà cosa gli ha preso stavolta: si è infilato la canna della pistola in bocca e… Ma… che c’è… si sente male?”
E afferrò per le braccia Giovanni, che, mentre cadeva, roteava gli occhi verso il cielo brumoso, forse per seguire il movimento del mondo che roteava anch’esso intorno a lui, vorticosamente, sprigionando luci abbaglianti ed emettendo un rombo sempre più assordante, per scomparire all’improvviso in un enorme buco nero.

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